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 2020  settembre 01 Martedì calendario

Inizia il processo per gli attentati di Charlie Hebdo

Fantasmi aleggiano nella grande aula della Corte d’Assise di Parigi. Il processo per gli attentati di Charlie Hebdo e dell’Hyper Cacher comincia domani nel tribunale disegnato da Renzo Piano nel quartiere Batignolles, per l’occasione diventato bunker sotto alta sorveglianza. Nel maxi-processo che durerà fino a metà novembre oltre duecento persone si sono costituite parte civile, più di centocinquanta testimoni sono chiamati a ricostruire quelle ore tra il 7 e il 9 gennaio in cui i terroristi colpirono un’intera redazione, agenti e poliziotti, clienti ebrei di un supermercato. Le udienze per tentare di ricostruire la follia integralista che ha portato alla morte 17 persone – tra cui i famosi vignettisti Wolinski, Cabu, Charb e Tignous – saranno filmate, circostanza eccezionale per la giustizia francese che non autorizza neppure le fotografie. La prima volta che delle telecamere sono entrate in un aula è stato negli anni ‘80, quando si trattava di giudicare il nazista Klaus Barbie.
Questa volta, sul banco degli imputati, ci saranno personaggi di seconda e terza fila, accusati di aver fornito armi, noleggiato macchine, partecipato alla logistica degli attentati islamici. I fratelli Kouachi entrati nel giornale al grido di “Allah Akbar” sono morti nella tipografia nella quale si erano rifugiati. Non ci sarà l’altro terrorista, Amedy Coulibaly, che ha ucciso una poliziotta, i quattro clienti dell’Hyper Cacher e ha voluto andarsene da “martire” durante l’irruzione delle teste di cuoio. Altri protagonisti come i fratelli Belloucine, famosi nella galassia della jihad francese, o la moglie di Coulibaly, Hayat Boumedienne, sono fuggiti in Siria. Morti o nascosti chissà dove. Fantasmi pure loro.
«Non posso nascondere la mia rabbia per queste pesanti assenze», si sfoga l’avvocata Samia Maktouf che considera il ruolo di Boumedienne centrale nella ricerca della verità. La lunga indagine che ha portato alle oltre trecento pagine dell’ordinanza di rinvio a giudizio non è riuscita a definire il nesso tra l’azione dei Kouachi e quella di Coulibaly, con rivendicazioni contraddittorie. I primi hanno intestato la strage di Charlie ad Al Qaeda nello Yemen. Il secondo ha lasciato un video in cui inneggia allo Stato islamico. «Il collegamento è Boumedienne e la sua amicizia con una delle mogli dei Kouachi», spiega Maktouf. «Le donne sono motori di questa storia», prosegue l’avvocata che lamenta il fatto che la Francia non abbia fatto arrestare Boumedienne quando era stata localizzata due anni fa in un campo di prigionia dei curdi.
Tra i quattordici imputati, l’unico per cui i pm sono riusciti a ottenere l’accusa di “complicità in atti terroristici”, con il possibile ergastolo, è il ventinovenne franco-turco Ali Riza Polat. Considerato il braccio destro di Coulibaly sarà difeso dall’avvocata del terrorista Carlos. Gli altri imputati sono tutti a giudizio per “associazione a delinquere terrorista” con un massimo di venti anni di carcere. I pm non hanno trovato una regia nella strage dei Kouachi, nonostante uno dei fratelli fosse stato in Yemen. Anche il predicatore sospettato di averli indottrinati, Farid Benyettou, non è tra gli imputati.
«Sarà un processo frustrante perché i fratelli Kouachi sono morti e l’inchiesta non ha permesso di risalire ai mandanti», commenta Riss, direttore di Charlie Hebdo. Il giornalista e scrittore Philippe Lançon, gravemente ferito al volto, dice: «Non mi aspetto né verità, né giustizia. C’è poco da capire. Erano ragazzi finiti in un’impasse esistenziale e poco intelligenti». Resta poco dello slancio che, subito dopo gli attentati, portò alla grande manifestazione con lo slogan “Je suis Charlie”. E oggi la Francia è forse ancor più tormentata da temi come laicità e integralismo, libertà d’espressione, antisemitismo. “Gli islamisti hanno vinto?”, si è domandato Le Point in copertina. La saggista Caroline Fourest pensa sia così. «Qualcuno oserebbe oggi pubblicare le vignette di Maometto che hanno scatenato l’attacco a Charlie Hebdo ? Onestamente penso nessuno». L’avvocato Patrick Klugman difende alcuni degli ostaggi dell’Hyper Cacher. Racconta che i suoi clienti si sentono vittime due volte: per il trauma subito e per essere stati dimenticati in un paese in cui gli atti e le violenze antisemite aumentano. «Questo processo sarà imperfetto, ma spero diventi un modo di sviluppare una forma di immunità collettiva». Ancora fantasmi da scacciare.