il Fatto Quotidiano, 31 agosto 2020
La dura vita del calciatore in pensione
Mentre tengono banco le discussioni sul possibile addio di Messi al Barcellona e sui 700 (diconsi settecento) milioni della sua clausola compromissoria, ci sono due notizie, apparentemente scollegate tra loro, che arrivano dal mondo del calcio e meritano invece di essere riconsiderate: la prima riguarda la truffa da 30 milioni di cui è stato vittima l’inquieto allenatore dell’Inter Antonio Conte, derubato da un investitore truffaldino; la seconda riguarda la scelta compiuta dal capitano della Reggiana Alessandro Spanò che a 26 anni, dopo aver centrato la promozione in serie B, massimo traguardo della sua carriera, ha conseguito la laurea in Economia e Management all’Unicusano e avendo vinto una borsa di studio per frequentare la Hult Business School ha deciso di abbandonare il calcio (vivrà per tre anni tra Shanghai, Londra e San Francisco) per abbracciare la nuova vita che grazie agli studi gli si è spalancata davanti.
Perché i due fatti sono solo apparentemente scollegati tra loro, essendo invece inestricabilmente legati? Per spiegarlo ci rifacciamo a un recente studio compiuto da Giuliano Stendardo, 39 anni, oggi avvocato e docente Luiss, ieri valido calciatore con lunghi trascorsi in A come difensore di Napoli, Lazio, Juventus, Lecce e Atalanta. Stendardo ha squarciato il velo sul finto “mondo dorato” del pallone denunciando l’alto rischio povertà cui vanno incontro a fine carriera (mediamente i problemi nascono cinque anni dopo il ritiro) i giocatori professionisti: il 40% in Europa e addirittura il 60% in Italia, dove tra serie A, B e C militano 3 mila calciatori di cui il 70% ha un livello d’istruzione da terza media e meno dell’1% ha la laurea. In un’intervista concessa a “Leggo”, Stendardo ha detto: “In Italia il giovane calciatore tende a trascurare l’istruzione e non si preoccupa di studiare e formarsi per il futuro. In più, fino a quando è in attività tende a seguire un tenore di vita alto che i buoni guadagni gli permettono. Il ridimensionamento, poi, è complicato e iniziano i disastri”.
Secondo Stendardo solo il 10% dei 3 mila professionisti guadagna cifre che consentono loro di non lavorare dopo il calcio. Nove su dieci devono reinventarsi in lavori nuovi, ma mal consigliati e a digiuno di educazione finanziaria incorrono in scelte e in investimenti sbagliati che compromettono, a volte irreparabilmente, la loro vita futura. Se sei Antonio Conte e ti fai infinocchiare 30 milioni da tal Massimo Bochicchio puoi pensare, grazie agli ingaggi di Suning, di recuperarli; se sei Roby Baggio e in compagnia di Costacurta, Carrera e Sebastiano Rossi investi 7 miliardi (di lire: siamo negli anni 90) in una fantomatica società di nome Imisa che estrae una rara e pregiata qualità di marmo nero in cave del Perù che nemmeno esistono, vinci il Pallone d’Oro e ti salvi in corner; se sei Gigi Buffon e perdi 48 milioni investendo nella Zucchi (industria tessile), provi a giocare fino a 50 anni per salvare capra e cavoli. Ma se ti chiami Piripicchio, la vita finito il calcio si fa dura. “Bisogna aiutare i giovani calciatori a studiare, informarsi e prepararsi in tempo per il futuro nel mondo del lavoro – sostiene Stendardo – serve un fondo di accantonamento per almeno 5 anni che dia agli atleti serenità economica, oltre a polizze vita che offrano rendite vitalizie. E bisogna che Lega e Figc facciano presto, perché i dati sono già drammatici”.