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 2020  agosto 31 Lunedì calendario

Il figlioccio di Salvador Dalí

Se Salvador Dalí avesse desiderato un erede sarebbe stato certamente lui, Joan, il piccolo «guappo» catalano dal sorriso malandrino e le gambe magre che il mago del Surrealismo mise in braccio alla moglie Gala per immortalare entrambi nella sua «Madonna di Port Lligat». Ma non voleva figli, probabilmente non poteva averne, sostengono i suoi biografi. E non era tipo da perdersi in labirinti burocratici per adottarne uno con tutti i crismi della legalità: «I geni non dovrebbero riprodursi» proclamava comunque.
Però i geni, anche quelli più algidi e meno inclini alla procreazione, possono affezionarsi. Ed è quello che deve essere avvenuto con il Bambin Gesù di uno dei suoi più celebri dipinti, alla fine degli anni 40. Lo stesso che gli fece da modello per l’Ultima cena del 1955. Quell’infante ha un’identità, Joan Figueras i Oliveras; e la sua esistenza non è mai stata nascosta, ma forse proprio perché era così palese, quasi nessuno si è mai chiesto che cosa rappresentasse veramente per l’eccentrica coppia quel bimbetto che sgambettava d’estate per la casa e il giardino di Port Lligat, residenza del pittore e della moglie Gala da aprile-maggio a ottobre-novembre.
Un libro di prossima pubblicazione in Spagna svela chi è. O meglio chi era, El niño secreto de los Dalí (Editoriale Roca). Non è l’ennesimo figlio illegittimo, o sedicente tale, che rivendica diritti sui beni dell’artista. Joan è morto 21 anni fa, dieci dopo il suo «padrino», senza mai consegnare alla stampa o alle stampe le sue preziose memorie. Senza pretendere nulla. Aveva 57 anni e riteneva di aver ricevuto abbastanza dai suoi benefattori. All’autore, José Ángel Montañés, è stata la vedova, Mercè Cabanes, a concedere finalmente accesso allo scrigno dei ricordi: foto, lettere, disegni. Tutto quanto accumulato in 34 anni di affetto e frequentazioni.
Anche se, per gli storici dell’arte, forse la vera rivelazione è l’istinto paterno di Salvador Dalí, le immagini mostrano una versione assai poco eccentrica del pittore e di sua moglie, a pranzo sulla terrazza di un hotel di Port Lligat, con Gala che tiene la mano al piccolo Joan; o tutti e tre sorridenti seduti ai piedi di un albero, quando il «figlioccio» ha già qualche anno in più.
Sì, «figlioccio»: così Dalí lo presentava ai giornalisti in visita al suo studio a Cadaqués, oppure ai vernissage dove il ragazzo accompagnava lui e Gala. Joan non era orfano. Suo padre, Jaume, imbianchino e amico di gioventù di Salvador, aveva partecipato alla ristrutturazione della casa dell’artista, e lasciava ben volentieri che il bambino frequentasse la coppia che si appassionava alla sua educazione: da come si tengono le posate a come si parla in francese. Che gli comprava splendidi regali negli Stati Uniti e che avrebbe voluto portarselo anche a New York, nei mesi invernali, se ciò non fosse sembrato eccessivo ai legittimi genitori.
Salvador cercò di avviare Joan a una carriera artistica, gli insegnò a disegnare, vagheggiò per lui un avvenire di attore. Gli presentò Umberto di Savoia, i Duchi di Windsor e Walt Disney, che gli regalò un completo da giocatore di baseball e una copia autografata di «Peter Pan». Ma il ragazzo scelse un futuro più semplice e anonimo: la bottega del padre, una fidanzata di Barcellona, una vita nell’ombra. Alla morte di Gala, nel 1982, Dalí si arroccò nel Castello di Púbol, isolato da tutti. Ma Joan c’era, defilato e silenzioso, ai funerali del Maestro, 7 anni dopo: «Mi ha amato più di mio padre» fu il suo solo commento.