Affari&Finanza, 31 agosto 2020
Debito buono e debito cattivo, la lezione di Vasco
L’idea che si possa facilmente distinguere il debito buono, quello con cui si finanziano le spese produttive, da quello cattivo, che non ha effetti diretti sulla crescita, non la prenderei come una verità rivelata. Quando la pandemia ha colpito l’economia italiana, la spesa indiscriminata con la quale il governo ha dato aiuti a pioggia era inevitabile per proteggere i più colpiti, consentire alle imprese di superare i momenti più duri ed evitare che la crisi sanitaria si radicasse come una recessione senza fine. Certo, il bonus monopattini e i banchi di scuola con le rotelle fanno pensare a una certa confusione mentale. Ma per il resto – cioè buona parte dei tre decreti (100 miliardi) che includono sia i sussidi, sia la cassa integrazione – potremmo dire che quel debito, apparentemente “cattivo” visto che non ha prodotto crescita (nel 2020 la caduta del reddito sarà di circa il 10%, con un disavanzo del 13%), ha salvato diverse famiglie e diverse imprese, ha cioè salvato delle vite.
La capacità di distinguere
Tuttavia, con il tempo ciò che è buono può diventare cattivo. Come dice Vasco Rossi “buoni o cattivi, non è la fine. Prima c’è il giusto o sbagliato, da sopportare”. E la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, quando il debito cattivo è utile e quando non lo è, sembra non far parte delle preoccupazione del governo. Rifiutare il finanziamento del fondo salva Stati per le spese sanitarie – debito che salva vite – ne è un sintomo, così come mantenere permanenti spese improduttive – gli 80 euro, forse anche quota 100, i nuovi sussidi senza scadenza e molte altre – che sono buone nelle emergenze, ma non lo saranno dopo di esse. Credo che a questo si riferisse l’ex presidente della Bce, Mario Draghi, quando, al Meeting di Rimini, ha introdotto nel dibattito pubblico italiano la distinzione nella qualità del debito. Si potrebbe dire che in realtà ci vuole qualità politica. Infatti, se vi chiedono se siete a favore o contro la spesa pubblica in debito, vedrete negli occhi del vostro inquisitore avanzare armato un intero apparato ideologico a cui è difficile opporre l’unica risposta tecnicamente sensata: «Più disavanzo? Dipende dalla stima del moltiplicatore fiscale». La scelta dipende infatti dalla stima delle variazioni del reddito causate (moltiplicate, appunto) da una riduzione o da un aumento dello stimolo fiscale. Il problema è che non esiste un solo moltiplicatore per ogni economia. L’effetto sul reddito della politica fiscale cambia a seconda delle circostanze: dipende dalle condizioni strutturali dell’economia, dalla fase del ciclo (è molto più alto quando si è in recessione), così come dalle dimensioni della manovra. Dalle evidenze empiriche emerge che gli effetti delle politiche fiscali cambiano se si è in una situazione di stress finanziario, se le condizioni del credito sono difficili, se il sistema bancario è vulnerabile, se la politica monetaria è restrittiva, oppure se esistono ragioni specifiche, anche di natura politica, che influenzano le decisioni di consumo delle famiglie. Brad De Long e Larry Summers, in uno studio pubblicato qualche tempo fa per Brookings e molto incline all’attivismo fiscale, riconoscono un’ampia variabilità del moltiplicatore che infatti cambia significativamente a seconda della fase del ciclo economico.
Gli effetti a breve e lungo termine
L’aspetto più interessante è proprio che esistono effetti di breve termine che non sempre vanno bene nel lungo. La spesa improduttiva quindi non può essere permanente. Perché, se dopo la recessione non rientra, finirà per produrre solo debito pubblico una volta che l’economia si riprende e il moltiplicatore si azzera. A proposito di qualità della politica: questo discorso sulla qualità del debito andrebbe fatto dal governo fin dalla erogazione dei sussidi, perché altrimenti chi li percepisce non ne capirà la revoca. Tutto ciò produrrà opposizione politica e antagonismo ideologico che renderanno ancora più difficile adottare le politiche più utili alla crescita.
La crescita, che in larga parte decide se un debito è sostenibile o no, è infatti il punto chiave. La mia ipotesi sul declino italiano degli ultimi decenni è che esista una dinamica negativa che accelera man mano che l’economia rallenta e il debito aumenta: chi investirebbe infatti in un Paese a crescita zero, visto che la redditività media del capitale non potrebbe essere che negativa (zero meno il rischio)? Tenendo conto del decreto di agosto, il disavanzo nel 2020 dovrebbe essere del 13% e a spanne quello del prossimo anno non sarà inferiore all’8%, escludendo altre crisi, con un debito pubblico che sarà di qualche punto sopra il 160% del Pil. Per il 2021 però il ministro dell’Economia si aspetta un notevole rimbalzo della crescita che probabilmente sarà quantificato nella Nota di aggiornamento del Def a settembre. Ipotizziamo che dal governo venga stimata una crescita di oltre il 6% nel prossimo anno. Non è mai successo negli ultimi 60 anni che un investitore italiano abbia potuto calcolare la redditività del proprio investimento sulla base di un aumento del reddito medio tanto forte. Il debito buono, in questo momento tanto speciale, è quello di spingere il più possibile gli investimenti privati e pubblici e subito dopo tagliare la spesa improduttiva. Non ci sarà più un momento come questo per chi ha coraggio. Coraggio economico, per investire, e politico, per spendere bene. Cominciare a ragionare di politiche di breve termine come distinte da quelle di lungo termine sarebbe un primo passo. Non è un caso che il programma di aiuti europei distingua le due fasi fin dal suo nome: ricostruzione e ripartenza. In fondo, sono le politiche a dover essere distinte in giuste o sbagliate, non il debito.