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 2020  agosto 30 Domenica calendario

Sulle nuove poesie di Patrizia Cavalli

Su Patrizia Cavalli e sulla sua poesia aleggia da tempo un’aura di venerabilità che, di fatto, ha posto l’una e l’altra su un piedistallo intoccabile. Per i suoi lettori più appassionati e fedeli non si tratta, infatti, di riconoscere o ribadire la sua presenza tra i più importanti poeti italiani degli ultimi decenni, cosa che appare di per sé difficilmente contestabile; bensì di sancirne la non compromissione e, sostanzialmente, l’incommensurabilità rispetto a tutti gli altri. Alfonso Berardinelli, che per altro è il suo interprete migliore, ha giocato spesso, ad esempio, la carta Cavalli con un senso di contrapposizione. Per celebrare il valore della sua poesia, dunque, ma anche, più o meno esplicitamente, per non accreditare poeti diversi magari altrettanto riconosciuti. Lei sì e gli altri no, insomma. Mentre per parte sua un filosofo come Giorgio Agamben ha sostenuto che l’io poetico di questa autrice è approdato per vie espressive del tutto inedite a un territorio nuovo e antichissimo in cui si confonde o annulla nell’essere. Sempre ammesso che tutto ciò sia davvero plausibile, chi altri è stato capace di tanto?
In realtà, la stessa Cavalli ha contribuito non poco alla creazione di questa sua piccola leggenda. Si è infatti tenuta lontano, come fossero una busca nell’occhio, dai suoi potenziali compagni di strada, su cui non ha scritto, con cui non si è confrontata o, appunto, commisurata, sottraendosi così a quel gioco di relazioni e sollecitazioni reciproche che spesso e volentieri ha molto giovato alla definizione delle singole fisionomie poetiche. Ma nel suo caso no, non ha voluto, per così dire, sporcarsi le mani, mettersi sullo stesso piano, come se non esistessero che i classici, Catullo, Petrarca, Shakespeare, o i suoi maestri più amati, anzitutto Sandro Penna ed Elsa Morante.
Diciamo questo non per ridimensionare la portata della sua poesia (certo che no), ma nella convinzione che ogni volta che si fa di uno scrittore un mito, sottraendolo al rapporto di reciprocità col tempo in cui vive, si finisce per privarlo di una parte fondamentale delle sue ragioni, e dunque anche e soprattutto delle contraddizioni, dei vincoli, dei limiti, della parzialità, dei punti ciechi che sono parte costitutiva anche della letteratura più grande, che è sempre e comunque ad altezza di donna o, il che è esattamente lo stesso, ad altezza d’uomo.
Tanto più alla luce della sua nuova raccolta di poesie, Vita meravigliosa (Einaudi), e tenendo conto dell’altissimo grado di fedeltà dell’autrice verso sé stessa (è ossessiva e invariabile come pochi), pensiamo solo a due aspetti tra i più evidenti di questa poesia: il ripiegamento nella dimensione privata e l’impiego di un linguaggio poetico che ha nell’orecchio qualcosa della tradizione classica e romanza, che fonde senza troppi problemi alto e basso ma senza porsi come semplicemente prosastico e narrativo; un linguaggio estraneo alla tradizione simbolista e al novecentismo ermetico o avanguardista, ma pensato anzitutto in rapporto all’endecasillabo e a qualcosa come una possibile dizione perfetta della realtà da mettere a fuoco.
Il primo è un tratto pienamente condiviso con tutta la generazione post-sessantottesca, e dunque con poeti come Dario Bellezza, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Biancamaria Frabotta, Giuseppe Conte e diversi altri con loro: la caduta dell’impegno politico e ideologico, e il conseguente richiamo alla legittimità dell’identità personale, come premessa, pur tra mille contraddizioni, dell’affidamento alle parole della poesia. Il secondo, invece, è pienamente riportabile al lingua poetica comune alla cosiddetta «scuola romana», com’è stata definita; che se pure non sarà una scuola, può essere comunque pensata come un orientamento espressivo che dal capostipite Penna, attraverso certe prove meno celebrate del Pier Paolo Pasolini anni Cinquanta (Roma 1950 e Ritmo romano, ad esempio) e le prime risultanze poetiche della stessa Cavalli, arriva fino a Valerio Magrelli, ai poeti raccolti attorno alle riviste «Braci» e «Prato Pagano», e poi giù giù fino ai nostri giorni.
Torniamo però a un tratto fondamentale di questa poesia, vale a dire la sua invariabilità. Anche quest’ultima raccolta, la sua settima, conferma come questa poetessa non abbia mai cercato nuovi territori tematici o espressivi, né di superare in qualche modo sé stessa. Ha lavorato per ripetizione e variazione dell’identico, invece. Sotto ogni aspetto, si può dire che già con il secondo libro, Il cielo (1981), avesse compiutamente definito i confini nei quali si sarebbe sempre svolto il suo teatro della dolcezza e della crudeltà, della sincerità e della doppiezza. È l’esatto rovescio dell’indifferenza alla storia: la stanza, lo spazio interno che è anche quello interiore, il «qui» domestico e insieme assoluto che è il vero luogo di questa poesia.

Questo vale ovviamente anche dal punto di vista espressivo e tematico. In Vita meravigliosa l’epigramma o l’aforisma si alternano come di consueto a componimenti di più ampio respiro ragionativo, quindi si rinnova la preferenza per l’endecasillabo, il richiamo della rima, il gioco, per altro consustanziale alla tradizione poetica italiana, delle simmetrie e dei dislivelli tra il metro e la sintassi. Tutti caratteri che in ogni caso vengono attivati, il punto è discriminante, non in modo rigido o preventivo, ma sempre in rapporto alle necessità imposte dalla situazione particolare. Ma poi è ancora e sempre l’amore l’argomento fondamentale, con tutta l’ampia serie di specificazioni tipologiche che comporta, a partire dalla felicità negata e dal bisogno dell’io, che si direbbe insaziabile, di essere amato: litigi, giochi, abbandoni e riprese, equivoci, doppiezze, implorazioni, ripicche, ritorsioni: «Io tutti i giorni l’ho chiamato amore/ e non sapevo di chiamare un morto» (a fronte di questo anche il titolo del libro suona umoristico, nel senso che comporta necessariamente il sentimento del proprio contrario).
In Vita meravigliosa affiorano a tratti momenti di stanca, interlocutori, dove la felicità insieme ritmica e concettuale, che questa poesia porta con sé quasi per antonomasia, stenta ad accendersi. In questi casi si fatica a dire se manchi qualcosa, come quell’ultima risoluzione o smalto a cui ci aveva abituato, o se questa specie di noncuranza o di sordità del verso sia invece necessaria, dovuta. Anche in questo libro non mancano certo riuscite brillanti, tanto più lì dove – che poi è ciò che più distingue il modo-Cavalli – la protagonista singolarissima ed esclusiva delle tante «commediole» e dei tanti «drammi» privati si rivela un’analista quanto mai acuta e spregiudicata del cuore e della mente di tutti. L’occasione anche più privata risulta allora una cosa sola con una constatazione di natura conoscitiva.
L’impressione, tuttavia, è che quella sua terribile ed estatica stanza della tortura da cui in realtà Patrizia Cavalli fino a oggi non voleva uscire, a questo punto sia diventata anche un carcere da cui uscire non le è più concesso.