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 2020  agosto 30 Domenica calendario

I meccanismi dell’empatia

Siamo sicuri di sapere che cos’è l’empatia? A questa «condizione» o «capacità» è dedicato il Mittelfest 2020 a Cividale del Friuli (Udine, 5-13 settembre). Il 1° settembre la città ospiterà – in un’anteprima del festival – la conversazione Empatia tra arte e scienza, dialogo tra lo scopritore dei neuroni specchio (che permettono l’empatia), uno dei più grandi neuroscienziati al mondo, Giacomo Rizzolatti, e il direttore artistico del festival, il regista teatrale Haris Pašovic.
Le arti, il teatro, la musica, sono in grado di attivare le aree emozionali del cervello, come ha scoperto proprio Rizzolatti, dove si trovano i neuroni specchio. Ma quanto si può stimolare o ridurre l’empatia? Come agiscono guerre o dittature sulle nostre emozioni? Quanto è empatico il mondo digitale in cui, anche a causa del coronavirus, siamo sempre più immersi? «La Lettura» ha chiesto ai due protagonisti di raccontarlo, in una conversazione telefonica che anticipa la serata del festival.
Che cos’è l’empatia e come funziona?
GIACOMO RIZZOLATTI — L’empatia ha molte definizioni, quella di cui vogliamo parlare è la definizione scientifica. Empatia è quando tu e un’altra persona siete nello stesso stato. Ad esempio, tu soffri e io soffro, oppure tu sei disgustato per qualche motivo e anch’io sono disgustato. Bene: quando io soffro, e quando vedo te soffrire, si attiva esattamente la stessa parte del cervello. Del tutto diversa dall’elemento cognitivo: se mi capita di sentire che mille persone sono morte in India a causa del virus, si tratta di una tragedia, ma nel mio cervello non accade la stessa cosa che accade quando vedo una persona ferita in strada davanti a me. Dobbiamo distinguere tra la vera empatia, quando tu e l’altro siete nello stesso stato – e il vostro sistema neurovegetativo si attiva, il vostro cuore batte, la vostra pressione si alza – e quando invece si comprende qualcosa cognitivamente.
Quindi a volte se ne parla a sproposito.
GIACOMO RIZZOLATTI — Ci sono molte semplificazioni. Ad esempio, le persone sono convinte che l’empatia sia qualcosa di buono. L’empatia può essere buona ma anche «nera». Un interessante studio su una serie di omicidi a Chicago mostrò che gli ergastolani che avevano compiuto delitti caratterizzati da sadismo erano assai efficaci nel riconoscere il dolore negli altri. Se tu sei sadico, e vuoi divertirti con la sofferenza degli altri, devi percepire che gli altri stanno soffrendo. Quindi l’empatia non è sempre buona: può esserlo e normalmente lo è, ma se sei sadico, provi empatia ma ti diverti con la sofferenza degli altri.
HARIS PAŠOVIC — Quando diciamo empatia, specie in un contesto intellettuale, ci riferiamo in qualche modo a un’idea religiosa o etica intorno ai sentimenti per il prossimo; invece è una questione molto più complessa.
GIACOMO RIZZOLATTI — È vero. La Chiesa cattolica, per esempio, è convinta che l’empatia sia buona: se io provo empatia per un pover’uomo, sono buono. Ma questo può essere vero oppure no. Riguarda quella che definiamo empatia passiva: io amo mia nonna, ma se lei ha l’Alzheimer preferisco metterla in ospedale, perché la mia vita diventa impossibile da gestire con la mia famiglia. Le voglio bene, ma il mio comportamento non è a suo favore, è a mio favore.
HARIS PAŠOVIC — L’empatia è più una condizione che un sentimento di per sé.
GIACOMO RIZZOLATTI — Esatto.
HARIS PAŠOVIC — E poi possiamo avere un’empatia cognitiva: noi sappiamo che migliaia di persone sono morte negli Stati Uniti e in altri Paesi per il coronavirus, ma appunto, lo sappiamo e basta. Mentre quando vediamo qualcuno che soffre davanti ai nostri occhi, o quando rappresentiamo il dolore a teatro, entra in gioco un altro elemento, l’empatia emotiva, qualcosa che noi connettiamo con i nostri sentimenti e sensi. L’empatia è in fondo la nostra capacità di comprendere qualcun altro. Ma ciò che facciamo con la nostra empatia è determinato da altri fattori, la nostra filosofia, la nostra etica, le nostre vite. Ad esempio, qualcuno ha un incidente e sta sanguinando: l’amica che lo accompagna è molto empatica, emozionata e sofferente per la sua ferita, ma non può aiutarlo; un «freddo» professionista, un medico, può intervenire senza alcuna emozione, ma grazie alla sua formazione può salvargli la vita. L’empatia non è una bandiera.
GIACOMO RIZZOLATTI — Sono d’accordo: c’è una vera empatia e c’è un’empatia cognitiva. Torna l’esempio che abbiamo citato prima, a proposito delle vittime «distanti»: posso avere un’empatia cognitiva, che però è completamente differente dall’empatia nel mio cervello, funziona con un meccanismo differente. Posso dire «oh mio dio», posso ragionare sulla tragedia, ma non c’è risposta neurovegetativa, il mio cuore non batte nello stesso modo, è differente. In teatro, invece, voi siete capaci di rendere possibile l’empatia nel pubblico.
HARIS PAŠOVIC — Questo è uno dei motivi per cui gli spettacoli di teatro, e i concerti, e le arti performative, devono essere dal vivo, e dobbiamo trovare il modo di farlo anche in queste condizioni di pandemia, perché è un elemento irripetibile. Al telefono, o su Zoom, o sul digitale, noi operiamo più cognitivamente e meno emotivamente, perché non abbiamo contatto immediato, prossimità.

Nel mondo di oggi i nostri rapporti passano spesso attraverso il digitale o i social media. Nella prospettiva dell’empatia, che cosa significa?
GIACOMO RIZZOLATTI — È un impoverimento. Esiste una ricerca su quanto della nostra informazione viene comunicato dalla voce, quanto dal viso, quanto dai gesti. Solo il 20 per cento della nostra relazione interpersonale passa attraverso la voce, il linguaggio. Tutto il resto sono emozioni, gesti... Noi, adesso, conversiamo al telefono, ma capite quanto sarebbe meglio se ci vedessimo in faccia. Il teatro è l’esempio migliore, perché muove le sensazioni interiori, muove l’empatia.
HARIS PAŠOVIC — Ogni spettacolo teatrale è basato sulla nostra abilità di empatizzare. È questo il modo in cui impariamo e ci sviluppiamo. È il più antico modo di comunicare in pubblico: il cinema è un’arte molto giovane, ha poco più di un secolo, e il mondo digitale è ancora più giovane; il teatro esiste da tantissimo tempo. Ci sono esempi di primordiali attività teatrali tra i primati. Rizzolatti è diventato una leggenda con il suo lavoro sui neuroni specchio, ma i neuroni specchio sono il modo in cui comunichiamo in teatro: certo, non sapevamo che si chiamassero così...
GIACOMO RIZZOLATTI — Li avete scoperti prima di noi, è vero!
HARIS PAŠOVIC — Be’, usiamo questa capacità del nostro sistema neurologico di comunicare con il pubblico.
GIACOMO RIZZOLATTI — Una persona che lavora in teatro mi disse una volta: è ovvio che la sua scoperta è vera, altrimenti perché la gente correrebbe ad ascoltare Shakespeare in lituano a Parma (accadde durante un festival)? Non si capiscono le parole, bastano i gesti.
HARIS PAŠOVIC — Professore, mi fornisce l’argomento migliore per l’esistenza stessa del teatro. Quanto al mondo digitale: è di grande aiuto per molti aspetti, ma per altri è davvero riduttivo. Possiamo usare il digitale per quel che serve, ma non dobbiamo rimpiazzare il mondo reale con il virtuale.
GIACOMO RIZZOLATTI — C’è un’interessante questione: che cosa possiamo dire di autori come Corneille, oppure Racine, in cui l’azione è meno importante della musicalità delle parole? Lei, Haris, sostiene che dobbiamo distinguere il teatro dalla letteratura...
HARIS PAŠOVIC — Spesso quando parliamo di uno spettacolo teatrale diciamo che è indescrivibile, perché non possiamo tradurre in parole qualcosa che per sua natura è non verbale. Potrebbe suonare pomposo, ma perdiamo parte della nostra metafisica e trascendenza, se ci riduciamo a vivere solo nel digitale.
GIACOMO RIZZOLATTI — In Giappone hanno fatto un esperimento, hanno presentato ad alcune persone una serie di semplici gesti (muovere qualcosa, sollevare qualcos’altro): prima i gesti erano svolti da attori, come a teatro, poi venivano trasmessi in televisione, infine erano «detti» a voce. La differenza è stata enorme: quando vedi nella vita reale un’azione, anche semplice, hai un’attività cerebrale molto, molto più forte di quando vedi la stessa cosa in televisione. Il potere dell’azione reale è davvero grande.
Come entra l’empatia nel nostro modo di considerare migranti e stranieri?
GIACOMO RIZZOLATTI — Vengo da una famiglia di emigranti, il mio bisnonno emigrò in Russia e lì rimase per molti anni, poi io tornai in Italia, ma mia madre era russa e non fu mai discriminata; e io sono di Udine, dove vivono molte persone che arrivano da altri Paesi. Non penso che l’Italia discrimini: avevo uno zio di origine ebraica ungherese che a Udine è stato medico di successo. Il punto è che se esiste competizione per il lavoro, ad esempio, c’è una reazione. Ma non è questione di «razze». Che cosa ci dice Haris della sua ex-Jugoslavia?
HARIS PAŠOVIC — Noi viviamo una crisi migratoria prodotta dalla mancanza di appropriati strumenti sociali per affrontarla, e questo è uno dei problemi. Ma c’è un altro problema. La gente in Bosnia ha sofferto molto, e i bosniaci sono stati dei rifugiati, molti di loro proprio in Italia, dove non hanno subito nessun tipo di rifiuto. Ma mi piacerebbe fare un esempio di come l’arte agisce anche in quest’ambito: Banksy ha prodotto una trilogia sui migranti, quadri che mostrano paesaggi tradizionali, anche kitsch, tramonti sul mare. Ma la spiaggia è disseminata di cinture di salvataggio vuote. In questi dipinti è l’assenza delle persone che ti rende empatico: questo è il potere dell’arte. Noi capiamo che c’erano persone in quei giubbotti, e che sono affogate. È un modo per comprendere come l’arte sia capace di produrre empatia.
GIACOMO RIZZOLATTI — Cito spesso il caso del nazista Eichmann che organizzò lo sterminio degli ebrei. Perché? Perché l’ideologia gli diceva che erano Untermensch, inferiori. Disse: «Obbedivo agli ordini. Dio forse mi punirà ma io ho giurato di obbedire a Hitler». Non c’è modo di accrescere l’empatia ma c’è modo di fare in modo che l’empatia non sparisca.
HARIS PAŠOVIC — E questo è ciò che succede quando scompare l’empatia: dittature, che manipolano le persone.

Ricorrono i 25 anni del massacro di Srebrenica, che sarà ricordato al Mittelfest. Safet Zec, artista bosniaco che vive a Venezia, ne è testimone e interprete in una mostra al Memoriale di Potocari. Che ne è dell’empatia in guerra, o sotto le dittature?
HARIS PAŠOVIC — I massacratori di Srebrenica erano manipolati ideologicamente per sopprimere l’empatia e compiere quelle azioni. L’empatia può venire meno. Ma può essere salvata, come abbiamo detto prima, dalle arti.
GIACOMO RIZZOLATTI — Intendiamoci, fermare l’empatia a volte è utile: un chirurgo deve vedere tanto sangue e dolore, e deve disinteressarsene, perché deve operare. Lo stesso vale per i poliziotti, che in certi casi devono avere comportamenti severi, altrimenti non arresterebbero i delinquenti. I demagoghi invece sono abili a usare questi nostri meccanismi per ragioni cattive e terribili. Pensiamo a Goebbels: come puoi convincere i tedeschi che gli ebrei sono Untermensch, quando tanti grandi scienziati e poeti sono ebrei? Eppure è stato possibile.
HARIS PAŠOVIC — L’empatia non è, di per sé, la comprensione umana, ma è la condizione per capire le altre persone.
GIACOMO RIZZOLATTI — Questo è corretto anche neurologicamente, perché quando ti vedo ridere o piangere, si attiva nel mio cervello lo stesso centro che determina la mia risata o il mio pianto. Siamo esattamente nello stesso stato.
HARIS PAŠOVIC — Fu così nel caso di Srebrenica, il genocidio dei musulmani bosniaci: quando gli ex vicini si avventarono contro i loro vicini, distrussero un’esperienza di decenni di convivenza, rimpiazzandola con il nuovo elemento ideologico del «nemico», per l’enorme paura inculcata in loro insieme alla licenza di colpire e uccidere. C’è una cosa che non dovremmo mai dimenticare di noi stessi: siamo bestie, siamo animali, non siamo solo persone carine, ci sono forze molto potenti dentro di noi. E se poteri autoritari sfruttano queste forze, può essere molto pericoloso. L’empatia può essere un viatico per aprirci alla diversità, all’altro. Questo facciamo a teatro: quando mettiamo in scena il Macbeth non difendiamo le azioni di Macbeth o le manipolazioni di Lady Macbeth, ma dobbiamo comprendere la capacità umana di produrle.
GIACOMO RIZZOLATTI — Proprio questo: non giustificare, ma comprendere.