La Lettura, 30 agosto 2020
Verdone ricorda le stroncature dei film di Fellini
Il miglior giudice resta e resterà sempre il tempo. Il tempo farà brillare un’opera ingiustamente declassata alla sua apparizione, il tempo condannerà senza appello un’opera troppo esaltata dalla maggior parte della critica di quel tempo. L’affidabilità del critico, dello storico del cinema (in questo caso, visto che l’argomento è La dolce vita di Fellini), è quello di afferrare al volo la novità narrativa, il coraggio di esplorare sentieri inediti proposti dal regista e, non ultimo, di liberarsi dall’«ideologia» che pone un ostacolo insormontabile nel percepire la verità, l’autenticità poetica e drammatica del tema sviluppato dall’autore.
Se c’è un film che spaccò in due il mondo della critica e la platea degli spettatori in modo nevrastenico, parossistico, questo fu La dolce vita del 1960. Per comprendere bene il terremoto che provocò mi è venuto in aiuto un libro, un grosso volume, conservato nella biblioteca di mio padre Mario dal titolo La dolce vita. Raccontato dagli Archivi Rizzoli a cura di Domenico Monetti e Giuseppe Ricci, edito dal Centro Sperimentale di Cinematografia e dalla Fondazione Federico Fellini. Sono quasi ottocento pagine in cui si raccolgono tutte le recensioni su quello che oggi definiamo un capolavoro assoluto. Iniziando a sfogliare il libro, si resta attoniti dal putiferio che scatenò quella pellicola. Questi i primi titoli che appaiono voltando le pagine: «Film confezionato con gli elementi più deteriori della pornografia», «Pattumiera cinematografica», «La sporca vita del culturame sinistro», «Povera vita, povera capitale», «Il Centro cattolico cinematografico bolla La dolce vita tra i film esclusi», «Verso il sequestro della Dolce vita?», «Forse il Papa vedrà La dolce vita», «Lo scrittore Staino chiede il sequestro de La dolce vita», «Basta! Basta!», titola enorme «L’Osservatore Romano», «La nobiltà e la borghesia accusano Fellini», «Il Centro cattolico chiede il licenziamento in tronco del critico del “Quotidiano”». Mio padre. «Il critico del “Quotidiano” licenziato su due piedi».
Fu così che papà rimase senza lavoro per aver scritto: «Le prime qualità del film sono nella fantasia sfrenata, nell’ambientazione scavata con lo stesso ardire e la stessa succulenza di uno Stroheim e di uno Sternberg nel modo sorprendente della evocazione, come una favola surreale di Hoffmann; ma tutto quel che Fellini ci mostra è rigorosamente vero, còlto in alcuni ambienti della Roma notturna...». Papà e Fellini erano già amici, si stimavano a vicenda e avevano una passione comune: la storia del circo e dei clown. Quando Federico seppe del licenziamento di papà rimase molto avvilito e gli propose di entrare come ufficio stampa in quella che doveva essere la sua prima casa di produzione: la Federiz (nata da un’alleanza con la Rizzoli). Progetto che fu chiuso dopo circa un anno. In ogni caso papà era già impiegato al Centro Sperimentale e non avrebbe potuto accettare. Ma rimase molto commosso dal gesto di Fellini, da vero amico.
Sarebbe comunque ingiusto non ricordare altri critici e scrittori che invece compresero il coraggio di raccontare un mondo che esisteva e che molti non volevano vedere nelle sue fragilità, nei suoi vizi, nella depressione, nell’euforia, nell’immoralità e direi anche nella sua spiritualità. Il cardinale Siri se ne accorse e comprese la grandezza del film. Padre Taddei, sacerdote intellettuale, idem (rimosso per questo dall’incarico di capo della comunicazione e della cultura nella Compagnia di Gesù) e poi Giuseppe Marotta, Tullio Kezich, Pietro Bianchi, Sergio Frosali, Pasolini e Moravia e altri.
La dolce vita, non seguendo gli schemi di una pura dottrina neorealista e marxista, volando invece nella totale libertà dell’autore (mai schierato), pagò duramente l’attacco che gli venne scatenato dai più oltranzisti. Lo storico del cinema Guido Aristarco in prima fila (al quale Fellini mandò per Natale un biglietto: «Auguri stronzetto!»). Ma, alla fine, vinse lui. Il tempo lo risarcì di ogni offesa. Il pubblico affollò le sale. Fellini si apprestava a diventare tra i più grandi registi che il cinema abbia mai avuto. Quel film aveva aperto la pagina su una nuova era. Un affresco rappresentato con assoluta verità e impressionante sensibilità.