La Lettura, 30 agosto 2020
Caro classico, ti stronco
Scrivere di libri è attività oziosa e insensata.
C’è chi nel farlo si sente investito da una specie di dovere patriottico: per questo sogna comitati di salute pubblica chiamati a vigilare sull’igiene spirituale dell’Oligarchia delle Lettere.
C’è chi, animato da un più modesto spirito di servizio, ritiene il proprio gusto abbastanza solido da autorizzarlo a consigliare romanzi, o a sconsigliarli.
Infine, c’è chi scrive di libri perché non può farne a meno. Chi intende questa antica, inutile arte come prosecuzione ideale dell’esercizio solipsista della lettura. È questo l’ecosistema emotivo in cui di solito germoglia la saggistica migliore, la più brillante: quando il capriccio dello scrittore-lettore si unisce alla sua smania di fare il punto su ciò che ha letto e forse un giorno sarà costretto a rileggere. Date le premesse, la gente che apprezza le sue divagazioni letterarie, e i committenti disposti a pagargliele, sono solo un piacevole effetto collaterale.
Brodskij scrive a Orazio Il poeta Iosif Brodskij si vantava di scrivere in prosa per ragioni strettamente alimentari. I suoi pezzi erano di occasione, compilati (a suo dire) per sbarcare il lunario. Immagino che scriverli in una lingua che non era la sua, l’inglese, gli consentisse di segnare un solco ancora più profondo tra le urgenze imposte dalla fisiologia e le attenzioni esclusive reclamate dalla sua musa russofona. Chissà, forse se avesse avuto il credito illimitato che Baudelaire augurava ai poeti – eredità, prebende, rendite immobiliari – non avrebbe perso tempo ad allestire i suoi meravigliosi saggi narrativi. Sarà, ma permettetemi di dubitarne.
Non riesco a credere che il giorno in cui gli venne l’idea di indirizzare una lettera niente meno che a Orazio, Brodskij non sia stato scosso da un brivido di compiaciuto divertimento. «Mio caro Orazio, se è vero quello che Svetonio ci racconta della tua mania di tappezzare di specchi le pareti della stanza da letto per goderti il coito da ogni angolo, questa lettera potrà sembrarti un tantino scipita. D’altronde, può forse divertirti il fatto che essa arrivi da una parte del mondo di cui non hai mai sospettato l’esistenza, circa duemila anni dopo la tua morte. Mica male per farci una piccola riflessione, ti pare?».
A colpire è il tono scanzonato e impertinente con cui Brodskij si rivolge a un collega vissuto duemila anni prima, un poeta la cui opera è unanimemente considerata patrimonio dell’umanità, alla stregua di Colosseo e Partenone. Come si vede, Brodskij non si fa scrupoli a partire da un pettegolezzo sul presunto esibizionismo erotico del suo illustre corrispondente. A questo punto resta da chiedersi se abbia senso rivolgersi a una gloria dell’umanità con tale garbata insolenza. Be’, se il risultato è questo piccolo ingegnoso capolavoro saggistico (vi consiglio di procurarvelo al più presto), direi proprio di sì.
Si può stroncare un classico?Voglio forse insinuare che ai classici non si deve rispetto? Che meritano lo stesso sospettoso trattamento che siamo soliti riservare ai contemporanei? Forse è utile ricordare che classici non si nasce, si diventa: anche gli ormai acquisiti per tali, all’apparire sulla scena letteraria, sono stati oggetto di critiche e causa di dispute. Certo, se il tutto si esaurisse in questa constatazione – assennata e ovvia – non varrebbe nemmeno la pena darsene pensiero. Tanto più che mettersi a fare le pulci ai classici per partito preso può esporre a discrete figuracce. Ricordate la scena di Manhattan in cui un’insopportabile Diane Keaton fa la lista dei sopravvalutati? Mahler, Fitzgerald, van Gogh e Bergman, solo per dirne alcuni. Ecco, non è questo il contegno più auspicabile.
Diciamo che a lasciarmi perplesso è la difficoltà di taluni lettori (dilettanti o professionisti che siano) di trattare un classico con la franchezza che si deve a un essere vivente, come tale non privo di difetti e incline a sbalzi d’umore. Valéry pensava che, con l’eccezione di una manciata di versi di Racine, non ci fosse capolavoro che non potesse essere migliorato. Non so se e quanto avesse ragione ma, sulla scorta del suo ammonimento, mi faccio forza e dico che un classico non è un idolo da venerare; non se ne sta lì polveroso, immusonito, a marcire dietro la teca di un museo di provincia; è qui, tra noi, misterioso, inattingibile. Gli capita di invecchiare ma anche di ringiovanire; ogni tanto si allontana, per poi avvicinarsi di nuovo, e senza alcun preavviso; ha parecchie cose da rivelare ma ancor più da nascondere. Non è forse questo a renderlo un classico?
Prendete certe famose stroncature (ammesso che le si possa davvero definire tali) a danno di libri e autori per noi imprescindibili. E non parlo mica di quel tipo di incomprensioni che sfiorano la sordità e la calunnia: che so, Tolstoj contro Shakespeare, Céline contro Montaigne, Nabokov contro Dostoevskij. Bensì di giudizi circostanziati, scritti in buonafede, da narratori e critici di prim’ordine che non hanno avuto alcun ritegno a lanciare bordate contro colleghi più vecchi, appena morti e in odore di canonizzazione.
Ho in mente un paio di casi esemplari: il lungo saggio di Henry James su Flaubert e quello assai più breve che Edmund Wilson dedicò a Kafka. Insomma, da una parte James e Wilson, che, sebbene in ambiti diversi, occupano un ruolo eminente nella storia della letteratura americana; dall’altra Flaubert e Kafka, fari della narrativa europea con più di una stranezza in comune (la devozione kafkiana per Flaubert lambiva l’idolatria).
Henry James contro «L’educazione sentimentale» Con buona pace di T. S. Eliot che stentava a ritenerlo tale, Henry James era un critico eccellente.
Anzi, a valutarle da qui, retrospettivamente, le sue divagazioni saggistiche rivelano affinità con gli assai più celebri romanzi: a cominciare dall’ostinata elusività di cui James non sa fare a meno. Non è mai facile identificare il fulcro della sua indagine, ed è forse questo a rendere l’approccio di James così affascinante. Per contro, presta un’attenzione ostinata alle questioni tecniche, i cosiddetti problemi compositivi, croce e delizia di ogni romanziere serio: si vede che lo riguardano e che lo affliggono quotidianamente.
Insomma, è con piglio intrepidamente jamesiano che James scrive l’estesa nota bio-bibliografica su Flaubert. Composta una decina di anni dopo la morte del Maestro, quando esce, il caso-Flaubert è agli albori. Malgrado nessuno osi più metterne in dubbio forza e prestigio, la sua smilza opera non è stata ancora passata al setaccio. James rivendica subito un punto di vista privilegiato. Qualche anno prima ha avuto accesso al cenacolo che era solito riunirsi nel pied-à-terre parigino di Flaubert nel Faubourg Saint-Honoré (all’epoca assai periferico). Ciò permette a James di abbozzare una descrizione vivida e affidabile del padrone di casa, un ritratto tutto sommato aderente all’idea che nel frattempo ce ne siamo fatti: alto, corpulento, baffuto e pantofolaio, sempre in giacca da camera, da un lato civile e ironico, dall’altro preda di improvvisi disgusti. A distanza di tanti anni, James si mostra ancora sensibile al mito-Flaubert: la leggenda del Grande Stacanovista, l’Artista-Anacoreta su cui una cinquantina d’anni dopo Borges scriverà un delizioso raccontino.
«La vita di Flaubert – scrive James – è quasi esclusivamente la storia della sua fatica letteraria, tanto che parlare dei suoi cinque o sei romanzi significa darne press’a poco l’intero resoconto». È proprio questa dedizione sfiancante – vocazione che si fa missione, voluttà che si fa sacrificio – a rendere Flaubert il «romanziere dei romanzieri»: in un certo senso, considerando la sua proverbiale integrità, persino più di Balzac. Anzi, visto che ci siamo, tanto vale mettere le carte in tavola: Flaubert è il Messia il cui martirio ha consentito alla nuova generazione di narratori di affrancarsi dall’idea balzachiana di romanzo. «Egli può rappresentare la nostra coscienza operativa o il nostro sacrificio espiatorio; animato da un senso dell’onore letterario, devoto a un ideale di perfezione, incapace infine di scivolare dal rispetto di noi stessi, che ci permette di riposare a nostro agio, di cedere all’età, di indulgere in quelle strettezze relative di qualsiasi tipo (e nessuna grettezza nell’arte è così abbietta come l’abbietto fattore economico) che possiamo trovare più confortevoli e vantaggiose. Non si può forse dire che molti di noi praticano questa industria a un costo relativamente basso, proprio perché il povero Flaubert, producendo la narrativa più cara che sia mai stata prodotta, l’ha pagata tanto?».
Eppure, a fronte di tanti elogi, e di tali sperticati attestati di gratitudine, James non lesina a Flaubert critiche aspre. Così, dopo aver lodato quasi senza riserve Madame Bovary, definisce L’educazione sentimentale un fallimento, e lo fa senza mezzi termini. Ed è qui che qualcosa in noi s’inceppa, s’incrina, si ribella.
Fallimento? Ma stiamo scherzando! Uno dei più significativi romanzi mai scritti, fallimento? Uno dei pochi modelli in grado ancora di ispirarci, fallimento? È così che la pensa James, e non solo lui: erano parecchi i contemporanei di Flaubert che vedevano nell’Educazione sentimentale un’opera gretta, nichilista, desolatamente priva di slanci. «La vita del suo tempo – commenta amaramente James – come ci viene mostrata da Flaubert, è strettamente unita alla povertà esteriore e anche interiore di Frédéric [il protagonista del romanzo]; cosicché mentre l’insieme è per scala, intenzione ed estensione, una sorta di epica dell’usuale (…), esso ci colpisce come un’epica priva di aria e di ali per sollevarsi; ci ricorda infatti più di ogni altra cosa un immenso pallone, tutto di pezzi di seta cuciti strettamente insieme e pazientemente gonfiato, ma che si rifiuta in modo assoluto di lasciare il terreno».
Per una volta la similitudine di James è perfettamente intellegibile e va dritta al bersaglio: cosa c’è di più patetico di una mongolfiera realizzata con le stoffe più raffinate che non ce la fa a sollevarsi dal suolo? Ecco cos’è per lui L’educazione: un sontuoso fallimento, un’inutile caduta in grande stile. Se restassimo al giudizio di merito, dovremmo rifiutarlo con irritazione. Ma se gli concediamo un po’ di fiducia in più, possiamo trarne un qualche giovamento. James non ama L’educazione sentimentale, questo è un fatto, e tuttavia in un certo senso coglie lo spirito del romanzo meglio di tanti scriteriati elogiatori. Sebbene James non sopporti l’«epos del nulla» in cui indulge Flaubert, almeno è in grado di riconoscerlo. Un’acribia di cui è doveroso rendergli merito: l’epica nichilista, infatti, è il cuore dell’ispirazione fluabertiana che trova nell’Educazione, più ancora che nella Bovary, un apice espressivo e artistico.
È vero, dice bene James, nessun personaggio è all’altezza delle imprese romanzesche che, date le circostanze, sarebbero chiamati a compiere. Per intendersi, tra tutti gli eroi del romanzo, forse solo l’ingenuo idealista Dussardier troverebbe spazio nell’universo romanzesco di James (anche se doverosamente rifinito). Gli altri – da Frédéric a Monsieur Arnoux passando per la sua ineffabile moglie —, nella loro insipienza e mediocrità, sono incapaci di esprimere alcun rovello morale e di dare prova di una qualche profondità psicologia. Ecco perché ci piacciono, per la stessa ragione per cui dispiacevano a James: perché ci somigliano, e mica solo a noi ma anche ai nostri vicini di casa.
Insomma, la storia del gusto ha dato torto a James. Oggi sappiamo che, almeno in ambito francese, L’educazione sentimentale è il romanzo dei romanzi scritto dal romanziere dei romanzieri. Eppure, per quanto assurdo possa sembrare, le perplessità di James, forse perché così precise e in buonafede, non fanno che confermarlo.
Edmund Wilson contro Franz KafkaUna cosa su cui Edmund Wilson e Franz Kafka si sarebbero trovati, qualora avessero avuto modo di conoscersi, è l’amore incondizionato per L’educazione sentimentale. Per il resto avevano davvero poco in comune. A cominciare dal fatto che, sebbene nei loro rispettivi campi occupassero un ruolo di spicco, Wilson ebbe dalla carriera tutte le soddisfazioni culturali, materiali e mondane cui un saggista possa aspirare, laddove Kafka morì quasi inedito, e inconsapevole della fortuna postuma che avrebbe travolto la sua opera.
Quando Wilson pubblica Un parere contrario su Kafka, il kafkismo, in tutte le sue possibili accezioni, non solo ha già attecchito ma non smette di fruttificare. È il 1947. Da un punto di vista morale, l’immediato dopoguerra sembra il periodo propizio per dare rilievo alle fantasie apocalittico-burocratiche di Kafka. Fioccano opere monografiche, edizioni critiche, biografie; il suo racconto più celebre, in quanto a fama e numero di lettori, è pronto a rivaleggiare con le fantasmagorie pietroburghesi di Gogol’. Insomma, Kafka ha il vento in poppa, e l’aggettivo derivato dal suo cognome ha già trovato spazio in decine di lingue.
È a questo punto che Wilson, non senza audacia, decide di intervenire e dire la sua. Occorre precisare che, in quel fatidico 1947, il cinquantaduenne Wilson è all’apice della sua parabola; se non da un punto di vista anagrafico sicuramente da quello del prestigio, è il decano delle lettere americane. Come saggista è noto per un longseller sulla poetica simbolista. Come critico militante vanta diversi interventi memorabili nei quali non ha lesinato carezze né schiaffi a romanzieri del calibro di Fitzgerald, Hemingway, Malraux e Steinbeck. Diciamo che Wilson appartiene all’oligarchia di critici talmente autorevoli da poter trattare con spigolosa familiarità – insomma da pari a pari – i giganti di cui si occupa. Non ha fama di stroncatore seriale (una fama, ammettiamolo, assai facile da conquistare), ma coltiva una rigorosa idea di letteratura poco incline all’idolatria: un’intransigenza che l’adesione al marxismo ha solo inasprito. Per dirla con il nostro Manganelli che lo ammirava: «In quelle svelte e asciutte pagine, [Wilson] riuscì a toccare la perfezione di quella miscela di faziosità e acutezza che è nelle ambizioni del buon lettore».
Tra quelle svelte e asciutte pagine fanno bella mostra di sé anche le tre o quattro dedicate a Kafka. In esse Wilson contesta l’immagine che si va diffondendo di Kafka sommo scrittore e profeta. La strategia di Wilson è chiara: sangue freddo e piedi per terra. Le parole d’ordine sono: cautela e ridimensionamento. «Con tutta la mia ammirazione per Kafka, non riesco davvero a considerarlo un grande scrittore, e non ho mai cessato di stupirmi del fatto che tutti possano crederlo tale». E ancora: «Paragonare Kafka (…) a Joyce e Proust e perfino a Dante, grandi naturalisti della personalità, grandi organizzatori dell’esperienza umana, è evidentemente assurdo». A chiudere: «Non riesco a capire come si possa considerarlo un grande artista o una guida morale».
A proposito di quest’ultima considerazione, la più severa, occorre notare che Wilson sembra più interessato a mettere in discussione l’autorità etica di Kafka che la sua statura artistica. Per una volta i suoi rilevi estetici sembrano dettati più dal malumore che dallo spirito critico. Insomma, si capisce che Kafka non gli sta simpatico. Che non gli è congeniale. Per questo scambia il proverbiale senso di colpa kafkiano per vittimismo, il complesso di inferiorità filiale per puerilità, il fatalismo per debolezza. Ma si capisce anche che i veri oggetti della sua antipatia sono gli incensatori di Kafka, lo stuolo sempre più nutrito di agiografi che ne hanno fatto un santino un po’ grottesco. E qui il discorso si fa decisamente più interessante. Per sottrarre Kafka ai suoi devoti, quasi inconsapevolmente, Wilson gli presta un servigio encomiabile. «È stato dato gran rilievo all’influenza esercitata su Kafka dal teologo danese Kierkegaard; ma da Max Brod apprendiamo che Kafka era influenzato almeno altrettanto da Flaubert, e la sua opera è ricca di un’ironia flaubertiana generalmente sottovalutata dalla critica».
Sebbene Wilson non lo possa sapere, sta anticipando di qualche decennio il fulcro di uno dei saggi più belli scritti da Milan Kundera: quello su (o per meglio dire contro) i kafkologi, ossia gli sciagurati esegeti che hanno conteso a Kafka la sua identità di scrittore comico per elevarlo al rango di santo e profeta. Evidentemente Wilson non può fare a meno di essere un lettore intelligente anche quando prende clamorose cantonate. Il che forse dimostra ancora una volta che non tutte le stroncature vengono per nuocere.