la Repubblica, 30 agosto 2020
Il caso Viviana-Gioele-Caronia
In un’estate stralunata, in cui l’Italia si riappropria di una libertà condizionata dopo la segregazione imposta dal Covid, una madre di 43 anni, Viviana, e il suo bambino di 4, Gioele, vengono inghiottiti nel nulla e quindi ritrovati morti a distanza di dieci giorni e a poche centinaia di metri l’una dall’altro, nelle campagne siciliane della provincia di Messina, a Caronia.
Le ricerche dei loro corpi, l’indagine sulla loro fine, illuminano una catena di eventi e un panorama umano, che, insieme a un dramma familiare incubato nella solitudine del lockdown, raccontano un’indifferenza, un’approssimazione e un’accidia che si trasformano improvvisamente in partecipazione collettiva e solerzia investigativa solo quando quel dramma si è ormai consumato, diventando per questo “sociale”.
In un giorno di agosto, nel volo dal traliccio della media-tensione di Caronia, precipita non solo il corpo di Viviana Parisi, deejay nota nel nord Italia, torinese di origini e siciliana d’adozione per amore del marito Daniele Mondello, ma torna a svelarsi anche un aspetto dell’indole del nostro Paese. Con le sue domande che avrebbero potuto e dovuto trovare risposta prima, e non dopo. Ce le siamo poste nuovamente. E abbiamo trovato queste risposte.
Colazione in famiglia La mattina del 3 agosto, un lunedì, Viviana, il figlio Gioele e il marito Daniele, sono seduti insieme per la colazione nella cucina della casa che abitano a Venetico, paese di 4 mila anime a 28 chilometri da Messina. Gioele è il centro del mondo di Viviana. O, quantomeno, lo è diventato rendendola madre per la prima volta. Modificando profondamente l’equilibrio che ha sin lì tenuto insieme Viviana e Daniele: la musica. Il lavoro e la passione di Viviana. Il lavoro e la passione di Daniele, dj come lei.
Gioele ha occhi verdi e capelli a caschetto ribelli. Sorride. Quella mattina la mamma gli ha detto che andranno a comprare insieme scarpe e vestiti nuovi in un centro commerciale a Milazzo. È una bugia. La stessa che dice anche a Daniele. «L’atmosfera era serena – ricorderà lui – Viviana sembrava tranquilla, contenta di aver ripreso a fare le sue cose. Per altro, avevamo in mente di portare avanti insieme dei lavori musicali».
La depressione in cui Viviana era precipitata durante i mesi del lockdown sembra insomma solo un brutto ricordo, almeno così dice Daniele. Il quale non si stupisce che Viviana lasci a casa il suo cellulare. «Le capitava spesso».
La casa di Daniele, Viviana e Gioele a Venetico
Alle 9.10 Viviana esce di casa per farvi rientro dopo pochi minuti. Prepara le ultime cose per uscire con Gioele, che ha deciso di portarsi dietro le sue automobiline, il gioco preferito. Nella macchina della mamma, c’è anche la sua bicicletta.
Alle 9.30, Viviana e Gioele salgono in auto, una vecchia Opel Corsa. Quando escono, Daniele, che sta lavorando alla consolle del suo studio sistemato in un garage sotto casa, è di spalle. Il saluto è veloce, senza guardarsi negli occhi.
Una misteriosa digressione Alle 10.30, la Opel Corsa guidata da Viviana Parisi è sull’autostrada Messina-Palermo. A 86 chilometri da casa. E imbocca l’uscita per Sant’Agata di Militello. È arrivata sulla A/20 entrando al casello di Milazzo, il paese nel cui centro commerciale avrebbe dovuto trascorrere la mattina con Gioele.
È la sua unica e ultima sosta verso il destino che ha scelto o che la attende. Viviana rimane a Sant’Agata per 22 minuti. Entrando in paese, non paga il pedaggio autostradale, come dimostrerà la ricevuta di mancato pagamento che verrà ritrovata nella sua Opel. All’operatore del casello che le risponde al citofono quando la sbarra non si alza, spiega che non ha contanti, né una carta bancomat.
Ventidue minuti sono un tempo abbastanza breve per lasciare un ricordo di quel passaggio in chi mai dovesse averla notata. Ma abbastanza lungo per porsi la domanda del perché abbia deciso di uscire dall’autostrada. Se si sta a quanto ricostruito dai poliziotti del commissariato di Sant’Agata, Viviana impiega quei 22 minuti per raggiungere il paese dal casello e farvi ritorno in senso inverso. Come se quella digressione con la traccia del mancato pagamento in entrata dovesse servire a confondere chi nelle ore successive avesse voluto provare a rintracciarla.
Non è dato sapere se Viviana faccia rifornimento in quel breve lasso di tempo, perché in due dei tre distributori di benzina del paese le telecamere sono guaste. Al contrario della telecamera di sorveglianza di un negozio che inquadra una porzione della strada che attraversa Sant’Agata. Riprende Viviana al volante della Opel, con un braccio fuori dal finestrino. Le immagini consentono di distinguere anche Gioele. È seduto sui sedili posteriori, nel seggiolino.
Alla polizia, che ripasserà quei frame decine di volte, mamma e figlio sembrano tranquilli. Le immagini lasciano insomma ipotizzare un allontanamento volontario. Anche se, evidentemente, continuano a non spiegare nulla di quella digressione. Né aiutano la memoria di chi, a Sant’Agata, viene compulsato per sapere se quella dj avesse amici in paese. «Nessuno». Perché «nessuno la conosceva».
A zig-zag in autostrada Alle 10.52 di quel 3 agosto, l’ora impressa dal passaggio in entrata dell’autostrada A-20, Viviana lascia Sant’Agata di Militello e ritorna in autostrada in direzione di Palermo, come volesse mettere altri chilometri tra sé e la sua casa in provincia di Messina. La si direbbe in stato confusionale. O comunque in uno stato di alterazione.
Alcuni testimoni raccontano infatti agli inquirenti che l’andatura della Opel, che viaggia intorno ai 100 all’ora, è a zig-zag. Come se Viviana fosse incapace di mantenersi nella corsia di marcia e utilizzasse la riga di mezzeria per tenere la strada. E che con quell’andatura priva di traiettoria la Opel si infili nella galleria Pizzo Turda, 13 chilometri dopo Sant’Agata. 104 chilometri da Venetico, dove la corsa è cominciata.
L’incidente Alle 11.02, l’Opel percorre la galleria dove sosta un furgone con due operai che stanno lavorando alla manutenzione dell’impianto di illuminazione per conto del Cas, il consorzio autostradale. Viviana non vede né l’uno, né gli altri. Così almeno ricorda uno dei due operai, che vede la macchina avvicinarsi sbandando, come se avesse un problema a un pneumatico. Centra dunque in pieno il furgone a una velocità tra gli 80 e i 100 all’ora.
L’impatto è violento e Gioele – che è seduto dietro ma non è legato al seggiolino, il quale a sua volta non è assicurato allo schienale – viene probabilmente sbalzato all’interno dell’abitacolo. Dopo l’urto, l’Opel va in doppio testa-coda, mentre il furgone finisce sulla parete destra della galleria, lasciando sul muro una striscia di vernice lunga quasi due metri.
Viviana riesce a riprendere in qualche modo il controllo dell’auto e si ferma proprio poco fuori della galleria, in una piazzola per la sosta d’emergenza. Un pneumatico, l’anteriore destro, è scoppiato, ma i suoi resti non verranno ritrovati, come se quella ruota fosse andata in panne chilometri prima e Viviana avesse continuato a guidarci. Un finestrino è andato in frantumi.
I segni della frenata dell’auto di Viviana all’uscita della galleria Alle 11.07 i due operai nella galleria si adoperano innanzitutto per bloccare il traffico delle auto che sopraggiungono. Uno di loro, come racconterà, raggiungerà l’Opel solo per scoprire che «non c’era nessuno, nessuna donna e nessun bambino». I due operai non sono tuttavia i soli testimoni dell’incidente.
C’è una famiglia della Brianza che vede Viviana, con in braccio Gioele, abbandonare l’Opel nella corsia di emergenza appena fuori dalla galleria e scavalcare il guardrail. Una famiglia che impiegherà 13 giorni, il tempo di concludere le vacanze in Sicilia e far ritorno a casa, in Lombardia, per raccontare ciò che ha visto, in barba agli appelli del procuratore di Patti, Angelo Cavallo. E ci sono anche dei turisti che scendono dalle auto che si sono fermate. Concionano, chiedono. E poi ripartono. Nessuno fa la cosa più semplice. Comporre il numero del 112. Cosa che fanno invece due ragazzi, anche loro arrivati sul posto quando ormai, però, di Viviana e Gioele si è persa ogni traccia. La piazzola dove Viviana Parisi si è fermata. Alcuni testimoni hanno riferito che la donna, col bimbo in braccio, ha attraversato il guardrail, e ha percorso un canale di scolo accanto alla galleria. Prima si sarebbe arrampicata nel verde, poi sarebbe scesa verso il mare
Turisti Conviene fermarsi ancora sulla scena dell’incidente. Sui quattro turisti del nord – una famiglia brianzola – che, di fronte all’alternativa tra chiamare il 112 ed evitare di “rovinarsi” un giorno di ferie, scelgono con convinzione di tirare dritto. E conviene farlo perché quell’informazione che sono in grado di offrire – hanno visto madre e figlio vivi scavalcare il guardrail e infilarsi a passo svelto nel bosco, in direzione della montagna – potrebbe ancora salvare le vite dell’una e dell’altro. Indirizzare le ricerche. In ogni caso, evitare che, per giorni, una famiglia, una Procura e un Paese rimangano appesi alla prime domande angosciose di quelle ore: Viviana e Gioele sono vivi? Qualcuno li ha sequestrati?
Già, quello che poteva essere detto il 3 agosto viene messo a verbale il 16, una domenica. «La donna, che aveva un atteggiamento protettivo verso il bimbo, andava a passo spedito. Le ho chiesto se aveva bisogno di qualcosa, ma ha cominciato a camminare lungo un viottolo, l’ho seguita, ma poi c’erano dei rovi, mi sono fermato. Il bambino era tranquillo, in braccio alla mamma, il viso adagiato sulla sua spalla destra», dice nel commissariato della sua città il testimone, un imprenditore lombardo, quando finalmente decide di presentarsi. E nel dirlo, giustifica così il suo ritardo. «Ero in vacanza con la mia famiglia e quando in quei giorni ho sentito l’appello del Procuratore non ero sicuro che fossi io il testimone misterioso dell’incidente che cercavano». I protagonisti
Ricerche Intorno alle 12 del 3 agosto, nella piazzola dove Viviana ha abbandonato la sua Opel arriva la polizia stradale. «Venti minuti dopo l’allarme diramato sul 112», chiosa l’avvocato Pietro Venuti, uno dei legali della famiglia Mondello. All’identità di Viviana si risale con due certificati medici trovati nel cruscotto dell’auto e un numero di telefono, quello del suocero. Chiamando lui, si ha la certezza che la donna scomparsa si chiami Viviana Parisi, e che il bambino con cui viaggiava è Gioele Mondello, di quattro anni.
Le indicazioni che la stradale raccoglie tra quanti sono rimasti in sosta alla piazzola (non la famiglia brianzola) non sono chiarissime. «Arrivano i vigili del fuoco, con le unità cinofile – dice ancora l’avvocato Venuti – ma solo dopo un’ora iniziano le ricerche. E si limitano a un raggio di 500 metri». Intanto, qualcuno – non è chiaro perché – ipotizza che la donna possa anche essere tornata a piedi sull’autostrada. E che qualcuno, complice della sua fuga, l’abbia caricata a bordo.
Gli avvocati della famiglia Claudio Mondello e Pietro Venuti, nelle zone di ricerca a Sorba di Caronia Il marito di Viviana, Daniele Mondello, viene contattato dalla polizia stradale e raggiunge la caserma di Sant’Agata di Militello intorno alle 15.30. Solo lì lo informano di quanto accaduto. Meglio, solo lì lo informano della scomparsa della moglie e del figlio. Ma non del ritrovamento della sua Opel corsa in autostrada. “Quella circostanza – racconta Daniele a Repubblica – mi verrà detta solo il giorno dopo, il 4 agosto”.
Nella campagna che circonda la piazzola di sosta, delle ricerche che vengono avviate quel pomeriggio, uno dei soccorritori impegnati in quella prima battuta ha questo ricordo: «C’erano un caldo terribile e un gran silenzio. Caldo e silenzio. Erano già le 15,30 quando siamo arrivati nella zona dove sarebbe stato poi ritrovato Gioele. Se il bambino fosse stato ancora vivo avremmo dovuto sentire almeno un gemito. E invece, nulla. Noi urlavamo i loro nomi a squarciagola, Viviana, Gioele, Gioele, Viviana… Ma non c’era nessuno a risponderci».
Solo un allevatore di mucche e maiali. «Che non ci ha riferito nulla di particolare. Ci si è parato davanti con quattro maiali selvatici, quelli neri dei Nebrodi, animali innocui. Che non si avvicinano all’uomo. A meno che non sia morto».
Droni La mattina del 4 agosto, i vigili del Fuoco fanno alzare in volo i droni perché il loro occhio possa scandagliare meglio con più profondità e ampiezza un’area di ricerche dove il bosco rende tutto particolarmente difficile. Alle 10.15, a circa 700 metri in linea d’aria dalla piazzola di sosta dove è stata abbandonata la Opel, ai piedi di un traliccio della media-tensione, l’occhio di un drone cattura l’immagine di una sagoma immobile. È un corpo umano. Chi dovrebbe in quel momento osservare la trasmissione delle immagini in diretta non se ne accorge. Forse perché semplicemente non lo vede. Forse perché confonde. O ha altro per la testa. È il corpo privo di vita di Viviana. È nella stessa e identica posizione in cui verrà ritrovato. Ma nessuno lo saprà per settimane. Quando il drone rientra a terra, una annotazione ne documenta le ricerche “negative”. Le immagini che ha registrato vengono salvate su un file e archiviate nel database.
Un procuratore e l’ombra dei Nebrodi Il magistrato che indaga sulla scomparsa di Viviana e Gioele è il Procuratore della Repubblica di Patti. Si chiama Angelo Vittorio Antonio Cavallo. È un salentino di 53 anni, nato a Lecce, che ha costruito la sua intera carriera, iniziata nel 1998, nell’Antimafia a Messina. Prima come pubblico ministero, quindi come pm della Direzione distrettuale.
È un uomo a suo modo schivo, accompagnato dalla considerazione professionale che gli varrà la nomina a Procuratore (“Il dott. Cavallo – scrive nel giugno 2018 il Consiglio Superiore della Magistratura nelle motivazioni della sua nomina – ha dimostrato una elevata capacità di direzione della Polizia Giudiziaria, coordinando contemporaneamente, anche nell’ambito dello stesso procedimento, l’operato di più Forze di Polizia, quali il ROS Carabinieri, la DIA di Messina, la Squadra Mobile di Messina, le Compagnia Carabinieri territoriali, i Commissariati di P.S. locali, assegnando e ripartendo a ciascuno di essi compiti e funzioni ben distinte, secondo criteri ottimali di suddivisione e organizzazione del lavoro. Senza ombra di dubbio, tutti i procedimenti sopra menzionati, in particolare le più recenti operazioni Gotha “1, 2, 3, 4, 5 e 6”, sono il frutto di tale complessa attività di coordinamento”), ma anche da una sorta di maledizione.
Essere rimasto prigioniero di due grandi misteri irrisolti delle montagne dei Nebrodi, le stesse dove ora cerca Viviana e Gioele: l’omicidio del giornalista Beppe Alfano e l’attentato al presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, vicenda per la quale verrà messo sotto accusa dal presidente della commissione regionale antimafia Claudio Fava, che non ha mai creduto all’ipotesi dell’attentato di mafia, arrivando anche a ipotizzare una messinscena.
Il magistrato Angelo Cavallo sul luogo del dramma Cavallo appare frastornato dal circo che comincia a mettere le sue tende nella sua quieta Patti. E forse sottovaluta che ogni sillaba pronunciata in quei frangenti aumenta oltre ogni sua immaginazione un’esposizione cui non è abituato. Soprattutto perché in questa storia – a differenza delle vicende di Mafia – non ci sono cimici o microspie. Pentiti o capitali di conoscenze investigative pregresse. È un’indagine semplice. Quasi più da sbirro che da pm. E proprio per questo maledettamente complicata.
Dice oggi Cavallo: «Accetto, come sempre, qualsiasi critica, ma una cosa deve essere chiara: sin dall’inizio, non abbiamo escluso alcuna ipotesi. Nei primi giorni, ad esempio, avevamo di fronte un allontanamento volontario. Poi, ci siamo messi a raccogliere un tassello dopo l’altro. Perché eravamo consapevoli di essere di fronte a un caso intricato, con una serie di variabili indefinite. E se ho fatto alcune dichiarazioni pubbliche nel corso dell’inchiesta era soltanto perché dovevamo rintracciare dei testimoni importanti per l’indagine, come i turisti del nord che sono stati gli ultimi a vedere Viviana Parisi. E che proprio grazie ai nostri appelli, si sono presentati tredici giorni dopo».
Già, gli appelli. Quelli su cui continua a scommettere. «Riteniamo di aver ricostruito cosa abbia fatto Viviana prima di arrivare nella galleria dell’autostrada, ma chiunque l’abbia vista a Sant’Agata di Militello ci fornisca indicazioni. Potrebbero aprirsi scenari nuovi». Anche sulla montagna c’erano dei testimoni: raccoglitori di sughero e pastori. «Sappiamo come vanno le cose dalle nostre parti – dice il magistrato – magari qualcuno che sa non parla per paura». Ma paura di cosa?
Un segreto familiare È il 5 agosto. Dopo due giorni di ricerche a vuoto nelle campagne intorno all’autostrada, Daniele Mondello decide di istruire la sua personale inchiesta con lo strumento che sa usare e di cui conosce il formidabile potenziale: Facebook. Lancia un appello alla moglie. E le parole che sceglie lasciano spazio a diverse interpretazioni. «Torna a casa. Non succederà nulla a te, al bambino e nemmeno a me», dice.
Perché non dovrebbe succedere nulla a Viviana? Chi indaga ipotizza che la donna voglia fuggire dal marito per qualche buona ragione. Che esiste, in effetti. E che proprio quel post su Facebook spalanca. Svelando il segreto di un dramma familiare.
È la sorella di Daniele Mondello, Mariella, la prima a parlarne. Spiega che la cognata stava attraversando un periodo di stress psicologico cominciato durante il lockdown. Come, in qualche modo, sembrano confermare anche gli ultimi video postati su “Express Viviana”, il profilo Facebook pubblico della deejay. Viviana appare sola. E soprattutto tormentata dalla cognizione della sua solitudine. Cominciata con la nascita di Gioele, che le aveva regalato una felicità inimmaginabile, ma le aveva tolto la musica hardstyle, la passione della sua vita. La stessa di suo marito Daniele, anche lui affermato deejay, sostenuto da un’appassionata comunità di fan su Facebook.
Anche per Daniele il lockdown era stato un momento difficile. Di musica non si vive e per arrivare alla fine del mese, di mestiere si era messo a fare l’autista di una navetta per il cimitero. Il Covid aveva messo anche lui in cassa integrazione. Già, il lockdown. In quei mesi, Viviana aveva cominciato a leggere la Bibbia in modo compulsivo e scenografico. «Lo faceva ad alta voce anche sulla terrazza di casa», racconta il padre, Luigino Parisi. E anche per questo, in quei giorni, in casa si ipotizza che quel 3 agosto Viviana volesse raggiungere Motta D’Affermo, la roccia dove si alza la Piramide della Luce di Fiumara d’Arte, un monumento dedicato al rito per la serenità interiore e la pace. A soli 33 chilometri dalla galleria Pizzo Turda. «Non sapevo che voleva andare in quel posto – dice Daniele – Viviana lo aveva raccontato a mia sorella».
La Piramide della Luce di Fiumara d’Arte
di Gaetano Savatteri
C’è una sorta di incantamento o smarrimento. Si perde Viviana con il suo Gioele. Si perde in autostrada, si smarrisce uscendo e rientrando allo svincolo di Sant’Agata di Militello, forse inseguendo la chimera e il richiamo della Piramide del 38° Parallelo, scultura enigmatica e simbolica costruita nel 2010 su un promontorio di Motta d’Affermo. Diranno i suoi familiari che Viviana avesse chiesto informazioni sulla strada per raggiungere questa suggestiva opera di Mauro Staccioli, voluta dal mecenate Antonio Presti per il suo parco artistico diffuso per la valle di Tusa: opera che ha assunto per molti venature new age, anche se in realtà richiama ed evoca più concrete e storiche distinzioni mondiali, dall’altra parte del pianeta che al 38° parallelo dividevano e dividono Corea del Nord e Corea del Sud, comunismo e capitalismo, dittatura e internet.
Si smarrisce forse Viviana con Gioele. Ma dentro quel triangolo – tra Cefalù, Motta d’Affermo e Caronia – che qualcuno chiama magico, ma che in verità è solo denso di simboli artistici, memorie storiche e surreali episodi, cosa che vale per molte parti della Sicilia, terra che si nutre e si gloria delle sue leggende anche oscure; dentro quel triangolo di terra affacciato su uno dei mari più intensi d’Italia, alle spalle la vegetazione dei monti Nebrodi, in un abbaglio di colori e contrasti, sembra che lo smarrimento e l’incantamento colpiscano tutti coloro che in quei giorni hanno incrociato una donna con un bambino senza riuscire a capire, a prevenire, a prevedere.
Viviana percorre l’autostrada. Esce, vi rientra. Cerca la Piramide? È possibile. Ma la Piramide è innocente. È solo una Piramide apparentemente incongrua sul filo dell’orizzonte del Tirreno. Non c’entrano Mauro Staccioli o Antonio Presti, poco c’entra il Rito della Luce, evento artistico che ogni anno si celebra sotto la Piramide d’acciaio per il Solstizio d’Estate. Gli artisti sanno bene che le loro opere, se suggestive, se potenti, finiscono per assumere molteplici significati in chi le osserva o le insegue, muovendo quello che si agita dentro le anime e nei pensieri. E per questo ci affascinano e ci inquietano.
Ma la ricerca, se Viviana voleva arrivare fin lassù, si ferma sotto una galleria dell’autostrada. Un incidente, non grave, ma nemmeno banale, scombina i piani, sovverte i programmi, sempre che ce ne sia uno. Ma è estate, c’è caldo e siamo dentro un territorio non magico, ma forse incantato, perché a questo bastano solo i colori, la luce e il frinire delle cicale e l’estate siciliana che quando vuole può essere fatale.
Gli operai che viaggiano con il furgone contro il quale si è scontrata l’auto di Viviana, non si rendono conto di quella donna con il bambino. Si premurano di rallentare il traffico, di avvertire le altre auto in arrivo. Un altro incantamento: smarriscono e perdono di vista Viviana e Gioele. Non la vedono, non la trovano. Fanno altro, preoccupati di più gravi conseguenze su un’autostrada dove si corre a gran velocità. È una combinazione di micidiali distrazioni: quasi che la terra alzi un velo per nascondere cose e persone.
Se si volesse credere ai misteri di questo lembo di terra così sovraccarico di leggende, bisognerebbe richiamare alla memoria quel mago, un po’ imbroglione, un po’ libidinoso di Aleister Crowley che cento anni fa a poca distanza dalla galleria Pizzo Turda – a Cefalù, per l’esattezza – fondò in una villa in campagna la sua abbazia satanista, riunendo invasati da mezza Europa, approdato in questo braccio di Sicilia di indicibile bellezza con due concubine, qualche bambino e un cane chiamato Satan.
Nudi di donna, messe nere ed esoterismo animavano i giorni della comunità raccolta dall’inglese che aveva disegnato un mazzo di tarocchi ancora oggi usato per preveggenze nere. Durò poco la permanenza di Crowley in Sicilia, nel 1923 fu espulso dall’Italia dalla polizia fascista. Eppure quella memoria ha affascinato anche autori lucidi e razionali come Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo.
Ma non c’entrano maghi né diavoli. L’incantamento, lo stordimento è cosa di pochi minuti. Una telefonata, l’allarme, la richiesta di soccorsi. Quando gli operai vanno all’auto, che si è andata a fermare più avanti la donna e il suo bambino non ci sono più. C’è solo l’estate siciliana, il blu del mare, il verde e il rosso degli oleandri. Stringi gli occhi, cerchi qualcuno nella luce accecante. Forse troppa luce, la mente ne è come schiacciata.
Ma l’autostrada è luogo di passaggio. C’è un uomo, un brianzolo, che vede una donna col suo bambino, a piedi lungo la linea della corsia d’emergenza. La nota, la guarda. Tira dritto. Per giorni, mentre si cercano Viviana e Gioele, l’uomo prosegue la sua vacanza. Gli è rimasta quell’immagine negli occhi? Di certo, perché al suo ritorno a casa, al nord, sottratto alla malia della terra dei presagi, si ricorda di quella donna e di quel bambino. Si accorge che l’Italia intera si interroga sul loro destino. E chiama per raccontare quello che ha visto.
Incantamento, indifferenza, distrazione? Non si può dire, né giudicare. Troppo facile, troppo semplice. Viviana scavalca il guardrail, si addentra con Gioele nella campagna di Caronia, fra l’autostrada e il mare intenso, verso un grande traliccio di ferro. Sa che da queste per anni si sono ripetuti episodi misteriosi? Incendi, black out, fenomeni elettromagnetici. Nella frazione di Canneto, a pochi chilometri da questa campagna di stoppie riarse in riva al mare, gli inspiegabili incendi attirarono la curiosità di tv e giornali: qualche anno fa furono accusati due piromani, padre e figlio. Il mistero sembrò risolto.
Nella terra dell’incantamento le tracce si smarriscono, si confondono, si sovrappongono. Chi deve avviare le ricerche appare annichilito dalla stagione, dal paesaggio, da quest’estate che non regala requie. Viviana e Gioele scomparsi. Una fuga? Certo, in ogni caso sembra una fuga. Da chi? Da cosa? Verso dove? Le prime ore, quelle fondamentali in ogni indagine, girano a vuoto. La terra dei presagi pare avere inghiottito Viviana e Gioele. Là dove la luce è più forte, diceva Gesualdo Bufalino, più fitto è il buio e il lutto.
Giorni a cercare Viviana, per poi trovarla sotto al traliccio. Morta. E giorni e giorni a cercare Gioele. Ma invece era lì, poco distante dal corpo della madre. Sotto la luce, nel sole. Ma introvabile.
Il sole di questo pezzo di Sicilia sembra accecare gli uomini, il loro sguardo, la loro volontà. Rallenta, ottunde, abbaglia. Nasconde. “In Sicilia si sente toccare finalmente terra”, scriveva Sebastiano Aglianò, in un libro del 1945 sulla Sicilia dove descriveva la luce. “Il sole di mezzogiorno scarnifica il pensiero fino ad allucinarlo. I colori più spietati abbagliano l’occhio. Chiudeteli per un momento i vostri occhi e non vedrete più nulla, assolutamente nulla. Apriteli e vi accorgerete che l’universo è sopra di voi, implacabile”.
Autoritratti L’autoritratto che Viviana consegna di se stessa a Facebook è nei post che, dopo un’assenza di dieci mesi, aveva ripreso a scrivere in luglio. Si legge: «Dopo la nascita di mio figlio Gioele sono entrata a far parte di un mondo nuovo, particolare, colmo di impegni. Cinque anni fa i miei ormoni sono cambiati e gli ormoni di una donna sono veramente complicati e difficili da gestire». E ancora: «Alla nascita del mio cucciolo il suo mondo mi rapì sia con il cuore che con la mente. Il mio tempo non lasciò spazio ad altri pensieri. Mi travolse».
«Prima di tutto, mi coinvolse un senso di protezione, quindi iniziai ad aver cura di tutto il suo grande universo... Fino a un anno e mezzo fa lo nutrii col mio seno. Decisi poi a malincuore di non dargli più il mio latte nonostante ne avessi ancora proseguii con quello che mi prescrisse il pediatra, così arrivò il primo distacco come quello del cambio dei quindici pannolini quotidiani al vasino».
Gioele e la musica.
«Con il mio adorato cucciolo, la musica per me cambiò. Per Daniele l’Hardstyle in studio, per me la ninna nanna in camera da letto (…) Io che... poi due anni fa mi sono totalmente e completamente del tutto ancora più estraniata, allontanata, chiusa in un bunker precisamente e vi dirò cari amici che state qui in parte a leggere le mie emozioni... è come se avessi incontrato la matrigna cattiva e fossi scappata nel bosco nascondendomi dal mondo. La musica? La musica e tutto ciò che facevo è diventata malvagia mi ha “perseguitata” mi ha rinchiuso in una bara di “cristallo”». Post dal profilo Facebook di Viviana Parisi
Pronto soccorso Quando ancora Viviana non è stata ritrovata, sono anche i due certificati medici lasciati nel cruscotto della sua Opel che raccontano in quale labirinto fosse finita. Non è chiaro perché Viviana portasse con sé quei due pezzi di carta. Mentre è assolutamente chiaro ciò che documentano. Il 17 marzo di quest’anno, il medico di guardia del pronto soccorso di Barcellona Pozzo di Gotto scrive: «La paziente riferisce di sensazioni di sconforto e crisi di ansia legati al particolare momento di lockdown».
Il 28 giugno, un secondo certificato attesta che Viviana, accompagnata d’urgenza da Daniele al pronto soccorso del Policlinico di Messina, ha ingerito 8 compresse di un farmaco utilizzato per il “trattamento dei disturbi psicotici acuti e cronici”. Nel foglietto illustrativo del farmaco che Viviana ha assunto, il medicinale è indicato per contenere stati di «delirio e allucinazioni». Il medico del pronto soccorso di Messina annota: «La paziente riferisce di avere problemi psichiatrici». E aggiunge: «Dichiara di essere in cura al reparto di Psichiatria».
È una circostanza non vera, come accerterà la polizia. E, allora, perché Viviana mente? Nell’assunzione di quei farmaci, la procura di Patti legge un tentativo di suicidio, anche se i legali delle famiglia lo escludono: «Viviana aveva il dubbio di avere assunto un quantitativo leggermente maggiore del farmaco prescrittole». Resta da capire chi glielo avesse prescritto (è un farmaco di “classe A”). E resta soprattutto da capire perché Daniele continuerà a sostenere che Viviana «aveva soltanto preso per 4 giorni due pillole per poi smettere». Un riferimento non ai barbiturici che aveva assunto, ma alle compresse che il 28 giugno vengono indicate dal centro antiveleni di Pavia ai colleghi dell’ospedale di Messina proprio per fronteggiare l’abuso di farmaci che Viviana aveva ammesso.
I due certificati, i post su Facebook, le cartelle cliniche dei due ricoveri in pronto soccorso. Il Procuratore Cavallo ha deciso che se ne occuperà un consulente: il professor Massimo Picozzi, docente di Psichiatria presso le Università di Parma e Bocconi di Milano, “al fine di acquisire – scrive nel conferimento di incarico – informazioni precise sullo stato di salute mentale e psicologico della signora Parisi».
Il corpo di Viviana In quel bosco di cui scriveva, Viviana viene ritrovata morta. Nel bosco sopra Caronia, il pomeriggio dell’8 agosto, a cinque giorni dalla scomparsa. I cani da ricerca dei vigili del fuoco ne individuano il corpo sfigurato a circa tre metri da un traliccio della media tensione. Non lontano da un allevamento di maialini selvatici dei Nebrodi. A 300 metri dalla Statale 113. A 700 dalla piazzola dell’autostrada dove ha abbandonato la sua Opel.
I piedi di Viviana calzano una sneaker Stan Smith. L’altra viene recuperata in un cespuglio. È venuta giù dal traliccio. Perché si è suicidata, è convinta la Procura. Perché è scivolata, magari mentre controllava dove fosse finito il bambino, preferiscono pensare i legali della famiglia.
Il traliccio dell’alta tensione, sotto il quale è stato rinvenuto il corpo di Viviana Parisi Le ricerche di Gioele continuano a ritmo ancora più serrato. Le tende di protezione civile e vigili del fuoco vengono collocate in un distributore Ip sulla strada statale 113. Ogni giorno, partono squadre specializzate per cercare il bambino. Arrivano anche i Cacciatori di Sicilia dei carabinieri, specializzati nella ricerca dei latitanti. Arriva l’esercito. Arrivano soprattutto quattro unità cinofile specializzate della polizia, il meglio che ci sia in Italia. Ma il bambino non si trova.
Chi indaga ritiene che il bimbo non debba essere lontano dal luogo in cui è stata trovata la madre. Anche perché, arrivati a questo punto, le ipotesi superstiti sono quelle dell’omicidio-suicidio o «dell’incontro sfortunato», come ripete il procuratore Angelo Cavallo, il cui fascicolo di indagine continua ad essere intestato a una doppia ipotesi di reato «omicidio e sequestro di persona».
C’è un dettaglio rilevato dall’autopsia sul corpo di Viviana che tiene in piedi l’ipotesi dell’aggressione: alcune «fratture costali anteriori e posteriori», che non sarebbero compatibili con l’ipotesi della caduta dall’alto. E che la Procura incarica un radiologo di esaminare. E c’è persino chi non smette di coltivare l’idea che nella morte di quella donna possa esserci la traccia di un’aggressione da parte di animali selvatici che popolano quel terreno a strapiombo sul mare. Contrada Zorba è il nome. Un appezzamento di oltre 700 ettari diviso tra diversi proprietari.
La verità è che in quel momento ci si aggrappa ancora all’ipotesi che Gioele sia vivo. Che la madre possa averlo lasciato da qualche parte e per qualche ignota ragione a Sant’Agata di Militello. Anche perché, come sappiamo, il nostro turista lombardo è ancora in vacanza in Sicilia e non si è ancora presentato. Nessuno dunque sa che Viviana si è allontanata dalla sua Opel con Gioele in braccio.
È questa la ragione per cui, per giorni, i soccorritori si calano nei pozzi e nei canaloni vicino alla piazzola di sosta e accanto ai caselli autostradali. I cinofili della polizia battono anche il centro abitato di Sant’Agata. La foto di Gioele viene mostrata in tutto il paese. Negozio dopo negozio. Senza esito. Nessuno ha visto quel bambino con sua madre.
La resa Il 14 agosto, undicesimo giorno di ricerche, le famiglie Mondello e Parisi ritengono di averne abbastanza. Già il giorno dell’autopsia del corpo di Viviana, avevano dato segni di insofferenza («Quelle ricerche sono troppo lente, pochi uomini. Cosa fanno?»). Ed è così, dunque, che in cinque, tra fratelli e amici del papà di Gioele, iniziano a battere palmo a palmo alcuni ettari di campagna. Raggiungono anche un torrente. Ma niente.
Dopo Ferragosto, Daniele posta un nuovo appello su Facebook cui rispondono in 300: «Chi vuole aiutarci nelle ricerche si presenti domattina al campo base nella stazione di servizio Ip. Indossate maglie a maniche lunghe, ci sarà caldo».
Nemmeno due ore dopo la partenza di quel gruppo di volontari, un ex carabiniere in congedo trova ciò che inutilmente è stato cercato per 16 giorni. A 200 metri dall’autostrada Messina-Palermo, sono i pochi resti di Gioele. «Mi ha guidato Dio», dice Giuseppe Di Bello. Gioele viene riconosciuto soltanto dalle scarpette blu che la madre aveva scelto per lui in quella giornata in cui insieme avrebbero fatto una gita. Impossibile dire se sia stato ucciso lì dove è stato ritrovato. O se in quel cespuglio sia stato trascinato da animali nei giorni successivi alla morte.
«Un ex militare con una falcetta in mano ha trovato mio figlio in poco tempo», scrive ancora una volta sui social Daniele Mondello. «In tanti non sono stati capaci».
Di buon mattino, il giorno dopo il ritrovamento di Gioele, Daniele torna a scrivere sui social: «Se non ci fossero stati i volontari a cui avevo rivolto un appello, chissà se e quando lo avremmo trovato mio figlio… Le ricerche sono state un fallimento».
Il cugino di Daniele, Claudio, l’altro avvocato di famiglia, ci mette del suo con un altro post: «La credibilità dello Stato ne esce fortemente compromessa». Il procuratore Cavallo è travolto e sotto assedio. Diventa in poche ore il simbolo di una resa. Non ha coordinato le ricerche, ma è anche vero che le ha personalmente seguite tra i rovi. Dunque difende chi le ha fatte: «Rispetto l’opinione di chi vive un dolore immenso, ma non ho visto inefficienza dello Stato – dice – e non devo certo fare il difensore di ufficio di qualcuno, ma sono state messe in campo le migliori energie e professionalità». Non sa neppure lui che c’è ancora qualcosa da scoprire.
Nei giorni precedenti il Ferragosto, di fronte al vuoto, Cavallo si è infatti consegnato alla scienza forense e a uno stuolo di consulenti. Normalmente, l’indizio che si è nel buio più fitto. Ha disposto accertamenti medico-legali incaricando Daniela Sapienza, dell’Università di Messina, ed Elvira Ventura Spagnolo, dell’Università di Palermo. Ha chiesto l’esame delle superfici del traliccio da cui Viviana è volata giù. Ha consultato zoologi (Rosario Fico e Rita Lorenzini, dell’Istituto Aleandri) ed entomologi (uno dei migliori in Europa, Stefano Vanin, per misurare la temperatura dei terreni intorno al luogo di ritrovamento dei corpi per datarne con esattezza la morte). Incaricato – lo abbiamo visto – il professor Picozzi di indagare nella psiche di una donna che non c’è più.
Ha chiesto al Servizio Centrale Operativo della polizia le immagini registrate dal sistema satellitare europeo “Costellazione Copernicus”, perché nei primi giorni di agosto ci sono stati due passaggi di satellite nella zona. Ma anche lì, non c’è nessuna immagine utile. Ha quindi chiesto a una geologa, Roberta Somma, di esaminare fotogramma per fotogramma le immagini registrate dai droni dei vigili del Fuoco il 4 agosto. Cavallo è convinto che forse si possano indovinare nell’orografia dell’area delle zone nascoste in cui riprendere le ricerche. Del resto – non dimentichiamo che siamo nei giorni prima di Ferragosto – Gioele non è stato ancora trovato.
Le immagini dei droni vengono trasmesse alla Procura tra il 18 e il 19 agosto. Proprio mentre il corpo del bambino viene ritrovato. Il 20 agosto il geologo vede quello che nessuno aveva visto il 4. Il corpo di Viviana riverso ai piedi del traliccio alle 10 e 15 del mattino. È un epitaffio che chiude di fatto un mistero alla cui costruzione ha oggettivamente contribuito chi era chiamato a risolverlo. Tutti, in fondo, nessuno escluso.
Un mistero che il Procuratore di Patti continua a vedere tuttavia ancora gravido di «variabili indefinite», così le definisce. Anche se la logica e gli indizi, ora che tutto si è compiuto, portano in una sola direzione: il suicidio di Viviana. Il punto in cui viene ritrovato il corpo (che ora sappiamo essere stato in quel punto già la mattina del 4) e gli esiti dell’autopsia («Il corpo si è decomposto dove lo abbiamo rinvenuto», dice il medico legale Elvira Ventura) sono infatti compatibili con la sola ipotesi di un gesto volontario. Di chi, salito sul traliccio, si è gettato volontariamente.
Se Viviana fosse invece scivolata, come ipotizzano i legali della famiglia («mentre cercava il figlio dell’alto») il corpo sarebbe stato ai piedi della struttura e non a tre metri di distanza, con una sola scarpa ai piedi, essendo l’altra saltata via proprio in ragione della forza dell’impatto con il terreno. La mattina del 3 agosto, insomma, Viviana sarebbe salita da uno dei lati del traliccio, l’unico scalabile poiché gli altri erano bloccati da alcuni rovi. E di lì si sarebbe poi lasciata andare su un fianco. Come lascerebbero ritenere le fratture anteriori e posteriori del costato e le lesioni alla colonna vertebrale. Anche se la certezza arriverà dagli esami istopatologici.
E tuttavia – insiste il Procuratore Cavallo in un comunicato – questa resta un’ipotesi. «Non è mai stata data, né avrebbe mai potuto essere espressa da questo Ufficio, alcuna indicazione di probabilità su ipotesi da escludere o privilegiare, nemmeno nel momento iniziale delle indagini». Parole che fanno fatica a incastrarsi con quanto dichiarato qualche giorno prima: «I consulenti mi hanno fornito la loro ricostruzione, non dico quale».
La galleria fatale a Gioele? Se è vero che Viviana si è suicidata, resta da rispondere a un’altra domanda. Perché si è tolta la vita? La questione non ha a che fare evidentemente con la morbosa ricerca a posteriori della sua condizione psicologica. Ma perché dalla risposta a questa domanda è possibile ricostruire cosa sia accaduto a Gioele, ritrovato a soli 300 metri dal traliccio ai cui piedi è morta la madre.
«In letteratura – spiega il procuratore Cavallo – esistono casi di donne che uccidono i propri figli perché ritengono di doverli proteggere in questo modo da pericoli che vedono nel mondo esterno». Il papà di Gioele ripete: «Viviana non avrebbe mai fatto del male a nostro figlio, che adorava».
Dunque?
C’è un’ipotesi alternativa a quella, apparentemente logica, di una madre che, dopo aver ucciso il proprio figlio, decide di togliersi la vita. Ed è un’ipotesi altrettanto logica e forse molto vicina alla verità. E ha a che fare con quanto accaduto nella galleria Pizzo Turda.
Vediamo.
Il testimone brianzolo, che vede Viviana mentre si allontana con Gioele oltre il guardrail della Messina-Palermo, dice che il bambino «sta bene». È un’affermazione che ha la certezza dell’indicativo ma, a ben vedere, piuttosto anodina. Sulle condizioni di Gioele infatti, e sul fatto che dopo l’incidente stia «bene», l’unica circostanza che il testimone è in grado di indicare è che il bambino «ha il viso appoggiato sulla spalla della madre».
Il testimone, dunque, non sente, né vede Gioele parlare con la madre o piangere. Il che è insolito, pensando che quel bambino e sua madre sono appena sopravvissuti a un incidente ai 100 all’ora con un doppio testa-coda e un finestrino dell’auto esploso. In una condizione normale, un bambino piange, una madre lo consola, e l’apparizione di un soccorritore, chiunque esso sia, è un sollievo, non un motivo per scappare.
La piazzola dove si è fermata la macchina di Viviana, all’uscita della galleria È vero che all’interno dell’abitacolo della Opel Corsa non sono state ritrovate tracce di sangue. Ma è altrettanto vero che dalle nuove analisi disposte dalla Procura di Patti nell’auto siano emerse tracce biologiche su un finestrino e un sedile, compatibili con uno spaventoso urto del corpo di Gioele dopo la collisione in galleria. Insomma, si potrebbe raccontare la premessa del dramma di Gioele e di sua madre anche così: dall’incidente in galleria Gioele esce privo di sensi. Non era legato al seggiolino e il seggiolino non era assicurato ai sedili. Ha battuto violentemente la testa dentro la Opel e una volta finita la corsa Viviana vede che non risponde.
Lo prende in braccio e, sconvolta, si avvia nella campagna in cerca d’aiuto o semplicemente per nascondere a chiunque ciò che le è successo e di cui evidentemente sente in quel momento la colpa, sapendo che dovrà giustificarsi, che non riuscirà a perdonarsi. Questo spiegherebbe perché Viviana non si fermi quando viene seguita per un breve tratto dal turista brianzolo e questo spiegherebbe anche la vicinanza tra i luoghi di ritrovamento del suo corpo e di quello di Gioele.
Se infatti le cose fossero andate così, se Gioele cioè fosse uscito gravemente traumatizzato dall’incidente o addirittura in fin di vita per l’urto, è possibile che una volta nel cuore del bosco Viviana abbia constatato che per Gioele non ci fosse più nulla da fare e a quel punto abbia deciso di farla finita, salendo sul traliccio a poche centinaia di metri dal punto in cui ha deposto il corpo del figlio.
I primi esiti dell’autopsia svolta mercoledì 26 agosto sul corpo di Gioele sembrerebbero portare argomenti a questa ipotesi. È stato stabilito infatti che lo scempio compiuto dagli animali sulle spoglie del bambino è avvenuto dopo la sua morte e dunque non ne è la causa.
Il tempo ci dirà se le cose sono andate così. Se cioè a Viviana sia toccato in sorte il più disumano dei dolori, sopravvivere a un figlio. O se, per ragioni insondabili, sia stata lei a ucciderlo, scegliendo d’impeto un luogo in coincidenza con l’incidente stradale di cui era stata protagonista. È un fatto che Viviana e Gioele non ci siano più. E che chi poteva forse salvare l’una e l’altro, quando ancora si era in tempo, non ci sia riuscito o non abbia potuto. Il mistero di Caronia è in fondo di questo che parla.di CARLO BONINI (COORDINAMENTO E TESTO), ROMINA MARCECA (CARONIA), SALVO PALAZZOLO (CARONIA), GIORGIO RUTA (VIDEO). con un racconto di GAETANO SAVATTERI. COORDINAMENTO MULTIMEDIALE LAURA PERTICI. GRAFICHE E VIDEO GEDIVISUAL