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 2020  agosto 30 Domenica calendario

Anatomia della malinconia

Il riso fa buon sangue. Mette di buon umore. Ma non è, questo, un semplice modo di dire dettato dall’esperienza; bensì una sorta di reperto archeologico – un fossile linguistico diventato proverbio – che risale ai tempi in cui medici e dottori, prima in greco e poi in latino, diagnosticavano e curavano il corpo e l’anima seguendo la cosiddetta teoria degli umori di Ippocrate e Galeno. Sangue, flemma, bile gialla e bile nera.
Quando a fare i capricci era quest’ultima – la bile nera o atrabile – che aveva sede nella milza, la conseguenza era un’alterazione dell’equilibrio interno: uno sbalzo d’umore, appunto, che prendeva il nome di malinconia. E non è detto che si trattasse di un malanno passeggero.
Era infatti assai più facile che, tenendo anche conto degli influssi astrologici – e, cioè, dell’ascendente fissato dal destino per ognuno di noi al momento della nascita -, i suddetti medici e dottori vedessero nella prevalenza di un umore sopra l’altro l’indizio di un carattere permanente.
A soffrire di malinconia, per esempio, erano soprattutto i nati sotto un certo segno. E Aristotele aveva confermato da par suo tutta una filza di malesseri e disturbi, per lo più spiacevoli – indolenza, affanno, tremiti, dolori all’addome, ulcere ed emorroidi -, che andavano di pari passo con la malinconia. Aveva però anche notato che i soggetti malinconici davano spesso prova di non comune intelligenza e vigore creativo.
Per cui, quando Platone e Plotino subentrarono ad Aristotele come maîtres à penser nella Firenze del primo Rinascimento, a Marsilio Ficino fu sufficiente guardarsi attorno per individuare nei nati sotto Saturno il perfetto esempio di una congiunzione astrale tra genio e malinconia.
Ficino, che, oltre al Corpus Hermeticum di Ermete Trismegisto aveva tradotto parola per parola gli scritti di Platone per il granduca Cosimo de’ Medici, fu tra coloro che contribuirono a metter fine alla cultura del Medioevo. Insieme alla brigata degli umanisti dell’Accademia platonica promosse la lettura dei classici con un rispetto filologico per il testo di cui, cent’anni prima, Francesco Petrarca aveva fornito l’esempio.
Ma qualcosa di quel Medioevo, forte delle proprie certezze metafisiche, con il suo enciclopedismo e i suoi centoni – ovvero il coraggio (e la necessità) di tagliare e cucire gli scrittori antichi cristianizzandoli – sopravvisse nel tempo. E quando Robert Burton (1577-1640) scrisse la sua Anatomy of Melancholy, pur aggiornando i contenuti fino a Paracelso, Copernico, Bacone e Galilei, riutilizzò le antiche colonne del sapere pro domo sua.
Dedicò infatti l’intera esistenza a mettere insieme un libro che è una cattedrale di citazioni perfettamente allineate all’ortodossia della Chiesa d’Inghilterra e lo pubblicò firmandosi con uno pseudonimo, Democritus Junior, in omaggio al «ridente filosofo atomista» di Abdera (V-IV secolo a.C.) del quale si era scritto che «non ci fosse nulla nella intera fabbrica della natura di cui non avesse parlato». Mentre di lui, Burton, si diceva che avesse letto tutti i libri della biblioteca di Oxford, che era allora la seconda al mondo dopo la Vaticana.
L’anatomia della malinconia, ora tradotto e presentato con tutti i crismi – e, per la prima volta, nella sua interezza – da Luca Manini, Amneris Roselli e Yves Hersalt nella collezione «Classici della letteratura europea» di Bompiani, è un libro fatto di libri e scritto da un chierico – cappellano in una chiesa di Oxford, appunto – che conobbe il mondo solo sulle carte geografiche; ma che, attraverso la lettura, ebbe modo di incontrare i grandi uomini di ogni tempo, le cui opere mise poi insieme come fa «la buona massaia che tesse lane diverse e ne ottiene una sola stoffa, o come fa l’ape laboriosa che ricava cera e miele da tanti fiori e in questo modo li ricompone in un nuovo mazzo».
L’anatomia della malinconia è insomma un immenso catalogo di tutto quanto è stato scritto sull’argomento dall’Antichità fino al Rinascimento; ed è un libro garbatamente aperto a quel sapere intessuto di preconcetti e pregiudizi che Bacone avrebbe voluto dissipare, e in cui però il tempo, fermandosi sulla pagina nella contemporaneità assoluta delle citazioni, trasforma quest’opera di antiquariato in una riflessione sub specie aeternitatis.
È un libro “senza fine”, che crebbe a ogni successiva edizione (1621, 1623, 1628, 1638 e 1651) raggiungendo un totale di 3mila pagine. Un calepino nella forma di promemoria per se stesso e di colloquio con il lettore in cui sopravvivono frammenti di opere che nessuno ormai leggerebbe altrimenti. Burton ne cita poco meno di 2mila e tra questi c’è l’Ariosto con il suo Orlando - “furioso”, ovvero malato di malinconia – ma non il Tasso che pure era già stato tradotto, nel 1600, da Edward Fairfax.
Non c’è bisogno di dire che L’anatomia della malinconia fu anche un best-seller e che, in assenza di copyright, fruttò molto poco al suo autore ma fece arricchire, letteralmente, lo stampatore. Il quale, tra l’altro, impose a Burton di scriverlo in inglese invece che in latino. Ma il numero di citazioni di cui è infarcito ne fa comunque un’opera bilingue, per un pubblico – quello dei suoi contemporanei colti – che bilingue era ancora in gran parte.
Definita dal poeta francese Yves Bonnefoy come «l’elemento che forse caratterizza più specificamente la cultura dell’Occidente»; la malinconia, a partire dalla famosa incisione, - Melencolia I (1514) – di Albrecht Dürer fino all’Amleto di Shakespeare et ultra, fu davvero il simbolo di un’epoca: l’espressione mondana di un’intuizione metafisica.
Non deve quindi stupire che la «figura del principe Amleto – con quella sua personalità fredda, matura, autunnale, terrestre e vendicativa: magro, pallido, lento nel camminare, pensoso, solitario, scontento, indeciso eppure ostinato» – si sia affermata tanto profondamente nella coscienza dei secoli a venire come l’incarnazione artistica di quella meditazione sulla fragilità dell’esistenza che il Medioevo aveva rappresentato in forma allegorica come memento mori o «danza della morte».
Ma il libro di Burton, al pari dell’Elogio della pazzia (1509/11) di Erasmo, affonda le proprie radici in una cultura ormai fiduciosa nella capacità dell’uomo di edificare il castello dei propri valori. È però anche l’opera di un ministro di una chiesa protestante – com’è, in parte, la Chiesa d’Inghilterra -, fondata sulla convinzione che l’uomo è meno forte delle proprie passioni e che solo l’intervento dello Spirito può salvarlo da se stesso.
Due gli ambiti della malinconia a cui Burton dedica un’attenzione particolare, e sono le smanie di chi si innamora follemente ed esce, appunto, di senno; e le manifestazioni di entusiasmo - en-theós-ousia o “possessione divina” – di chi, credendosi ispirato direttamente dal Padreterno, parla dal pulpito in sua vece minacciando il mondo intero di sanzioni apocalittiche. (E a questo proposito giova ricordare, almeno tra parentesi, che siamo alla vigilia della Guerra civile e che in Inghilterra, in quegli anni, c’erano almeno 300 sètte religiose diverse, tutte più o meno in possesso della formula vincente per salvare l’anima propria e quella degli altri).
Ma Burton era un uomo di una diversa pasta. Scapolo e bonario, portato più al sorriso che all’invettiva, fu un geniale topo di biblioteca e un uomo di buona volontà. Non un teologo e non un mistico, ma un buon parroco che, in attesa del dono della grazia, per combattere la malinconia – il devastante male di vivere a cui oggi diamo altri nomi – si affidò sempre alla sovrana virtù del buon senso.
Uno scrittore delizioso che ai suoi lettori ricorda a ogni piè sospinto che non è mai detta l’ultima parola e che qualche rimedio lo si può sempre trovare: andando magari a teatro o passeggiando all’aria aperta; evitando di rimanere senza far niente e cercando, soprattutto – soprattutto! -, di ridere delle cose di questo basso mondo. Allo scopo di rimettere appunto in sesto la chimica degli umori.