Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2020
A tavola con Pupi Avati
«Era poco più che una proiezione privata. La prima volta in cui Pier Paolo Pasolini mostrava agli amici “Il fiore delle mille e una notte”. Il 1974. Io ero seduto a fianco di sua madre Susanna che, con quella espressività del volto e degli occhi, aveva interpretato dieci anni prima la Madonna nel “Vangelo secondo Matteo”. Lei mi prese la mano e la tenne stretta alla sua per tutto il tempo».
In una Roma lunare e triste – Piazza del Popolo ha più taxi posteggiati che turisti, la metà dei negozi di Via del Corso ha le serrande abbassate e i ristoranti sono desolatamente vuoti – i tavoli alla Buca di Ripetta sono tutti occupati. Turisti tedeschi e americani. Ma anche italiani. Un signore che è a cena con due amici e il figlio si avvicina: «La posso salutare? La seguo da sempre, fin dai tempi di “Impiegati”», dice rivolgendosi con rispetto non ossequioso a Pupi Avati.
Avati ha attraversato, non senza inciampi e difficoltà, l’età aurea del nostro cinema: «Gli inizi sono stati durissimi. A Bologna avevo esordito nel 1968 con “Balsamus l’uomo di Satana” e, nel 1970, avevo fatto “Thomas e gli indemoniati”. Era il Sessantotto. Umberto Eco teorizzava l’opera aperta. Erano due film politici, molto intellettualistici, il cui insuccesso in sala per me coincideva snobisticamente con chissà quale grandezza estetica e civile, che invece semplicemente non c’era. Soltanto dopo avrei capito l’importanza della narrazione e della comprensibilità, del mistero e della chiarezza. Nel 1968 sono venuto a Roma. Era una città dura e gerarchica, amara per chi stava in basso come me. In tanti, ricordando i miei primi due film, mi dicevano crudelmente: “aho, c’hai du cadaveri”».
Avati non nasconde ciò che non è bello. Non lo edulcora né lo nega. Semmai – da cattolico razionalista che conosce la miscela spesso indistinguibile di bene e di male, di mediocrità del dolore e di banalità del piacere – lo inserisce in un contesto più ampio e sempre segnato dal senso di umanità. Mentre leggiamo il menu e la carta dei vini che ci ha portato il cameriere, fa così con le tribolazioni del giovane cineasta che aveva rinunciato a una carriera da dirigente alla Findus negli anni 60, illuminandole con il ricordo delle poche soddisfazioni di quegli anni di stenti: «Un giorno, in una trattoria, Mario Monicelli, che non conoscevo, parlò bene dei miei film di esordio difendendomi da chi invece, come al solito, mi massacrava. Un amico comune me lo riferì. Andai a salutarlo e a ringraziarlo. I primi quattro anni furono durissimi, al limite della solitudine e della povertà. Oltre a Monicelli, mi aiutò molto Pasolini, per il quale con Sergio Citti scrissi la sceneggiatura di quell’opera terrificante, autodistruttiva e finale che fu “Salò”, in lunghi e stranianti pomeriggi nella sua casa di via Eufrate all’Eur, con sua madre che, mentre noi parlavamo di ogni genere di nefandezza e violenza, entrava in salotto chiedendo: “Pier Paolo, questa sera le melanzane le preferisci in umido o fritte?”. A farmi uscire dall’anonimato e dalle ristrettezze, fu soprattutto Ugo Tognazzi, che per un caso fortuito aveva letto con piacere la sceneggiatura della “Mazurka del barone, della santa e del fico fiorone” e che volle esserne il protagonista nel 1975».
Arrivano in tavola i suoi carciofi alla Giudia e i miei fiori di zucca farciti con ricotta e riduzione di aceto balsamico. Nel caso di Avati si indugia spesso sulla passione per il jazz e sull’epica minima delle ragazze, sulla quotidianità della provincia e sullo slancio mezzo amaro e mezzo dolce di una Italia di mezzo. Avati è – nella dimensione professionale e nella dimensione umana – molto più complesso della rotondità e della bonomia dietro cui si nasconde. È insieme un cantastorie da civiltà contadina della Pianura Padana senza la severità spirituale di un grande maestro come Ermanno Olmi e un artigiano del cinema che, con la casa di produzione DueA posseduta con il fratello Antonio, si misura ogni giorno – all’età di 81 anni – con il set.
Avati, mentre riempie i nostri bicchieri di Chianti classico, racconta come sta trascorrendo le sue giornate di lavoro di piena estate: «Con DueA, Bartleby e Vision, più l’ausilio della Emilia Romagna Film Commission, stiamo realizzando il film ispirato a Nino Sgarbi e a sua moglie Rina Cavallini, i genitori di Elisabetta e di Vittorio. Ora stiamo girando a Cinecittà. Nino, a 93 anni, aveva scritto un libro molto bello, “Lei mi parla ancora”, che ha acceso la mia fantasia. Nel film lui, ormai anziano, racconta la sua vita a un ghost-writer, interpretato da Fabrizio Gifuni. Nino da giovane è interpretato da Lino Musella. Da vecchio da Renato Pozzetto. Rina da Isabella Ragonese e, nella sua stagione più matura, da Stefania Sandrelli. Il programma prevede due settimane a Cinecittà e poi tre settimane a Rho Ferrarese, nella casa museo riempita di mille opere d’arte da Vittorio e da sua mamma, con questi mille occhi di ritratti di ogni epoca che ti guardano dalle pareti. Sono molto contento per il cast. Spero che Pozzetto riesca a immedesimarsi in questa sua nuova stagione della vita. È stato un grande attore comico. Ma, in questi casi, serve che l’attore di antica popolarità capisca che i suoi 80 anni sono una ricchezza e che, per lui, possono rappresentare un nuovo inizio. Sul set, ogni giorno di lavoro è diverso dall’altro. Oggi, per esempio, ogni cosa è andata al suo posto».
Viene servito il primo. Per lui fettuccine con orata e carciofi. Per me ravioli con ripieno di ricotte e pere, cucinati con salsa di arance e una riduzione di aceto balsamico: «È un accostamento molto padano. Lo potresti trovare a Piacenza, a Reggio Emilia o a Mantova», osserva lui. Avati, qualche volta, sembra scisso. Ha la duplicità – non la doppiezza, che sarebbe un elemento deteriore – dei personaggi che vivono nell’Emilia Romagna cattolica e pagana, pragmatica e magica, quella strana umanità che unisce gli Appennini di Parma e le colline di Bologna, arrivando fino al mistero immobile delle foci del Po e alla magia mobile della Rimini di Federico Fellini, suo riferimento: «Alla prima proiezione del suo ultimo film, “La Voce della luna”, eravamo in pochi amici, lui per la agitazione non era venuto, ogni dieci minuti chiamava preoccupato al telefonino Giulietta Masina, chiedendole se il film ci piaceva e se avevamo o no riso a una certa battuta. I suoi ultimi anni sono stati amari, i produttori avevano sempre paura che si allargasse con i costi, per loro non era un affare fare lavorare un genio come lui. Ogni tanto gli dicevo: “Federico, perché non facciamo un film segreto? Non lo diciamo a nessuno. Io ti faccio da assistente. Un budget minimo”. Solo che sarebbe stato impossibile. Lui era Fellini. L’uomo che con “La dolce vita”, “Otto e mezzo” e “Amarcord” aveva determinato la vita di tanti di noi».
La duplicità fa dire a Avati cose verissime al limite della crudezza se non della crudeltà e – senza che questo possa sembrare una contraddizione – gli fa esprimere desideri e pensieri, paure e sentimenti che, poco alla volta, assumono le sembianze della realtà: «Ho sempre creduto nella bontà della menzogna, che è immaginazione. Sono sposato da sempre con Nicola, una donna che ha un nome da uomo, che ho baciato per la prima volta dopo avere detto una bugia. Eravamo a una festa di compleanno. Lei era bellissima. Io ero intimidito e goffo. Ho trovato il coraggio di riaccompagnarla a casa. Mancavano cinque minuti a mezzanotte. Le ho detto che quel giorno era il mio compleanno e che nessuno mi aveva dato ancora un bacio. Lo fece lei e tutto iniziò».
Il cinema è fatto di ordine e di disordine, di follia («arriva in uno qualunque dei settemila comuni italiani, installa un set nella piazza della chiesa, il primo a venire da te sarà il matto del paese») e di coerenza con la propria estetica: «Non ho mai fatto un film per il mercato, non mi è venuto di farlo, non ci sarei riuscito, anche se conosco l’ora del codardo, alle undici e mezza di sera del lunedì, quando arrivano i dati del botteghino del finesettimana e pur di avere un buon risultato vorresti aver fatto anche il peggiore dei film commerciali». Anche per tutta questa sua umana contraddizione e per questo suo girovagare artistico, Avati riceverà il 9 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia il premio Robert Bresson, attribuito dalla Fondazione Ente dello Spettacolo della Conferenza Episcopale Italiana.
Nella piccola magia delle cose qui alla Buca di Ripetta – nella vecchia filodiffusione, molto anni 70-80 – iniziano a sentirsi una serie di canzoni di amici di Pupi, che sembra quasi il titolo di un suo film, da Lucio Dalla a Paolo Conte. Arriva alla fine della cena il gelato al limone che entrambi abbiamo ordinato. E, come se fossimo in un copione già scritto da altri, parte proprio “Un gelato al limon”. Avati sorride: «Conte così diverso da me. Paolo è così riservato. Ma ho un grande affetto per lui e per sua moglie Egle, una donna molto affascinante». E, mentre la voce dell’avvocato di Asti canta “un gelato al limon e vero limon, ti piace?, mentre un’altra estate passerà, libertà e perline colorate io ti darò, e la sensualità delle vite disperate, ecco il dono che ti farò”, mi viene da pensare che un altro amico di Pupi come Federico Fellini – con le sue cartomanzie affettive e sentimentali – sarebbe felice di queste apparenti casualità e di questa architettura di professione e di vita, di cinema e di amicizie, di morti e di vivi.