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 2020  agosto 30 Domenica calendario

Ricordi di Giacomo Libera

Gustavo Thoeni vince la Coppa del Mondo di sci, Niki Lauda trionfa con la Ferrari al Gran Premio di Montecarlo, Eddy Merckx domina il Giro delle Fiandre, la Juventus si cuce sulle maglie lo scudetto. La primavera del 1975 è il tempo degli eroi dello sport che infiammano le folle, mentre il mondo si agita, combattuto tra desiderio di rinnovamento e voglia di lasciare tutto com’è. Gli americani se ne vanno da Saigon, i Vietcong hanno avuto partita vinta, in Cambogia comincia il terrore di Pol Pot e in Italia, nonostante la svolta europeista del partito Comunista di Enrico Berlinguer, i terroristi rossi e neri si fanno la guerra e sulle strade scorre il sangue. È il periodo dell’estremismo che mette in ginocchio il Paese. Il calcio vende e compra sogni, speranze e illusioni sulla solita piazza del mercato. L’Inter del presidente Fraizzoli prosegue nella politica di ringiovanimento e va a pescare Giacomo Libera, attaccante del Varese. Per acquistarlo i nerazzurri ingaggiano un duello con il Milan che lo ha opzionato per la stagione successiva. Ma all’ingegner Borghi, padre-padrone del Varese, il miliardo (o quasi) che gli offre Fraizzoli è più che sufficiente per disdire l’accordo preso con il Milan. E così Libera sbarca in nerazzurro e gli viene appiccicata subito l’etichetta di erede di Gigi Riva.
Paragone esagerato e imbarazzante.
Che cosa ricorda, signor Libera?
«Io sono nato a Ispra, Gigi è di Leggiuno, che è lì a pochi chilometri. Tutt’e due del Lago Maggiore, quindi. Tutt’e due mancini. E tutt’e due con la maglia numero 11 addosso. L’accostamento era logico, perfino banale. Ma a me, in fondo, faceva piacere. Avevo ventiquattro anni, pensavo a godermi la vita, giocavo a pallone, guadagnavo abbastanza bene, volete che mi desse fastidio essere paragonato a Gigi Riva?».
Magari le ha messo troppa pressione addosso.
«Io, a Rombo di Tuono, potevo solo allacciare le scarpe, e lo sapevo. Questa era la mia forza: ero consapevole dei miei limiti, anche se avevo buone qualità come attaccante. No, a me la pressione la mettevano altre cose».
Adesso ci arriviamo. Prima, però, ci racconti il trasferimento all’Inter.
«Io ero convinto di dover andare al Milan, ma nella stagione successiva. Il presidente dei rossoneri, che mi pare fosse Albino Buticchi, aveva acquistato Egidio Calloni dal Varese e aveva chiesto all’ingegner Borghi di tenermi in caldo per un anno, poi mi avrebbe portato al Milan. Fatto sta che arriva Fraizzoli, sborsa un sacco di soldi e io mi ritrovo all’Inter. Che mi andava benissimo, per carità, anche perché avevo saputo che Fraizzoli si era innamorato di me, gli piaceva come giocavo e intendeva lanciarmi. In quell’Inter c’era ancora Boninsegna, poi il secondo anno arrivò Anastasi dalla Juve, c’era Mazzola, c’era Facchetti, e poi c’era una banda di giovani, tra i quali il sottoscritto, che dovevano studiare per diventare calciatori adulti».
Lei, però, il percorso di crescita non lo concluse, vero?
«So dove vuole arrivare e allora gioco d’anticipo. È vero, mi chiamavano il fuoriclasse del Nepentha. Sa che cos’è il Nepentha?».
Una storico locale notturno milanese.
«Esatto, lì c’era tutta la Milano bene e quasi ogni sera mi trovavate lì. Belle donne, bella gente, si chiacchierava, si ballava, si facevano le ore piccole. Molte piccole».
A Fraizzoli arrivò la voce che il suo comportamento non era proprio un esempio di professionalità e allora…
«Fraizzoli mi prende da parte e mi fa: “Ho saputo che va a letto un po’ tardi”. Dopo due giorni scopro di essere seguito da due investigatori privati. Li affrontai: erano due sbarbatelli al primo incarico. “Signor Libera, non se la prenda con noi, è Fraizzoli che ci dà i soldi”. Allora io dico: “Bene, voi siete miei ospiti tutte le sere al Nepentha, però dopo scrivete nel vostro rapporto che sono andato a dormire alle dieci di sera”. Furono di parola e un mese più tardi Fraizzoli si congratulò con me: «Bravo, Libera. Ho saputo che lei fa proprio una vita da professionista”. Feci fatica a trattenere la risata, lo ammetto. Però quella vita scapestrata la pagai sul campo. Non mi allenavo come avrei dovuto e andai incontro a brutti infortuni. L’Inter mi cedette e io cominciai il mio giro d’Italia: Atalanta, Foggia, Bari. A trentadue anni, fine dei giochi».
Il suo bel ricordo all’Inter?
«Un gol in Coppa Italia alla Juve. 31 agosto ‘75, San Siro strapieno, è il mio debutto in quello stadio. Mi tremano le gambe. Per un quarto d’ora non capisco niente. Poi mi sveglio. Dopo una mezz’oretta Oriali crossa in mezzo all’area, mi alzo e di testa colpisco forte il pallone che supera Zoff. Delirio. Vinciamo 1-0, la gente mi voleva fare santo perché allora non capitava spesso che l’Inter battesse la Juve».
Il compagno con cui legò di più?
«Io, Gasparini e Marini eravamo i tre scapoli e abitavamo assieme in una villetta. Ne facevamo di tutti i colori. Ma il legame più forte ce l’ho avuto con Facchetti, eravamo in camera assieme. Mi dava consigli, cercava di mettermi sulla strada giusta, ma era un’impresa che nemmeno al grande Giacinto poteva riuscire. Comunque, di tutto quello che ho fatto, non cambierei una virgola. Sono felice così».