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 2020  agosto 28 Venerdì calendario

Su "Della gentilezza e del coraggio" di Gianrico Carofiglio

Forse un giorno uno storico ne terrà conto. Nell’anno del Covid, il ventunesimo del nuovo secolo, nella Repubblica italiana per partecipare a una discussione in piazza, soprattutto nelle arene televisive, e anche privatamente tra amici nel salotto di casa – a volte le modalità rissose sono le stesse – occorre munirsi di un breviario. Di un manuale retorico di autodifesa. Che ci dice quali sono le strategie di manipolazione del discorso pubblico e come possiamo metterci al riparo anche solo smontando la pirotecnia verbale sapientemente allestita: dal leader politico, dal giornalista, dal conduttore assetato di ascolti, dal presunto esperto ringalluzzito dal gettone di presenza. «Quel che cerco di fare è smascherare i trucchi dei nuovi bari della lingua. In questo modo l’incantesimo s’infrange e l’artifizio della predicazione distorsiva viene mostrato a tutti nella sua volgare grossolanità»  dice Gianrico Carofiglio, lo scrittore-magistrato autore di questo inedito inventario che racconta molto del nostro Paese e della sua caduta di stile, non solo oratorio (Della gentilezza e del coraggio. Breviario di politica e altre cose, Feltrinelli, in libreria dal 3 settembre). Perché se è vero che per intervenire a un dibattito, o solo per riuscire a capirne il grado di contraffazione, occorre indossare mentalmente una divisa marziale – a voi la scelta tra ju-jutsu, judo, aikido, karate, wing chun, tutte discipline frequentate dall’autore –  allora vuol dire che qualcosa nella nostra crescita civile è andato storto.

Processo ai talk show da parte d’un ex giudice che non li disdegna? «In realtà non sono tutti eguali» obietta Carofiglio, che spesso fa capolino in prima serata. «Talvolta l’obiettivo dichiarato è scatenare la zuffa con disprezzo totale della verità. In altri casi prevale il tentativo di approfondire anche se l’esito non è sempre felice. Ma quel che è interessante è il sentimento con cui in molti partecipano, che è poi lo Zeitgeist contemporaneo, lo spirito del tempo: l’idea che la comunicazione politica sia soprattutto manipolazione, contraffazione, imbroglio.  Di fronte a questa grave stortura sono possibili due strade. Uno potrebbe anche decidere: non ci vado e non vedo i programmi. Ma è una soluzione? Io ho scelto di accettare questa ineluttabile conflittualità e di scommettere sulle infinite possibilità dell’intelligenza». Cita una frase attribuita a Bertrand Russell: il problema di questo mondo è che le persone intelligenti sono piene di dubbi e i cretini sono pieni di certezze. «Io confido in un cambiamento. E che il raziocinio prevalga sulla baruffa dissennata».

La neolingua denunciata nel breviario evoca espressivamente il bagaglio retorico del populismo contemporaneo, che dalla semplificazione aggressiva trae la sua ideologia e la sua forza. E nelle invenzioni quotidiane della manipolazione politica non si fa fatica a riconoscere le capriole del segretario leghista, le magistrali mises en scène della sorella d’Italia o l’aggressione spanciata del conduttore giocoliere dalla  voce in falsetto. Un armamentario oliato da tempi televisivi sempre più veloci e frenetici. «Ma è per questo che bisogna imparare a replicare in modo efficace, etico e pertinente. Nel mio catalogo cerco di offrire suggerimenti non tanto in merito alle scelte – i contenuti restano essenziali! – ma al metodo, al come fare. E a cosa non fare. Regole che pratico ogni volta che vado in tv».

Fallacie. Così le chiamano gli studiosi della teoria dell’argomentazione. Sono gli errori nella  costruzione del discorso che – il più delle volte deliberatamente – rendono inutile la conversazione. La interrompono impedendole di progredire logicamente. «Una delle più insidiose è quella dell’argomento-fantoccio che consiste nella scorretta rappresentazione della tesi che si vuole contrastare. Tale tesi viene esagerata, a volte ritratta in modo caricaturale e all’avversario vengono attribuite parole che non ha pronunciato o concetti che non ha mai espresso». Il risultato è che l’asse centrale della discussione si sposta altrove e il manipolato finisce nell’angolo. «In questi casi bisogna evitare la reazione più istintiva, che è quella difensiva. Mai giustificarsi con un “ma io non ho mai sostenuto questo!”, perché nel momento in cui lo dici hai già perso. Ciò che resta instillato nella memoria dei telespettatori non è tutta la sequenza razionale ma solo frammenti di informazione». Lei allora cosa suggerisce? «Si chiama “tecnica del sandwich”: innanzitutto ripeti quello che hai veramente detto, poi mostri il trucco a cui è ricorso l’avversario, alla fine ripeti la tua verità». Con la speranza di avere il sangue freddo per non inciampare nelle pieghe del discorso.

È inevitabile domandare a Carofiglio se sia stata un’esperienza televisiva sgradevole a indurlo a vergare il suo manuale di autodifesa. «Ero in uno studio della Rai quando un volto molto noto si mise a mostrare alle telecamere cartelloni irridenti mentre gli altri ospiti prendevano la parola. Confesso che provai un’irritazione profonda, ma sarei un’ipocrita se dicessi di essere stato colto alla sprovvista. Se stai andando a fare a botte, non puoi sentirti a disagio se l’altro tira un pugno o fa cose scorrette. Lo sai e ti regoli di conseguenza». Con quale possibilità di successo?  «Talvolta ha funzionato. Mi è capitato con qualche giornalista più attrezzato che, sentendosi scoperto nelle sue tecniche manipolatorie, ha provato a ragionare: alla fine s’era come ripristinato un principio di verità».

La cura delle parole è un pilastro dell’etica democratica. Da Goethe a Gramsci, da don Milani a Bob Dylan, da Wittgenstein a De Mauro, sono innumerevoli i poeti, i filosofi, gli intellettuali militanti che hanno cercato di restituire senso alle parole. Negli anni Ottanta del secolo scorso, fu Italo Calvino a denunziare una nuova pestilenza della lingua, un’epidemia di grigiore e opacità che nel decennio successivo si sarebbe degradata in una patologia ancora più allarmante, quella che Carofiglio in un’opera precedente definisce «la conversione del linguaggio all’ideologia dominante». Non a caso La manomissione delle parole – questo il titolo del suo saggio del 2010  – usciva sul finire dell’evo berlusconiano, segnato dall’impossessamento e dalla contraffazione di alcuni vocaboli del lessico politico come “democrazia”, “libertà”, “popolo”, “giustizia”. Le parole apparivano come scippate del loro significato, perché «consumate, estenuate, svuotate da un uso eccessivo e irresponsabile».

«Nella storia d’Italia» dice oggi Carofiglio «Berlusconi ha rappresentato l’evento atipico e catastrofico in accezione classica, che ha accelerato il processo regressivo del lessico politico». Un’involuzione che non ha trovato un argine culturale a sinistra, nella gauche politica, spesso all’inseguimento retorico dell’avversario. «Abbiamo assistito alla resa totale rispetto all’uso di certe parole. Prendiamo la locuzione: “mettere le mani nelle tasche degli italiani”, slogan della destra populista. Quante volte oggi la sentiamo ripetere nell’area progressista?». Sul terreno dei luoghi comuni, si sa, vincono i semplificatori. «Ho tentato di dirlo a qualche cattivo retore del mio stesso schieramento, ma è stato inutile».

Sullo sfondo di questo ormai trentennale impoverimento linguistico resta l’enorme problema dell’analfabetismo di ritorno degli italiani, una ferita democratica denunciata da pochi studiosi come De Mauro rimasti inascoltati: meno del trenta per cento della popolazione è capace di capire oltre al senso compiuto della proposizione principale anche quello delle sue subordinate. «Questa è una parte del problema. Ed è il motivo per il quale scrivo manuali di autodifesa: l’idea è proprio quella di dare strumenti critici a una platea sempre più vasta». Carofiglio è polemico nei confronti di un ceto pensante che reagisce al decadimento dell’evo contemporaneo sollevando il ponte levatoio. «Noi in Italia abbiamo una classe intellettuale incline a parlarsi addosso, con una lingua che capiscono in pochi. Ma questo è un modo per sottrarsi a una funzione civile essenziale, che è la trasmissione dei saperi alla comunità». Come realizzare questa trasmissione è la grande scommessa di oggi: la tv non sempre accoglie ragionamenti complessi. E quella digitale è una strada ancora da costruire. «L’errore è di pensare di parlare alla platea televisiva come da una cattedra universitaria» dice lo scrittore. «L’oscurità non è un destino ineludibile».

Colpisce che nel suo breviario Carofiglio recuperi la qualità della “gentilezza”, categoria altamente politica che non è resa all’avversario ma al contrario disponibilità al conflitto con l’intento di neutralizzare la forza distruttiva dell’altro. E non importa che questa forma di garbo civile, mutuata dalle arti marziali orientali, sia distinta  dalla mitezza “impolitica” di Norberto Bobbio, a cui invece dieci anni fa Marco Revelli diede un significato profondamente attivo e militante. Al di là delle sfumature semantiche, “gentilezza” e “mitezza” sono entrambe un potente antidoto all’arroganza e alla sopraffazione del potere. Non è singolare che un Paese da decenni invochi la mitezza senza trovarla? «Non è una specificità italiana» risponde Carofiglio, «ma certo segnala la persistenza di una ferita nel discorso pubblico. E va messa in relazione con la crescita delle diseguaglianze e quindi dell’infelicità delle persone. Il populismo cavalca il rancore e la rabbia alzando i toni. E a noi non resta che scommettere sulla gentilezza, che implica anche una buona dose di humour». Se non vuoi essere deriso, diceva Benjamin Franklin, sii il primo a ridere di te stesso. Vale per i talk show ma anche per la vita quotidiana. È l’ultima regola dell’inventario. Ora siamo pronti per salire sul ring.