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 2020  agosto 29 Sabato calendario

Orsi & tori

Che differenza c’è fra una banca solida, una delle più solide d’Europa, e uno Stato iperindebitato? La banca solida è guidata da professionisti che sanno cos’è il debito irredimibile, mentre lo Stato superindebitato non sa cosa sia il debito perpetuo e non lo usa nonostante i consigli ricevuti da persone esperte come il presidente della Consob, Paolo Savona. La dimostrazione più palese l’ha data martedì 25 Carlo Messina, ceo di Intesa Sanpaolo, collocando la prima tranche di un bond perpetuo (appunto irredimibile) per un importo di 750 milioni, ricevendo una richiesta di questi titoli per ben 6,5 miliardi di euro, cioè quattro volte il valore delle due tranche. Perché la prima banca italiana e la seconda in Europa per patrimonio e redditività ha scelto la via dei bond perpetui? «Abbiamo deciso di sfruttare la possibilità offerta dalla Bce di utilizzare questo strumento per soddisfare parte dei requisiti dei parametri fissati dalla Banca centrale europea», ha risposto a MF-Milano Finanza di mercoledì 26 Alessandro Lolli, responsabile della tesoreria di gruppo della banca milanese. «Una scelta che avevamo ipotizzato già dallo scorso giugno e che abbiamo ponderato con estrema attenzione nelle ultime settimane. Da un lato abbiamo deciso di giocare d’anticipo rispetto ai fattori di incertezza che potrebbero presentarsi nei prossimi mesi e rispetto a eventuali altre operazioni da parte di altri emittenti. Dall’altro lato ci è sembrato opportuno approfittare della disponibilità di investitori internazionali che in questa fase mostrano appetito verso strumenti di questo genere».Capito, signori ministri e signori dirigenti del debito pubblico italiano?
Se aveste messo in cantiere quando vi è stato suggerito, oggi l’Italia potrebbe avere in cassa alcune decine di miliardi che non andrebbero ad aumentare il debito pubblico perché appunto titoli che non devono essere obbligatoriamente rimborsati, la per i quali si paga solo l’interesse. In una realtà come quella italiana per la quale le agenzie di rating ritengono di dovere prima o poi, per l’enormità del debito rispetto al pil, degradare a junk bond, cioè spazzatura, i titoli di Stato italiani era un’occasione straordinaria. Anche per le caratteristiche accessorie che i Bond perpetui offrano e che Banca Intesa Sanpaolo ha colto in pieno. Cioè la possibilità a scadenze prestabilite di poter ritirare i titoli.
Intesa Sanpaolo, che paga un interesse del 5,5%, oggi apparentemente enorme ma corrispondente più o meno al valore del dividendo pagato, potrà ritirare (il termine tecnico, orrendo, è callable) dal 1° marzo 2028 la prima tranche e dal 1° settembre 2031 la seconda tranche.
Per il mercato i bond perpetui hanno molta analogia con le azioni e, per esempio, volendoli ritirare la banca potrà ricomprarli magari in cambio di azioni.
I soloni potrebbero dire: ma uno Stato non è una società per azioni, ma il debito è debito per tutti e il problema dell’Italia è di avere da quinquenni il debito più grande d’Europa. Per questo, quando Mario Draghi ha scritto in mezzo al Covid che il Paese doveva indebitarsi ancora per poter mettere la liquidità nuova al servizio del rilancio dell’economia pensava anche, se non solo, a prestiti irredimibili che non dovendo essere restituiti come tali non aggravano il debito, se non per la parte del pagamento degli interessi.
Dispiace se all’epoca delle proposte di cercare di raccogliere da 50 a 100 miliardi con titoli perenni, a non raccogliere il suggerimento non sia stato solo il governo, ma un giudizio negativo lo abbia espresso Maria Cannata, colei che è stata bravissima nella gestione delle emissioni dei titoli di Stato e da un po’ di tempo, per limiti di età, addirittura presidente dell’Mts, il mercato dei titoli di Stato che ora si spera venga riacquistato da CdP-Banche Euronext, essendo stato messo in vendita da London stock exchange. Cannata bocciò clamorosamente l’idea di prestiti perenni. Per il rispetto che le si deve, forse dopo l’operazione Intesa Sanpaolo dovrebbe ripensarci.
Questo tipo di titoli è ideale per periodi di emergenza, non a caso sono stati emessi anche dall’Italia in tempi di guerra. Quando la tempesta è passata, potranno essere riacquistati. E se Intesa Sanpaolo potrebbe scambiarli con azioni, visto l’alto dividendo che la banca abitualmente paga, lo stato potrebbe scambiare i titoli perenni con quote di fondi immobiliari quando, fra 5-10-15 anni si spera che la buona gestione abbia fatto cadere il debito grazie a una forte ripresa dell’economia nazionale stagnante ormai da quasi 20 anni.
I Paesi del centro-nord dell’Europa rimproverano all’Italia di avere un debito enorme, mentre la cittadinanza nel suo complesso ha una ricchezza più alta anche dei tedeschi. Ma senza un’operazione straordinaria su beni che sono scarsamente utili al sistema pubblico, quali sono gli immobili che lo Stato ha trasferito per un valore di 400 miliardi agli enti locali nell’ambito dello sciagurato federalismo, sarà difficile tagliare in maniera decisiva il debito. Proprio Carlo Messina ha ripetutamente proposto al governo di organizzare fondi immobiliari locali, a cui conferire immobili che per gli enti locali sono solo un costo e che invece potrebbero diventare produttivi. Proprio in questa prospettiva, prestiti perenni possono ancora avere un senso perché potrebbero essere scambiati con quote dei fondi. E Banca Intesa Sanpaolo è pronta a collaborare.
Anche sostituire parte del debito in scadenza con titoli perenni è un’operazione più che opportuna e sana. Infatti l’Italia non dovrà e non potrà trovarsi una volta fuori dal Covid con un rapporto debito/pil tale da far ridire a economisti tedeschi, olandesi o finlandesi che il debito è da ristrutturare perché anche le agenzie di rating lo hanno classificato come spazzatura. Per il Paese inizierebbe una crisi irreversibile. Il governo, qualsiasi governo, ha il dovere, mentre si cerca la ripresa, di pensare a quanto la Faz (Frankfurter Allgemeine Zeitung), il più autorevole giornale tedesco, ha recentemente affermato attraverso un sondaggio fra autorevoli economisti, e cioè che entro un anno e mezzo l’Italia dovrà ristrutturare il debito. Sostituendo titoli di Stato ordinari con prestiti perenni il debito inesorabilmente cala.
Suvvia, Signor Ministro Roberto Gualtieri, Lei che conosce bene l’Europa, si faccia una bella conversazione operativa con Carlo Messina. La seconda banca europea può essere un grande appoggio per lo Stato.

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Se la notizia finanziaria del giorno è l’autorizzazione della Bce, di mercoledì 26 a Leonardo del Vecchio e alla sua Delfin a poter salire significativamente in Mediobanca, l’operazione più importante è un’altra: il varo della rete in fibra da parte di Telecom, l’ex operatore pubblico italiano delle telecomunicazioni.
Il bravo e determinato ad di Telecom, Luigi Gubitosi, ha avuto ragione quando ha detto che a decidere come fare, o meglio completare e rafforzare la rete in fibra da parte dell’ex monopolista, sia una questione in primo luogo del consiglio d’amministrazione della società.
Oggi Telecom, a differenza di Deutsche Telekom, che da sempre è rimasta sotto la tutela dello Stato tedesco, sconta drammaticamente, e con essa tutta l’Italia, la folle privatizzazione che fu compiuta per seguire la liberalizzazione dei servizi telefonici e prepararsi a far entrare il Paese nell’euro. Quella privatizzazione non fu la sola, ma certo fu la peggiore perché, non ci voleva tanto a capirlo, si riferiva alla società più strategica del Paese, che andava assolutamente tutelata essendo fino ad allora ai vertici mondiali delle telecomunicazioni. Fare una privatizzazione (1997) disperdendo il capitale per fare un nocciolo duro ridicolo (6,6% del capitale), nel quale il maggior azionista era il gruppo Agnelli con assai meno dell’1%, è stata una follia ideologica. L’unico del gruppo Agnelli che si dedicò con impegno a un tentativo di gestione fu Gabriele Galateri, che era amministratore delegato di Ifil.
Il governo Prodi, con Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro e Mario Draghi direttore generale dello stesso, voleva appunto seguire il processo di liberalizzazione e prepararsi a entrare nell’euro a ogni costo e così si dimenticò che non sempre la mano pubblica (Prodi era stato presidente dell’Iri) produce disastri. Il Dna di Telecom Italia era molto buono e la gestione di Vito Gamberale oltre a una espansione europea aveva introdotto innovazioni che hanno determinato lo sviluppo della digitalizzazione del Paese: per esempio, Tim fu il primo operatore mondiale a lanciare un piano di tariffe basato su carte prepagate per la rete Gsm, che generò una rapidissima crescita della telefonia mobile. Era anche stato avviato, nel 1996 lo sviluppo della rete in fibra ottica con il progetto Socrate.
La privatizzazione nella quale lo Stato non conservò di fatto nessuna partecipazione, una follia, aprì la strada all’opa con cui «i capitani coraggiosi», così definiti da Massimo D’Alema, conquistarono la maggioranza, dando avvio all’involuzione di Telecom, oltre che a un forte arricchimento da parte di chi era «capitano coraggioso» e di molte banche d’affari e singoli investitori. Neppure la coraggiosa acquisizione della maggioranza di comando da parte di Marco Tronchetti Provera con Pirelli riuscì a frenare il degrado, in un contesto in cui l’idea di Tronchetti di mettere insieme la rete e i contenuti di Rupert Murdoch fu bocciata per i giochi politici.
L’idea di Gubitosi di non permettere che Telecom Italia sia espropriata del residuale valore della rete in fibra e in rame per consentire allo Stato di tornare controllore assoluto della rete è stata più che legittima e nel necessario rispetto delle regole del mercato borsistico, e resistendo al populismo di 5Stelle (non si dimentichino le comparsate in assemblea di Sip-Telecom, del fondatore Beppe Grillo, che in questo modo conquistò la sua prima notorietà politica).
Il buon senso del ministro Gualtieri, lui sì che avrebbe potuto essere statalista con il suo passato comunista, ha fatto sì che finalmente è stato trovato un accordo equilibrato: Telecom conserverà la maggioranza del capitale della nuova società che nascerà dalla fusione della fibra Telecom e di Open fiber controllata da Enel, con anche Fastweb; Telecom nominerà l’amministratore delegato che deve essere gradito da Cdp, ma in consiglio Telecom non avrà la maggioranza, mentre Cdp avrà il presidente, gradito anche a Telecom, con compiti anche esecutivi. Insomma, un accordo basato sul rispetto della proprietà con la maggioranza del capitale che rimane a Telecom e la governance che viene gestita con il rispetto della neutralità della rete. Agli altri operatori telefonici e di fibra del Paese (Vodafone, 3Wind, Sky) sarà offerta la possibilità di essere presenti nel consiglio della nuova società, ma le prime reazioni sembrano favorire la soluzione trovata da Gualtieri e Gubitosi alla quale si è alla fine unito anche il ministro 5Stelle Stefano Patuanelli, che aveva tuonato contro la maggioranza a Telecom per reggere le pressioni del partito. Ma non è una novità che Patuanelli sia il più ragionevole e razionale dei ministri 5Stelle.
Ora è necessario che non ci siano, nell’esecuzione, colpi di mano, che Gualtieri riesca a tenere la barra dritta e che la soluzione trovata sia la base per un piano che faccia recuperare al Paese il terreno perduto, ricordandosi che proprio Telecom è stata, con l’ingegner Mauro Sentinelli, non solo l’inventore della carta prepagata che ha digitalizzato anche i più poveri ma anche uno dei fondatori di Gsm e poi di 3G. In un Paese nel quale non c’è nessuna fabbrica importante di computer, nessuna fabbrica di cellulari, nessuna società italiana di telefonia che non sia Telecom Italia, quel Dna va recuperato. E Gubitosi, dopo tante avventure gestionali attraverso le quali è passata Telecom, l’ha capito e ha saputo rappresentarlo a un ministro con la testa sulle spalle come Gualtieri.