Sono stato tra quelli che hanno girato la testa dall’altra parte. Lo avevo conosciuto, frequentato, stimato. E oggi penso che bisogna avere grande tenuta mentale, per superare quello che ha dovuto affrontare in una storia che la giustizia italiana inscriverebbe nei suoi tempi "normali". Una vicenda di peculato – di uso di denaro pubblico (cene, viaggi soprattutto) - da cui Aldo Schiavone è uscito totalmente assolto (la sentenza della Cassazione ha confermato quella in appello). Schiavone è uno dei grandi storici del mondo antico (vi consiglio di leggere la nuova edizione de La storia spezzata, uscito da Einaudi, dove ricostruisce il destino della Roma imperiale e il suo declino e, distanza, dal mondo moderno). Oggi guarda con serenità all’accaduto. Non c’è risentimento, rancore, propositi di vendetta. Non sono di fronte a una rumorosa resurrezione.
Noto solo una malinconica ironia che rende tutto più leggero. Come se essere uno storico, implichi anche un certo distacco dalla vita, da quello che accade.
Come ti senti?
«Sollevato. E in fondo non hai torto: il mestiere di storico mi ha in qualche modo aiutato a guardare le cose da una prospettiva meno tragica».
Forse le vere tragedie sono altre.
«Per carità, chi sono io per decidere quale peso dare a quella vicenda. La storia abitua a osservare gli eventi sotto una luce meno drastica».
Come sei finito a occuparti di storia antica?
«Avrei studiato volentieri filosofia. Ma un padre avvocato chiedeva che prendessi una laurea in giurisprudenza.
Occuparmi di diritto nel mondo antico, mi parve un buon compromesso. Studiai a Napoli e feci una tesi in diritto romano con Antonio Guarino».
Sei di Napoli?
«Sono nato a Pomigliano d’Arco dove i miei sfollarono durante la guerra. Ho passato l’infanzia e l’adolescenza a Salerno. A Napoli ho abitato alla casa dello studente per quattro anni. Ho ricordi bellissimi. Come in genere lo sono quelli a cavallo tra l’adolescenza e la maturità».
Però qualcosa nel passaggio tende a spezzarsi.
«Un individuo al pari di una società contempla rotture e ricomposizioni. La parola "spezzare" effettivamente rende bene l’idea».
Si spezza il pane, si spezza una vita, e la storia stessa, come scrivi, si spezza.
«Ho scritto La storia spezzata – una ricerca sui perché della fine dell’Impero romano – in un momento intenso della mia vita. Era una sera d’estate del 1993. Uscivo dalla biblioteca dell’Università di Providence, dopo una giornata di letture. Attraversai il campus in uno stato di strana euforia. Avevo sfogliato un libretto che parlava del declino dell’Impero romano in Occidente.
Apparentemente uno dei tanti libri scritti sull’argomento».
E invece?
«Mi colpì la domanda che l’autore, uno storico americano, poneva: perché la storia dai tempi di Adriano al XX secolo non si era svolta secondo i canoni del progresso lineare?
Una questione apparentemente ingenua che in realtà nascondeva una certa profondità di veduta. Un po’ come chiedersi: perché solo l’Occidente conosce il senso drammatico della frattura, la storia che si spezza appunto. Mentre niente di simile avviene nelle società asiatiche?»
Intendi dire che l’Occidente si è mosso sotto il segno della discontinuità?
«La grande periodizzazione - mondo antico, medievale e moderno - sta a indicare proprio il senso della discontinuità. È una questione che pone problemi di teoria della storia. Oltretutto, scrissi La storia spezzata in polemica con chi allora sosteneva che la storia dovesse occuparsi solo di dettagli».
Dilagavano le microstorie.
«Intendiamoci, c’erano lavori più che egregi. Penso alla ricerca di Carlo Ginzburg, per il quale ho una grande ammirazione e che accendeva le luci su chi dalla storia era stato escluso. Ma a fronte di questo c’erano opere che raramente superavano l’ambito locale. I grandi temi erano per lo più invisi»
Un grande tema al quale ti sei dedicato con un nuovo libro è l’indagine sull’eguaglianza.
«Ho voluto sottrarla alla concezione catastrofica del socialismo. Ossia all’utopia fallimentare che esista un’economia dell’eguaglianza e dell’abbondanza. Lungo tutto il Novecento abbiamo identificato l’eguaglianza con il modello della lotta di classe».
E ora che le classi sono più deboli o più liquide?
«Occorre mutare il paradigma. Il Novecento è stato il secolo spezzato. Una serie di fratture, l’ultima delle quali non ancora ricomposta».
A quale pensi in particolare?
«Alla scissione tra la storia politico-sociale, in una parola umana, e il crescere a dismisura della tecnica come qualcosa di autonomo, separato che ricade sulla storia degradandola. Questo è il trauma che il Novecento ci sta lasciando in eredità. Perciò il compito del XXI secolo sarà tentare di ricongiungere quello che il XX ha disgiunto.
Ripensare l’eguaglianza e tra i compiti oggi più urgenti».
Ripensarla in quale direzione?
«C’è un punto credo da cui è possibile ripartire: ridefinire una forma dell’umano diversa da quella che abbiamo conosciuta e che non si basi solamente sull’individuo».
Nonostante le ricorrenti crisi del modello liberal-borghese, l’eguaglianza molecolare, quella che investe i diritti dell’individuo, è la sola che ha avuto storicamente successo.
«È vero, ma sia il dispositivo cristiano-borghese che disciplina la persona-individuo, sia quello marxista non sono più in grado di affrontare lo tsunami tecno-antropologico che ci sta investendo».
Pensi a Internet?
«È solo una delle facce del problema. La rivoluzioni tecnologiche in atto stanno ridisegnando la nostra concezione dell’umano. È solo una questione di tempo e ci troveremo di fronte a problemi che non potranno essere risolti nel vecchio schema che esaltava la centralità del soggetto».
Indica un problema.
«La soggettività moderna si è costruita quasi interamente sull’idea di una forma lavoro che la rivoluzione tecnologica sta spazzando via. Le forme classiche – la fabbrica, gli uffici, i centri di produzione – si stanno progressivamente ridimensionando. L’eguaglianza, soprattutto tra l’Otto e il Novecento, ha cercato di migliorare le condizioni lavorative. Maggiore eguaglianza ha significato minori sperequazioni economiche e consolidamento dei diritti nei luoghi di lavoro».
Questo tu dici è il passato.
«È anche il presente che si va però rapidamente trasformando».
Eguaglianza implica problemi connessi alla democrazia.
«Quest’ultima non sta molto meglio. La crisi che l’ha investita riguarda il rapporto cruciale, oggi logoro, fra rappresentanza e sovranità».
Che cosa è venuto meno in questo rapporto?
«La dissoluzione dei partiti, che ne avevano sostenuto l’impalcatura, e l’ingresso di una classe politica sostanzialmente impreparata, hanno seminato sfiducia e alimentato forme di populismo. Ma questo è l’effetto di un fenomeno che ha dovuto fare i conti, senza avere gli strumenti per risolverlo, con l’aumento delle diseguaglianze inaspettatamente apertesi in seguito alla fine dell’età industriale con annesse le trasformazioni del lavoro e la connessa globalizzazione produttiva e finanziaria».
L’Occidente sta molto peggio che alla fine del secondo millennio. Che modello di eguaglianza immagini?
«Per prima cosa occorre sfruttare ciò che la tecnologia ci ha messo a disposizione. Immagino un umanesimo senza soggetto. Qualcosa che ha a che vedere con la nozione di "impersonale"».
L’impersonale è l’opposto dell’individuale.
«Misurarsi con la nuova prospettiva non vuol dire cancellare l’individualità dal nostro futuro. Sarebbe insensato. Certo, non possiamo buttare a mare quei valori che hanno concorso a costruire l’individuo moderno. Ma un tale individuo oggi deve fare i conti con questa nuova spinta antropologica che chiamo "impersonale"».
La burocrazia, le leggi, la scienza tendono alla spersonalizzazione. Dov’è la novità?
«L’impersonale ha una sua storia filosofica e perfino letteraria. Nel Novecento è stata Simone Weil a rivalutare, contro il concetto di persona, l’impersonale, affermando che la perfezione è impersonale. Anche se Weil attraverso l’impersonale esalta il rapporto mistico con Dio. Di recente Roberto Esposito è tornato sul tema scardinando il rapporto Io-Noi, dietro cui si cela l’individualismo vincente del capitalismo americano e il collettivismo socialista, naufragato dopo il crollo sovietico».
E tu come declineresti l’impersonale?
«Come la base comune da cui ripartire. Si tratta di un fondo condiviso di attitudini, comportamenti, risorse che interpellano prima dell’individuo, la specie. La salvaguardia del pianeta non può essere lasciata solo alle semplici iniziative individuali. Senza un nuovo modo di nominare le cose, senza una nuova forma di eguaglianza, senza una nuova universalità dell’umano, ci spezzeremo ancora una volta».
Vorrei ora chiederti qualcosa di molto personale. Si tratta della vicenda da cui sei uscito pienamente assolto. L’inchiesta partì nel 2008 e si è conclusa l’anno scorso.
Quando il processo iniziò eri un professore autorevole invitato in tutto il mondo che, oltretutto, aveva creato il Sum, una specie di super università che in Italia non esisteva. Che anni sono stati?
«Certo non facili. L’accusa era di peculato per non aver rendicontato scontrini e cene».
Scusami se ti interrompo. Prima di questa inchiesta giudiziaria ce ne è stata un’altra del 2007 per abuso di ufficio, provocata dal fatto che come Rettore del Sum hai chiamato direttamente alcuni professori.
«Anche da quella accusa fui pienamente assolto nel 2012.
Mi chiedevi che anni sono stati: certamente pesanti, in alcuni momenti orribili. Però quello che ho tentato di fare, credo riuscendoci, è stato di conservare uno spazio mio, sia fisico che mentale. E devo dire che qualcuno mi ha offerto una sponda».
Chi?
«L’editore Einaudi e poi la facoltà di Giurisprudenza. Mi hanno dato la sensazione che potessi ancora essere legittimato nel mio lavoro. Accanto, c’è stato il frantumarsi di molte relazioni; il dissolversi di amicizie che ritenevo indistruttibili. Gente che ha semplicemente voltato le spalle. Lo capisco e non mi ci danno più di tanto. E poi la dilatazione mediatica».
Che cosa vuoi dire?
«L’effetto muta che insegue la preda. Hai presente Elias Canetti? Ecco. Credo faccia parte dei gesti primordiali che sopravvivono e si perpetuano. E gli effetti restano a lungo. Non è come quando sei colpito dalla cacca di un piccione. Porti la tua giacca di lino color panna in tintoria. E la rindossi candida. No, qualcosa resta e ci vuole tempo perché la macchia sparisca. A parte questa considerazione, mi dispiace per il Sum. Doveva e poteva sopravvivere alle mie vicissitudini. Il suo compito non era sostituirsi all’università, ma offrire una prospettiva più ampia e profonda di ricerca nel campo delle scienze umanistiche. Umberto Eco, Ernesto Galli della Loggia, Nadia Fusini, Roberto Esposito, per fare dei nomi, furono tra coloro che ci credettero e ne fecero parte».
Il Sum ha chiuso che cosa ti resta di quell’esperienza?
«Una grande amarezza. Anche se in realtà non ha chiuso, è stato incorporato dalla Normale di Pisa. Sono stato molto vicino a due grandi antichisti: Santo Mazzarino e Arnaldo Momigliano. Il primo era un grande formulatore di ipotesi complesse; l’altro un erudito come pochi.
Entrambi hanno segnato in modo indelebile la ricerca sul mondo antico. Al loro magistero si legava idealmente la nascita del Sum. Perché un maestro ha la forza e la seduzione di andare oltre i normali studi universitari. Ho sofferto per la sua chiusura. Ma oggi mi sento pacificato.
So che la vita in tutte le sue forme va avanti».
Quali errori ti riconosci?
«L’errore, ma direi più un limite del mio carattere, è aver spesso fatto le cose troppo in fretta. Non rispettare i tempi degli altri. Si rischia di non essere capiti. Mostri l’ambizione intellettuale e non il grande lavoro che c’è dietro. Ma di quanto ci accade, anche di male, siamo responsabili».
Su che cosa sta lavorando?
«Su Cleopatra, con cui chiudo la trilogia: Spartaco, Ponzio Pilato e la Regina d’Egitto, appunto».
Una figura cresciuta nel mito.
«La storico ha il compito di guardare oltre il mito.
Cleopatra rappresentò, insieme ad Antonio, il tentativo di orientalizzare l’impero romano. Ma Augusto scelse l’Occidente. È buffo come oggi ci si trovi ancora una volta davanti al grande bivio».