Robinson, 29 agosto 2020
Elena Ferrante risponde a librai e traduttori
Marcello Lino traduttore per Intrinseca, Brasile
Il dialetto napoletano ha un ruolo importante nei suoi romanzi. Per molti personaggi, il mezzo espressivo naturale probabilmente sarebbe il dialetto che, tuttavia, di rado si manifesta in modo esplicito ed è piuttosto raccontato o espresso tramite un italiano dalle cadenze dialettali. Si potrebbe dire, quindi, che anche lei in certi momenti faccia un lavoro di traduzione, sentendo le voci di questi personaggi in dialetto e volgendole all’italiano?
«Certo, ma è una traduzione infastidita, direi scontenta. Per spiegarmi devo accennare alla natura dei personaggi di narratrici che fino ad ora ho costruito. Nei miei libri, a raccontare è la "voce" di una donna che ha origini napoletane, che conosce bene il dialetto, che è colta, che vive da tempo lontano da Napoli e che ha seri motivi per sentire il napoletano come la lingua della violenza e dell’oscenità. Qui ho messo tra virgolette "voce" perché non si tratta affatto di voce, ma di scrittura. Delia, Olga, Leda, Elena, esplicitamente o implicitamente, raccontano per iscritto e nel farlo ricorrono a un italiano che è una sorta di barriera linguistica contro la città da cui provengono. Esse, in vario grado, si sono costruite — diciamo — una lingua della fuga, dell’emancipazione, della crescita, e lo hanno fatto contro l’ambiente dialettofono che le ha formate e tormentate durante l’infanzia e l’adolescenza. Ma questo loro italiano è fragile. Il dialetto invece è emotivamente robusto e nei momenti di crisi si impone, trasloca nella lingua standard, arriva a saltar fuori in tutta la sua durezza. Insomma, quando nei miei libri l’italiano cede e assume cadenze dialettali, è il segno che, anche nella lingua, passato e presente si stanno ansiosamente confondendo. Non mimo, in genere, il dialetto: lascio che sia avvertito come la possibile eruzione di un geyser».
Kiraly Kinga Julia traduttrice per Parks Publishing, Ungheria
Nei suoi romanzi precedenti il processo di legittimazione degli interessi di una donna e la sua emancipazione esigevano almeno decenni, se non un’intera vita. In questo romanzo, invece, Giovanna riesce a superare i condizionamenti e la routine in un intervallo di tempo magnificamente breve. Si tratta di un caso particolare o di un cambio generazionale, ovvero: le fruttuose aspirazioni e gli sforzi realizzati delle nostre mamme hanno contribuito al nostro empowerment?
«Giovanna è molto lontana da Lila e Lenù. Ha ricevuto una buona educazione laica, iperdemocratica. I genitori, entrambi insegnanti, si aspettano che la figlia diventi una coltissima, prestigiosa donna libera e autonoma. Ma un piccolo evento inceppa il congegno predisposto per lei e la ragazza comincia a percepirsi come il frutto guasto di un ambiente bugiardo. Così comincia a tagliar via disperatamente da sé la sua educazione come se volesse ridursi alla pura e semplice verità del proprio corpo vivo. Anche Lenù e Lila provano a strapparsi il rione di dosso, ma mentre loro devono faticosamente fabbricarsi strumenti che le aiutino a liberarsi della miseria reale e figurata, Giovanna trova quegli strumenti già bell’e pronti in casa e li usa contro lo stesso mondo che glieli ha forniti. La sua è una rivolta già attrezzata, quindi veloce e determinata. Ma disordinare il proprio "io" ben coltivato è un’impresa pericolosa. Non si cambia forma per darsene una che sembra più vera senza rischiare di non trovarsi più».
Jiwoo Kim traduttrice per Hanglisa Publishing, Corea
Rispetto ai personaggi femminili, gli "uomini ferrantiani" sembrano essere piuttosto semplici o monotoni. Esiste qualche personaggio maschile che lei considera come una figura più positiva rispetto agli altri?
«Enzo. Mi piacciono gli uomini la cui forza si esercita aiutandoti con discrezione a vivere. Mi piacciono quelli che lo fanno senza troppe parole, senza sdolcinatezze, senza pretendere ricompense. La comprensione vera della donna mi sembra il più alto esercizio dell’intelligenza e della capacità maschile d’amore. Cosa rara. Non voglio parlare qui dei maschi rozzi, violenti, la cui ultima incarnazione sono gli aggressori volgarissimi sui social o in tv. Mi pare più utile parlare dei colti, dei compagni di lavoro e di studio. I più continuano a trattarci come graziosi animali cui si dà credito solo per giocarci un poco insieme. Una minoranza ha imparato superficialmente un formulario da "amici delle donne" e ti vogliono spiegare come devi fare a salvarti, ma appena chiarisci che hai bisogno di salvarti da sola, la patina civilizzata mette crepe e viene fuori il vecchio ometto insopportabile. No, sotto tutti gli aspetti i nostri virili educatori vanno rieducati. Per ora mi fido solo di Enzo, il compagno paziente di Lila. Certo, può accadere che anche questo tipo d’uomo a un certo punto si stanchi e se ne vada, ma almeno lascia un buon ricordo».
Esty Brezner libraia alla Adraba a Gerusalemme, Israele
Secondo lei, fino a che punto una persona puo"lasciare Napoli", ovvero reinventare se stessa lontano dalle proprie origini e dal "destino" assegnatole alla nascita?
Cominciamo col sottolineare che andar via non è tradire le proprie origini. Bisogna partire, anzi, per potersi attribuire delle origini e porle a fondamento della nostra crescita.
Vagabondando, trasformiamo i nostri corpi in depositi affollati. I materiali nuovi pesano su quelli originari, li modificano fondendosi a loro, confondendosi. Noi stessi ci sventagliamo tra svariati modi d’essere, ora arricchendo la nostra identità, ora impoverendola a forza di sottrazioni. Ma il luogo natale resiste. Esso è il fondo su cui stazionano le nostre esperienze primarie, il primo esercitare lo sguardo, il primo immaginare, il primo esprimerci. E tanto più quel fondo lo scopriamo robusto, quanto più è varia la nostra esperienza dell’altrove. Napoli non sarebbe la mia unica vera città, se non avessi scoperto presto, in altri luoghi, nell’urto con gli altri, che lì e solo lì ho cominciato timidamente a dirmi "io"».
Ana Badurina traduttrice per Profil, Croazia
In ogni suo romanzo i rapporti tra donne e uomini sono molto fragili, perlopiù infelici, mentre le esperienze davvero formative, in varie direzioni, sono quelle vissute tra donne. Le interesserebbe approfondire, sia come scrittrice sia come lettrice, una narrazione nella quale fosse possibile un rapporto relativamente "felice" tra un uomo e una donna? Oppure ritiene che una storia del genere possa risultare difficilmente convincente in ambito letterario?
«Ciò che non risulta convincente in letteratura, spesso è il risultato di una lettura edificante della realtà. Non sono tra coloro che ritengono che la felicità cominci quando il racconto finisce (penso alla formula: "e vissero felici e contenti"). Si può sicuramente raccontare una coppia felice, ne ho conosciute tante. Una volta ho persino buttato giù una storia in cui una donna infelicissima decideva di condurre un’indagine, proprio come in un poliziesco, sulla vita coniugale felice dei suoi anziani genitori. Qui non voglio tediarla con lo sviluppo di quel racconto. Dico solo che lei, Ana, ha sintetizzato bene tutta quella mia storiella usando l’espressione «rapporto relativamente "felice" tra un uomo e una donna». La felicità, dal mio punto di vista, è narrabile solo se si sviluppa quel "relativamente" e se si raccontano le ragioni delle virgolette che lei ha messo intorno alla parola "felice"».
Audrey Martel libraia alla Librairie l’Exèdre, Québec (editore Gallimard)
In che modo l’Italia l’ha condizionata in quanto scrittrice o in che modo il luogo nel quale si svolgono i suoi romanzi influenza la storia e la vita dei suoi personaggi?
«Una parte importante della mia esperienza si è compiuta qui, in Italia. In questo paese c’è ciò che mi sta a cuore, a partire dalla lingua che uso da quando ho imparato a parlare, da quando ho imparato a leggere e scrivere. Ma da ragazzina mi infastidiva la realtà d’ogni giorno. Ciò che era narrabile si trovava sempre non a casa mia, non sotto le mie finestre, non nella mia lingua o dialetto, ma in altri luoghi, in Inghilterra, in Francia, in Russia, negli Stati Uniti, in America Latina etc. Scrivevo storie esotiche per cancellare la geografia e l’onomastica d’Italia, mi sembravano insopportabili, ero sicura che avrebbero ucciso sul nascere qualsiasi racconto. La grande letteratura che mi appassionava non era italiana o, se era italiana, trovava ingegnosamente il modo di aggirare l’italianità di città, persone, dialetti. Era un atteggiamento infantile, che però è durato almeno fino ai vent’anni. Ma quando mi è sembrato di saperne abbastanza delle letterature che amavo, ho cominciato piano piano a interessarmi alla tradizione letteraria del mio paese e ho imparato a usare i libri che più mi impressionavano per darmi una sorta di slancio e scrivere di ciò che fino ad allora mi era sembrato troppo locale, troppo nazionale, troppo napoletano, troppo femminile, troppo mio per essere raccontato. Oggi penso che un racconto funziona se è narrazione di ciò che custodisci solo tu, se si colloca idealmente dentro testi che hai amato, se scrivi qui e ora, su questo sfondo che conosci bene, e con una competenza che hai appreso frugando con passione nella letteratura di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Quanto ai personaggi, è lo stesso: vengono vuoti se non gli dai un nodo che ora li stringe ora si allenta, un legame che si vorrebbe recidere e invece dura».
Dina Borge libraia alla Norli Nye, Sandvika, Norvegia
Che cosa l’ha ispirata a scrivere "La vita bugiarda degli adulti"? Pensa che gli adulti mentano abitualmente circa le proprie vite? Agli altri, ai loro figli e anche a se stessi?
«Da ragazzina ero una bugiarda e venivo spesso punita per le mie bugie. Intorno ai 14 anni, dopo molte umiliazioni, ho deciso di crescere e non mentire più. Ma ho piano piano scoperto che mentre le mie bugie infantili erano esercizi di immaginazione, gli adulti, così contrari alle menzogne, mentivano a se stessi e agli altri con naturalezza, come se la bugia fosse lo strumento fondamentale per darsi coerenza, per attribuirsi senso, per reggere il confronto col prossimo, per mostrarsi ai figli come un modello autorevole. Qualcosa di questa impressione adolescenziale ha nutrito la vicenda di Giovanna».
Demetra Dotsi traduttrice per Edizioni Patakis, Grecia
"Smarginatura" è una delle parole chiave de L’amica geniale, ossia "la sensazione" di Lila «di trasferirsi per poche frazioni di secondo in una persona o una cosa o un numero o una sillaba, violandone i contorni», per usare le sue parole. Si potrebbe dire che pure Giovanna subisce una sorta di smarginatura, magari in modo permanente, quando viene sollevato il velo inconsistente di perfezione della sua famiglia e lei stessa si trasferisce in una nuova immagine di sé?
«Sì, ora, mentre le rispondo, mi pare di sì. Ma bisogna tenere a mente che in Lila è una reazione del corpo, in un certo senso una patologia. La smarginatura è il nome con cui lei designa un terremoto il cui epicentro è una improvvisa disfunzione dei cinque sensi. Giovanna a me pare più vicina a Elena, che scrivendo si adatta la parola utilizzata da Lila e ne accentua il valore metaforico. In lei la smarginatura diventa un forzarsi, un dilagare fuori del rione, un varcare confini, un diventare altro e ancora altro, un lacerare veli con sofferenza ma anche con fierezza. Lila è fisicamente sopraffatta dai suoi sintomi, si ammala tanto sono violenti. Elena e Giovanna si smarginano nella metafora e le metafore fanno un po’ meno male».
Elsa Billund libraia alla Billunds Boghandel in Fredericia, Danimarca
Perché sta tornando a Napoli in questo suo nuovo romanzo? Che cosa, di questo particolare posto, esige di essere raccontato più e più volte? Riesce a immaginare di scrivere di qualche altro luogo, in futuro?
«Si può scrivere di qualsiasi luogo, l’essenziale è conoscerlo a fondo, altrimenti si rischia la superficialità. Sono stata in molti posti, ho buttato giù pagine e pagine di appunti. Ne ho parecchi, per esempio, su Copenaghen, e volendo potrei usarli per un racconto, come ho fatto, mettiamo, per Torino, città che amo. Ma sento che sono luoghi che non mi appartengono e se ne scrivo, ne scrivo per appropriarmene. Con Napoli è diverso. Napoli è già parte di me e io di Napoli. Su Napoli non devo cercare uno sguardo, ce l’ho dalla nascita. Ne scrivo e riscrivo per vederla e vedermi e perché, sempre più nitidamente, mi veda».
Dr Chen Ying traduttrice per Shangai99, Cina Napoli é una città irritante, nel bene e nel male, ed è sempre la protagonista dei suoi romanzi. Nella "Vita bugiarda degli adulti" questa città è stata divisa in due mondi: rione alto e rione basso. Nel suo nuovo romanzo lei ha provato a collegare questi due microcosmi?
«Sono stata sempre affascinata dall’opposizione alto-basso. Con qualche semplificazione potrei dire che salire, scendere, precipitare, risalire sono verbi intorno ai quali tendo quasi sempre a costruire le mie storie. Lei ha notato che nel mio ultimo libro il nesso alto-basso è centrale. È stata la toponomastica della città a incoraggiarmi ad andare in questa direzione. A Napoli esiste davvero un’area in collina denominata Rione Alto. Per arrivarci bisogna inerpicarsi per una via stretta che si chiama San Giacomo dei Capri. Mi è sembrato interessante che Andrea, il padre di Giovanna, abitasse con la famiglia in quel Rione e cercasse di cancellare anche con l’indirizzo di casa le sue origini "basse". È la figlia, Giovanna, che, nel corso della sua ribellione adolescenziale, scopre l’artificialità dei confini che il padre ha voluto marcare. La ragazza viola l’ordine paterno e trascina l’alto in basso e il basso in alto, facendo di se stessa il luogo della commistione brusca di elementi antitetici, lo spazio della mescolanza di bello e brutto, nuovo e vecchio, finezza e rozzezza, irridendo la smania di distinzione del padre neoacculturato».
Stefanie Hetze libraia e proprietaria della libreria Dante Connection a Berlino, Germania
Per Lila ed Elena, l’esperienza di lettura di "Piccole donne" riveste una grande importanza. Quali (altre) figure letterarie l’hanno affascinata e segnata profondamente da adolescente?
«Per rispondere dovrei fare un elenco lungo e probabilmente noioso. Diciamo che divoravo romanzi in cui i personaggi femminili avevano vite sventurate in un mondo ingiusto e feroce, commettevano adulterio e altre violazioni, vedevano fantasmi.
Tra i dodici e i sedici anni ho cercato avidamente tutti i libri che portavano nel titolo nomi di donna: Moll Flanders, Jane Eyre, Tess dei d’Uberville, Effi Briest, Madame Bovary, Anna Karenina. Ma il libro che ho letto e riletto in modo ossessivo è Cime tempestose di Emily Brontë. È ancora oggi un libro straordinario per come racconta l’amore mescolando buoni e pessimi sentimenti, senza soluzione di continuità. Catherine è un personaggio che di tanto in tanto va rivisitato. Serve, quando si scrive, a scansare il pericolo di figure femminili dolciastre».
Monica Lindkvist libraia alla Akademibokhandeln, Svezia
Si identifica con qualcuno dei personaggi principali della quadrilogia dell’"Amica geniale" o di questo nuovo romanzo?
«Le rispondo con un luogo comune: tutti i personaggi, anche quelli maschili, hanno qualcosa di mio. Procedimento del resto obbligato. Se dei corpi degli altri sappiamo abbastanza, l’unica vita interiore che un po’ conosciamo di fatto è la nostra.
Relativamente facile quindi è imparare a guardare, ad ascoltare, e cogliere così un gesto significativo, una smorfia, le caratteristiche di un’andatura, un modo di parlare, uno sguardo eloquente, sentimenti nascosti dietro parole di convenienza. Impossibile invece è diventare l’altro, abitarne la mente per riprodurla, almeno per ora, malgrado le protesi sempre più stupefacenti. Chi disegna personaggi rischia sempre semplificazioni da manuale di psicologia, ed è deprimente. Abbiamo solo la nostra testa, e cavarne fuori un po’ di verità con cui animare finzioni è un lavoro arduo. Lì dentro c’è una folla vociante che somma tutto a tutto tra urti e confusione. La vita interiore altrui, perciò, è alla fine un frutto letterario sempre insufficiente (troppa linearità, troppa coesione, troppa logica, scarsa mimesi del garbuglio intersoggettivo). Ma lei mi ha chiesto di indicarle un personaggio con cui mi identifico e poiché mi sono prefissa di dare risposte possibilmente esaurienti, le dirò che in questo momento mi piacciono certi tratti della zia Vittoria della Vita bugiarda degli adulti. Non sono io, ma sicuramente sono contenta di essere la sua autrice».
Margarida Periquito traduttrice per Relogio d’Agua, Portogallo
Gradirei sapere se la voce di Andrea nella "Vita bugiarda degli adulti", che tanto sconvolge Giovanna, è l’eco del pensiero di Emma Bovary nei confronti di sua figlia (...comme cette enfant est laide!), giudizio che, stando a quanto si legge nella "Frantumaglia", lei desiderava adoperare in una pagina sua per soppesarlo e capire se poteva essere frase femminile.
«Sì, ma non si tratta solo di filiazione letteraria. Quella frase di Emma, da ragazzina, l’ho sentita a lungo come una frase che poteva riguardarmi. Mi dicevo: non sarebbe terribile se non solo il mio aspetto fisico ma certi tratti caratteriali dispiacessero innanzitutto ai miei genitori? Giovanna almeno un po’ viene dal disagio di quella pagina unita a una mia ansia. Quanto alla plausibilità di quella esclamazione comme cette enfant est laide! in bocca a una madre foss’anche frivola come Emma, no, non ho risolto il problema. Ho attribuito la frase a un padre e tuttavia, nel racconto, la madre di Giovanna non insorge, non contraddice il marito».
Anna Jampol’skaja traduttrice per Corpus, Russia
La città di Napoli è tra i protagonisti dei suoi libri. Che cosa rappresenta per lei questa città, i suoi paesaggi, i suoi abitanti, la sua lingua? A proposito della lingua: ha mai pensato di seguire l’esempio di Andrea Camilleri, i cui romanzi sono spesso ambientati in Sicilia, e di elaborare una lingua particolare mescolando l’italiano letterario e il dialetto napoletano?
«Napoli è una città complessa, non riducibile a una qualche formula letteraria o sociologica. La sento come la mia città la città dei miei antenati. In essa c’è un lungo flusso di esperienze mie e di tantissime persone che custodisco nella memoria con le loro voci. Le voci, appunto. Napoli è impensabile senza la sua sonorità dialettale. Tutti i gradini sociali della città sono attraversati dal dialetto. Ho conosciuto persone agiate, coltissime, che padroneggiavano diverse lingue e che tuttavia utilizzavano, in ogni occasione, il napoletano nelle sue pieghe plebee come nei suoi usi di finissima fattura letteraria. Io però non ho mai avuto un buon rapporto col dialetto, sia nella sua forma più dura, sia in quella più accattivante. Le ragioni sono parecchie, qui ne dico una sola che però le contiene tutte. Ma prima devo raccontare brevemente un mio vecchio malessere.
Soprattutto da ragazzina, quando dovevo tradurre in italiano, per la scuola, brani dal latino e dal greco, oppure dovevo volgere un centinaio di versi dall’italiano cinquecentesco, mettiamo, in quello contemporaneo, e avevo fretta, i compiti erano tanti, il pomeriggio non bastava, ho avuto a volte un cedimento. Mi coprivo di sudore per l’ansia, avvertivo una sorta di teatro collocato dentro la mia testa, dove morti e vivi parlavano tutti insieme accavallandosi, con un boato che mi estenuava. Questa allucinazione è passata, ma non col napoletano. Lì dura ancora e in un modo che va ben oltre la mia vecchia suggestione dell’adolescenza. Il napoletano mi pare di una tale potenza sonora, di una tale devastante carica emozionale, che non voglio fargli il torto di chiuderlo nell’alfabeto come una tigre dentro la gabbia. Quando scrivo lo sorveglio, lo tengo a bada, me ne servo con apprensione. E lo faccio sempre escludendo la sua tonalità ironico-patetico-sentimental-bonaria. Preferisco quella aggressiva, sarcastica, una minaccia per le donne che racconto».
Ioana Zenaida Rotariu libraia alla St. O. Iosif a Brasov, Romania
Quanto pensa che ci cambino le amicizie della nostra vita?
«Un’amica non ci cambia, ma i suoi cambiamenti si accompagnano discretamente ai nostri, in un continuo reciproco sforzo di adattamento».
Muauia Al-abdulmagid, traduttrice per Dar al Adab, Libano
Nel quarto tomo dell’"Amica geniale" lei accenna all’universalità della violenza umana e sottopone al lettore degli indizi che riguardano il mondo arabo e la cultura islamica: lo sposo di Dede è di origini iraniane e suo figlio si chiama Hamid ecc. Potremmo quindi aspettarci da Elena Ferrante un romanzo che si concentri sul conflitto attuale tra Islam e Occidente, focalizzando temi politici contemporanei quali razzismo, terrorismo, immigrazione e islamofobia? Lei fa inoltre un breve accenno a una delle scene più presenti della Storia umana contemporanea: l’11 settembre 2001. Vede forse in essa un esempio concreto di "smarginatura"? Esiste forse un legame visivo tra il crollo delle due torri e il terremoto che colpi Napoli e terrorizzoLila al punto di vedere le persone "smarginarsi"? "Smarginatura" è quindi metafora di metamorfosi violenta?
«Torno volentieri sulla parola "smarginatura". Sì, essa ha a che fare con la violenza, ma nel senso che riassume gli effetti di una forza fuori controllo che spezza le linee di contorno di persone e cose. I margini artificiali dentro cui ci siamo chiusi e dentro cui chiudiamo gli altri diventano di colpo ingannevoli e scarsamente resistenti, sicché, sotto gli occhi di Lila, si verifica lo spettacolo atroce della distruzione e dell’autodistruzione. E anche quando il vocabolo, nel corso della narrazione, slitta di senso, diventa metafora della crescita, svelamento di verità etc., si accompagna tuttavia sempre a un’idea di rottura, di lacerazione, di esplosione. La nostra vita comune è piena di azioni dirompenti, non si sfugge alla violenza, anche nelle figure retoriche. Ne ho scritto abbastanza e — venendo alla sua prima domanda — le rispondo che forse no, a questo punto è improbabile che scriva di terrorismo, razzismo, islamofobia: il finale dell’Amica geniale voleva segnalare semplicemente quanto si era aperto l’orizzonte di Elena attraverso le sue figlie, i mariti, i nipoti, incastonati ormai non più nel rione ma sullo sfondo ampio e pericolosissimo del pianeta. Continuerò invece a dire in tutte le occasioni quanto detesti la violenza, innanzitutto quella contro i più deboli, ma anche quella dei deboli su altri deboli, e persino quella giustificata dalla intollerabilità di ogni forma di oppressione.
L’essere umano è un animale feroce che ha cercato di autoaddomesticarsi con le religioni, con i moniti della sua terribile storia, con la filosofia, con la scienza, con la letteratura, con il nesso azzardato tra bontà e bellezza, con una regolamentazione tutta virile del conflitto, dal duello alla guerra. Ma fino ad ora il risultato è una forma diffusa di ipocrisia: la guerra, per esempio, prevede la punizione di crimini specifici definiti crimini di guerra, come se non fosse di per sé, per sua natura, un orribile crimine; i diritti umani, che dovrebbero essere pacificamente assodati, sono un campo permanente di battaglia, risultano di continuo o violati o difesi; lo Stato detiene il monopolio della violenza, ma innanzitutto non è vero e secondo è fin troppo evidente che di quel monopolio abusa: ampie porzioni della popolazione planetaria sanno di dover temere innanzitutto le forze dell’ordine costituito, persino lì dove le tradizioni democratiche sono robuste. Estranee alla pratica della violenza non siamo nemmeno noi donne, questo va detto con forza. Però siamo così esposte da sempre a quella maschile, e siamo state così escluse dai modi secondo cui gli uomini l’hanno esercitata, che forse soltanto noi, oggi, possiamo trovare un modo non violento per bandirla per sempre. A meno che, confondendo emancipazione e cooptazione, non finiamo per consegnarci anche in questo campo alla tradizione maschile dell’aggressione, dello sterminio, della devastazione, facendo nostre al contempo le sue dotte giustificazioni e le sue regolamentazioni filistee».
In ogni suo romanzo i rapporti tra donne e uomini sono molto fragili, perlopiù infelici, mentre le esperienze davvero formative, in varie direzioni, sono quelle vissute tra donne. Le interesserebbe approfondire, sia come scrittrice sia come lettrice, una narrazione nella quale fosse possibile un rapporto relativamente "felice" tra un uomo e una donna? Oppure ritiene che una storia del genere possa risultare difficilmente convincente in ambito letterario?
«Ciò che non risulta convincente in letteratura, spesso è il risultato di una lettura edificante della realtà. Non sono tra coloro che ritengono che la felicità cominci quando il racconto finisce (penso alla formula: "e vissero felici e contenti"). Si può sicuramente raccontare una coppia felice, ne ho conosciute tante. Una volta ho persino buttato giù una storia in cui una donna infelicissima decideva di condurre un’indagine, proprio come in un poliziesco, sulla vita coniugale felice dei suoi anziani genitori. Qui non voglio tediarla con lo sviluppo di quel racconto. Dico solo che lei, Ana, ha sintetizzato bene tutta quella mia storiella usando l’espressione «rapporto relativamente "felice" tra un uomo e una donna». La felicità, dal mio punto di vista, è narrabile solo se si sviluppa quel "relativamente" e se si raccontano le ragioni delle virgolette che lei ha messo intorno alla parola "felice"».
Audrey Martel libraia alla Librairie l’Exèdre, Québec (editore Gallimard)
In che modo l’Italia l’ha condizionata in quanto scrittrice o in che modo il luogo nel quale si svolgono i suoi romanzi influenza la storia e la vita dei suoi personaggi?
«Una parte importante della mia esperienza si è compiuta qui, in Italia. In questo paese c’è ciò che mi sta a cuore, a partire dalla lingua che uso da quando ho imparato a parlare, da quando ho imparato a leggere e scrivere. Ma da ragazzina mi infastidiva la realtà d’ogni giorno. Ciò che era narrabile si trovava sempre non a casa mia, non sotto le mie finestre, non nella mia lingua o dialetto, ma in altri luoghi, in Inghilterra, in Francia, in Russia, negli Stati Uniti, in America Latina etc. Scrivevo storie esotiche per cancellare la geografia e l’onomastica d’Italia, mi sembravano insopportabili, ero sicura che avrebbero ucciso sul nascere qualsiasi racconto. La grande letteratura che mi appassionava non era italiana o, se era italiana, trovava ingegnosamente il modo di aggirare l’italianità di città, persone, dialetti. Era un atteggiamento infantile, che però è durato almeno fino ai vent’anni. Ma quando mi è sembrato di saperne abbastanza delle letterature che amavo, ho cominciato piano piano a interessarmi alla tradizione letteraria del mio paese e ho imparato a usare i libri che più mi impressionavano per darmi una sorta di slancio e scrivere di ciò che fino ad allora mi era sembrato troppo locale, troppo nazionale, troppo napoletano, troppo femminile, troppo mio per essere raccontato. Oggi penso che un racconto funziona se è narrazione di ciò che custodisci solo tu, se si colloca idealmente dentro testi che hai amato, se scrivi qui e ora, su questo sfondo che conosci bene, e con una competenza che hai appreso frugando con passione nella letteratura di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Quanto ai personaggi, è lo stesso: vengono vuoti se non gli dai un nodo che ora li stringe ora si allenta, un legame che si vorrebbe recidere e invece dura».
Dina Borge libraia alla Norli Nye, Sandvika, Norvegia
Che cosa l’ha ispirata a scrivere "La vita bugiarda degli adulti"? Pensa che gli adulti mentano abitualmente circa le proprie vite? Agli altri, ai loro figli e anche a se stessi?
«Da ragazzina ero una bugiarda e venivo spesso punita per le mie bugie. Intorno ai 14 anni, dopo molte umiliazioni, ho deciso di crescere e non mentire più. Ma ho piano piano scoperto che mentre le mie bugie infantili erano esercizi di immaginazione, gli adulti, così contrari alle menzogne, mentivano a se stessi e agli altri con naturalezza, come se la bugia fosse lo strumento fondamentale per darsi coerenza, per attribuirsi senso, per reggere il confronto col prossimo, per mostrarsi ai figli come un modello autorevole. Qualcosa di questa impressione adolescenziale ha nutrito la vicenda di Giovanna».
Demetra Dotsi traduttrice per Edizioni Patakis, Grecia
"Smarginatura" è una delle parole chiave de L’amica geniale, ossia "la sensazione" di Lila «di trasferirsi per poche frazioni di secondo in una persona o una cosa o un numero o una sillaba, violandone i contorni», per usare le sue parole. Si potrebbe dire che pure Giovanna subisce una sorta di smarginatura, magari in modo permanente, quando viene sollevato il velo inconsistente di perfezione della sua famiglia e lei stessa si trasferisce in una nuova immagine di sé?
«Sì, ora, mentre le rispondo, mi pare di sì. Ma bisogna tenere a mente che in Lila è una reazione del corpo, in un certo senso una patologia. La smarginatura è il nome con cui lei designa un terremoto il cui epicentro è una improvvisa disfunzione dei cinque sensi. Giovanna a me pare più vicina a Elena, che scrivendo si adatta la parola utilizzata da Lila e ne accentua il valore metaforico. In lei la smarginatura diventa un forzarsi, un dilagare fuori del rione, un varcare confini, un diventare altro e ancora altro, un lacerare veli con sofferenza ma anche con fierezza. Lila è fisicamente sopraffatta dai suoi sintomi, si ammala tanto sono violenti. Elena e Giovanna si smarginano nella metafora e le metafore fanno un po’ meno male».
Elsa Billund libraia alla Billunds Boghandel in Fredericia, Danimarca
Perché sta tornando a Napoli in questo suo nuovo romanzo? Che cosa, di questo particolare posto, esige di essere raccontato più e più volte? Riesce a immaginare di scrivere di qualche altro luogo, in futuro?
«Si può scrivere di qualsiasi luogo, l’essenziale è conoscerlo a fondo, altrimenti si rischia la superficialità. Sono stata in molti posti, ho buttato giù pagine e pagine di appunti. Ne ho parecchi, per esempio, su Copenaghen, e volendo potrei usarli per un racconto, come ho fatto, mettiamo, per Torino, città che amo. Ma sento che sono luoghi che non mi appartengono e se ne scrivo, ne scrivo per appropriarmene. Con Napoli è diverso. Napoli è già parte di me e io di Napoli. Su Napoli non devo cercare uno sguardo, ce l’ho dalla nascita. Ne scrivo e riscrivo per vederla e vedermi e perché, sempre più nitidamente, mi veda».
Dr Chen Ying traduttrice per Shangai99, Cina Napoli é una città irritante, nel bene e nel male, ed è sempre la protagonista dei suoi romanzi. Nella "Vita bugiarda degli adulti" questa città è stata divisa in due mondi: rione alto e rione basso. Nel suo nuovo romanzo lei ha provato a collegare questi due microcosmi?
«Sono stata sempre affascinata dall’opposizione alto-basso. Con qualche semplificazione potrei dire che salire, scendere, precipitare, risalire sono verbi intorno ai quali tendo quasi sempre a costruire le mie storie. Lei ha notato che nel mio ultimo libro il nesso alto-basso è centrale. È stata la toponomastica della città a incoraggiarmi ad andare in questa direzione. A Napoli esiste davvero un’area in collina denominata Rione Alto. Per arrivarci bisogna inerpicarsi per una via stretta che si chiama San Giacomo dei Capri. Mi è sembrato interessante che Andrea, il padre di Giovanna, abitasse con la famiglia in quel Rione e cercasse di cancellare anche con l’indirizzo di casa le sue origini "basse". È la figlia, Giovanna, che, nel corso della sua ribellione adolescenziale, scopre l’artificialità dei confini che il padre ha voluto marcare. La ragazza viola l’ordine paterno e trascina l’alto in basso e il basso in alto, facendo di se stessa il luogo della commistione brusca di elementi antitetici, lo spazio della mescolanza di bello e brutto, nuovo e vecchio, finezza e rozzezza, irridendo la smania di distinzione del padre neoacculturato».
Stefanie Hetze libraia e proprietaria della libreria Dante Connection a Berlino, Germania
Per Lila ed Elena, l’esperienza di lettura di "Piccole donne" riveste una grande importanza. Quali (altre) figure letterarie l’hanno affascinata e segnata profondamente da adolescente?
«Per rispondere dovrei fare un elenco lungo e probabilmente noioso. Diciamo che divoravo romanzi in cui i personaggi femminili avevano vite sventurate in un mondo ingiusto e feroce, commettevano adulterio e altre violazioni, vedevano fantasmi.
Tra i dodici e i sedici anni ho cercato avidamente tutti i libri che portavano nel titolo nomi di donna: Moll Flanders, Jane Eyre, Tess dei d’Uberville, Effi Briest, Madame Bovary, Anna Karenina. Ma il libro che ho letto e riletto in modo ossessivo è Cime tempestose di Emily Brontë. È ancora oggi un libro straordinario per come racconta l’amore mescolando buoni e pessimi sentimenti, senza soluzione di continuità. Catherine è un personaggio che di tanto in tanto va rivisitato. Serve, quando si scrive, a scansare il pericolo di figure femminili dolciastre».
Monica Lindkvist libraia alla Akademibokhandeln, Svezia
Si identifica con qualcuno dei personaggi principali della quadrilogia dell’"Amica geniale" o di questo nuovo romanzo?
«Le rispondo con un luogo comune: tutti i personaggi, anche quelli maschili, hanno qualcosa di mio. Procedimento del resto obbligato. Se dei corpi degli altri sappiamo abbastanza, l’unica vita interiore che un po’ conosciamo di fatto è la nostra.
Relativamente facile quindi è imparare a guardare, ad ascoltare, e cogliere così un gesto significativo, una smorfia, le caratteristiche di un’andatura, un modo di parlare, uno sguardo eloquente, sentimenti nascosti dietro parole di convenienza. Impossibile invece è diventare l’altro, abitarne la mente per riprodurla, almeno per ora, malgrado le protesi sempre più stupefacenti. Chi disegna personaggi rischia sempre semplificazioni da manuale di psicologia, ed è deprimente. Abbiamo solo la nostra testa, e cavarne fuori un po’ di verità con cui animare finzioni è un lavoro arduo. Lì dentro c’è una folla vociante che somma tutto a tutto tra urti e confusione. La vita interiore altrui, perciò, è alla fine un frutto letterario sempre insufficiente (troppa linearità, troppa coesione, troppa logica, scarsa mimesi del garbuglio intersoggettivo). Ma lei mi ha chiesto di indicarle un personaggio con cui mi identifico e poiché mi sono prefissa di dare risposte possibilmente esaurienti, le dirò che in questo momento mi piacciono certi tratti della zia Vittoria della Vita bugiarda degli adulti. Non sono io, ma sicuramente sono contenta di essere la sua autrice».
Margarida Periquito traduttrice per Relogio d’Agua, Portogallo
Gradirei sapere se la voce di Andrea nella "Vita bugiarda degli adulti", che tanto sconvolge Giovanna, è l’eco del pensiero di Emma Bovary nei confronti di sua figlia (...comme cette enfant est laide!), giudizio che, stando a quanto si legge nella "Frantumaglia", lei desiderava adoperare in una pagina sua per soppesarlo e capire se poteva essere frase femminile.
«Sì, ma non si tratta solo di filiazione letteraria. Quella frase di Emma, da ragazzina, l’ho sentita a lungo come una frase che poteva riguardarmi. Mi dicevo: non sarebbe terribile se non solo il mio aspetto fisico ma certi tratti caratteriali dispiacessero innanzitutto ai miei genitori? Giovanna almeno un po’ viene dal disagio di quella pagina unita a una mia ansia. Quanto alla plausibilità di quella esclamazione comme cette enfant est laide! in bocca a una madre foss’anche frivola come Emma, no, non ho risolto il problema. Ho attribuito la frase a un padre e tuttavia, nel racconto, la madre di Giovanna non insorge, non contraddice il marito».
Anna Jampol’skaja traduttrice per Corpus, Russia
La città di Napoli è tra i protagonisti dei suoi libri. Che cosa rappresenta per lei questa città, i suoi paesaggi, i suoi abitanti, la sua lingua? A proposito della lingua: ha mai pensato di seguire l’esempio di Andrea Camilleri, i cui romanzi sono spesso ambientati in Sicilia, e di elaborare una lingua particolare mescolando l’italiano letterario e il dialetto napoletano?
«Napoli è una città complessa, non riducibile a una qualche formula letteraria o sociologica. La sento come la mia città la città dei miei antenati. In essa c’è un lungo flusso di esperienze mie e di tantissime persone che custodisco nella memoria con le loro voci. Le voci, appunto. Napoli è impensabile senza la sua sonorità dialettale. Tutti i gradini sociali della città sono attraversati dal dialetto. Ho conosciuto persone agiate, coltissime, che padroneggiavano diverse lingue e che tuttavia utilizzavano, in ogni occasione, il napoletano nelle sue pieghe plebee come nei suoi usi di finissima fattura letteraria. Io però non ho mai avuto un buon rapporto col dialetto, sia nella sua forma più dura, sia in quella più accattivante. Le ragioni sono parecchie, qui ne dico una sola che però le contiene tutte. Ma prima devo raccontare brevemente un mio vecchio malessere.
Soprattutto da ragazzina, quando dovevo tradurre in italiano, per la scuola, brani dal latino e dal greco, oppure dovevo volgere un centinaio di versi dall’italiano cinquecentesco, mettiamo, in quello contemporaneo, e avevo fretta, i compiti erano tanti, il pomeriggio non bastava, ho avuto a volte un cedimento. Mi coprivo di sudore per l’ansia, avvertivo una sorta di teatro collocato dentro la mia testa, dove morti e vivi parlavano tutti insieme accavallandosi, con un boato che mi estenuava. Questa allucinazione è passata, ma non col napoletano. Lì dura ancora e in un modo che va ben oltre la mia vecchia suggestione dell’adolescenza. Il napoletano mi pare di una tale potenza sonora, di una tale devastante carica emozionale, che non voglio fargli il torto di chiuderlo nell’alfabeto come una tigre dentro la gabbia. Quando scrivo lo sorveglio, lo tengo a bada, me ne servo con apprensione. E lo faccio sempre escludendo la sua tonalità ironico-patetico-sentimental-bonaria. Preferisco quella aggressiva, sarcastica, una minaccia per le donne che racconto».
Ioana Zenaida Rotariu libraia alla St. O. Iosif a Brasov, Romania
Quanto pensa che ci cambino le amicizie della nostra vita?
«Un’amica non ci cambia, ma i suoi cambiamenti si accompagnano discretamente ai nostri, in un continuo reciproco sforzo di adattamento».
Muauia Al-abdulmagid, traduttrice per Dar al Adab, Libano
Nel quarto tomo dell’"Amica geniale" lei accenna all’universalità della violenza umana e sottopone al lettore degli indizi che riguardano il mondo arabo e la cultura islamica: lo sposo di Dede è di origini iraniane e suo figlio si chiama Hamid ecc. Potremmo quindi aspettarci da Elena Ferrante un romanzo che si concentri sul conflitto attuale tra Islam e Occidente, focalizzando temi politici contemporanei quali razzismo, terrorismo, immigrazione e islamofobia? Lei fa inoltre un breve accenno a una delle scene più presenti della Storia umana contemporanea: l’11 settembre 2001. Vede forse in essa un esempio concreto di "smarginatura"? Esiste forse un legame visivo tra il crollo delle due torri e il terremoto che colpi Napoli e terrorizzoLila al punto di vedere le persone "smarginarsi"? "Smarginatura" è quindi metafora di metamorfosi violenta?
«Torno volentieri sulla parola "smarginatura". Sì, essa ha a che fare con la violenza, ma nel senso che riassume gli effetti di una forza fuori controllo che spezza le linee di contorno di persone e cose. I margini artificiali dentro cui ci siamo chiusi e dentro cui chiudiamo gli altri diventano di colpo ingannevoli e scarsamente resistenti, sicché, sotto gli occhi di Lila, si verifica lo spettacolo atroce della distruzione e dell’autodistruzione. E anche quando il vocabolo, nel corso della narrazione, slitta di senso, diventa metafora della crescita, svelamento di verità etc., si accompagna tuttavia sempre a un’idea di rottura, di lacerazione, di esplosione. La nostra vita comune è piena di azioni dirompenti, non si sfugge alla violenza, anche nelle figure retoriche. Ne ho scritto abbastanza e — venendo alla sua prima domanda — le rispondo che forse no, a questo punto è improbabile che scriva di terrorismo, razzismo, islamofobia: il finale dell’Amica geniale voleva segnalare semplicemente quanto si era aperto l’orizzonte di Elena attraverso le sue figlie, i mariti, i nipoti, incastonati ormai non più nel rione ma sullo sfondo ampio e pericolosissimo del pianeta. Continuerò invece a dire in tutte le occasioni quanto detesti la violenza, innanzitutto quella contro i più deboli, ma anche quella dei deboli su altri deboli, e persino quella giustificata dalla intollerabilità di ogni forma di oppressione.
L’essere umano è un animale feroce che ha cercato di autoaddomesticarsi con le religioni, con i moniti della sua terribile storia, con la filosofia, con la scienza, con la letteratura, con il nesso azzardato tra bontà e bellezza, con una regolamentazione tutta virile del conflitto, dal duello alla guerra. Ma fino ad ora il risultato è una forma diffusa di ipocrisia: la guerra, per esempio, prevede la punizione di crimini specifici definiti crimini di guerra, come se non fosse di per sé, per sua natura, un orribile crimine; i diritti umani, che dovrebbero essere pacificamente assodati, sono un campo permanente di battaglia, risultano di continuo o violati o difesi; lo Stato detiene il monopolio della violenza, ma innanzitutto non è vero e secondo è fin troppo evidente che di quel monopolio abusa: ampie porzioni della popolazione planetaria sanno di dover temere innanzitutto le forze dell’ordine costituito, persino lì dove le tradizioni democratiche sono robuste. Estranee alla pratica della violenza non siamo nemmeno noi donne, questo va detto con forza. Però siamo così esposte da sempre a quella maschile, e siamo state così escluse dai modi secondo cui gli uomini l’hanno esercitata, che forse soltanto noi, oggi, possiamo trovare un modo non violento per bandirla per sempre. A meno che, confondendo emancipazione e cooptazione, non finiamo per consegnarci anche in questo campo alla tradizione maschile dell’aggressione, dello sterminio, della devastazione, facendo nostre al contempo le sue dotte giustificazioni e le sue regolamentazioni filistee».