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 2020  agosto 29 Sabato calendario

Intervista a Dan Brown

Dan Brown appare su Zoom puntuale, alle dieci del suo mattino americano, all’interno di un set perfettamente studiato. È al centro di una galleria illuminata da una sequenza di luci basse e rosse, come piccole torce. Ognuna sotto la traduzione di un suo romanzo. È la libreria personale, in senso stretto. Si sviluppa su vari livelli, contiene circa quattrocento volumi. Ed è destinata a crescere a breve, con l’arrivo delle copie del "libro della libertà". L’uomo dei misteri e delle cospirazioni ha scartato di lato, con un testo per bambini, La sinfonia degli animali (Rizzoli lo pubblica l’1 settembre) che, attraverso una app, diffonde musiche composte da lui. È la sua scommessa nell’anno più improbabile, in cui ha anche contratto e superato il virus che ammorba il pianeta.

E così ricomincia da capo, dai suoi primi amori di bambino: musica e animali...
«Esatto. I miei genitori mi insegnarono molto presto a leggere e ascoltare la musica. Non avevamo la televisione, per scelta. Mia madre suonava l’organo in chiesa, era molto religiosa. Già all’età di tre anni alla sera mi portavano ai concerti di musica classica».
E a cinque ha scritto il primo libro...
«L’ho dettato, per la verità. A mia madre. La calligrafia era la sua, la storia però era mia».
Titolo: La giraffa, il maiale e i pantaloni in fiamme. Di che cosa parlava?
«Di una giraffa, di un maiale e di un paio di pantaloni in fiamme. Che, per qualche strana ragione, erano amici. Non aveva alcun senso, lo ammetto, ma a mia discolpa: avevo solo cinque anni».
Anche autori di cinquant’anni ottengono lo stesso risultato...
«Vero, ma spero di non essere uno di loro».
Nel suo libro il topo e gli altri animali alzano cartelli con consigli per la vita. Uno dice: "Tutti sbagliano, all’inizio". È capitato anche a lei? In che modo?
«Certo, è inevitabile. Ho seguito la strada sbagliata di molti. Ci si prende troppo sul serio. Siamo emotivi, non ammettiamo la nostra fallibilità. I bambini sono fatti così: ogni dolore, ogni sconfitta pare la fine del mondo. Crescendo si dovrebbe capire che non è vero. Sbagliamo finché non ce ne rendiamo conto».
Che cosa l’ha riportata in carreggiata?
«L’esempio dei miei genitori. Prenda mio padre: era un matematico, insegnava all’università, ha scritto tredici libri di testo, best seller nel suo campo. Quasi tutti hanno studiato matematica sul Brown. Da lui ho imparato l’umiltà. E la gentilezza. Sono due cose fondamentali. Per giudicare gli altri ho capito che dovevo portarli al ristorante e vedere come trattavano i camerieri. Tra quelle che ho conosciuto nella mia vita prevalgono le belle persone, per fortuna».
Fortuna o capacità di scelta?
«Se sottovalutiamo il ruolo della fortuna ci prendiamo in giro. Prenda il successo del Codice Da Vinci. Fortuna, al novanta per cento. Il momento giusto, l’editore giusto, la giusta copertina. Ma anche la sfortuna aiuta. Ti fa deviare, finché trovi la tua strada. Da giovane volevo fare il musicista: due dischi, due fallimenti. E ho puntato sulla scrittura».
Cambierebbe "Il codice Da Vinci" con, chessò, Imagine o Satisfaction?
«No, no. Poi ero più un compositore alla Elton John. Ma sa chi avrei voluto davvero essere, chi era il mio modello? Lucio Dalla. Il migliore. E comunque ho capito poi una cosa, su di me. La vita da scrittore mi si addice più di quella da musicista, perché sono un solitario. Se fai musica devi avere per forza a che fare con un sacco di gente. Così suono il piano, la sera, da solo. Scrivo musica, ma per me, a parte la sinfonia degli animali. E poi con i libri mi è andata meglio, anche se i primi tre non hanno avuto successo, all’inizio».
Poi, dopo "Il codice Da Vinci", sono diventati anche quelli dei best seller. E non aveva cambiato una virgola rispetto ai tre testi snobbati. In uno, "Angeli e demoni", c’era addirittura già Robert Langdon e i più ancora pensano sia un sequel.
Questo che cosa le ha insegnato sui giudizi, sul pubblico, sul mondo?
«Quel che le ho detto prima: conta la fortuna. Vendo venti milioni di copie e ho già altri tre libri pronti per andare sul mercato».
È più difficile riprendere a scrivere dopo un fallimento o dopo un trionfo?
«Diceva Churchill che il segreto del successo è nell’abilità di passare da un fallimento all’altro senza perdere l’entusiasmo. Quando le cose ti vanno bene diventi troppo cosciente del ruolo che hai. Questo da sempre si rivela un problema per chi scrive, fa musica o sport ad alti livelli. Paralisi per analisi, si dice. Dopo Il codice Da Vinci per due mesi non riuscivo a buttare giù una riga, pensando: sarà degna di venti milioni di persone?».
Un altro dei suoi animali alza il cartello per suggerire: "Anche quando la vita sembra un gran caos è possibile trovare del bello in ogni cosa". Ci crede o le piace dirlo?
«Ci credo. Apprezzo ogni momento. Sono grato per tutto quel che ho ricevuto e cerco di restituire qualcosa in cambio: conoscenza, piacere, bellezza».
Dov’è il bello in questa pandemia?
«Nella generosità che tanti hanno dimostrato. Nella comprensione. Nella solidarietà. È facile essere buoni quando le cose vanno bene. Molti lo sono stati e lo sono in questa tragedia universale. Parlo per esperienza. Ho avuto anche io il virus».
Quando è successo?
«A febbraio. Sono stato davvero male per tre giorni. Ho impiegato due settimane a riprendermi, ma poi non ho più avuto sintomi e penso di esserne fuori».
In "Inferno" lei aveva immaginato la diffusione dolosa della pandemia da parte di un personaggio che la riteneva l’unica cura al male della sovrappopolazione. In quanti l’hanno accusata di far parte di un complotto, con Bill Gates o altri?
«Mi hanno scritto in tanti per sapere come la pensavo, se ritenevo che fosse un virus diffuso dall’uomo. Perfino due esponenti di organizzazioni governative. Ho risposto a tutti, anche a loro: no, penso di no. È la natura, succede. Era prevedibile, anzi ampiamente previsto. Per come la vedo io la natura ci sta mandando un messaggio. Come quel mio personaggio ci sta dicendo che la sovrappopolazione è intollerabile. Ma riusciremo a controllarla. Lo stesso per l’emergenza climatica. Ho assoluta fiducia nella scienza».
In tempi bui la gente preferisce rivolgersi alla religione...
«È la storia del mondo. Odiamo l’idea di non avere spiegazioni, rimedi, speranze. La sensazione di essere su un autobus senza nessuno al volante. Ci devono per forza essere un pilota, una rotta, un senso. Non lo vediamo? Allora deve per forza essere un piano di dio. Alla fine tutto risulterà chiaro. La religione è una teoria del complotto. La più completa. Spiega l’inspiegabile e ti chiede di aderire a quella versione: veniamo da millenni di fondamentalismi».
Lei si è avventurato a profetizzare la fine di dio, come lo conosciamo e viene da secoli tramandato. Un bel rischio: da "dio è morto" a "dio sta per morire"?
«L’idea di dio si evolverà, diventerà qualcosa di diverso. Perché cambia l’umanità. I giovani di oggi non hanno la stessa credulità delle generazioni che li hanno preceduti. Provi a raccontare la storia di Adamo e Eva a un bambino di sette anni e se ne renderà conto. Quello prenderà il cellulare, andrà su Google, controllerà e poi la guarderà storto perché quella versione risulterà dubitabile. O fantasiosa».
Lei ci arrivò a tredici anni...
«Per uno di tredici anni oggi il miracolo è che il nuovo Iphone scatti foto perfettamente a fuoco nel buio».
Dio sta morendo, ma anche i leader dei Paesi più importanti del pianeta non stanno tanto bene. O no?
«Assolutamente. Erano meglio quelli del passato. La maggior parte degli attuali non merita alcuna fiducia. Totalmente inaffidabile. Trump è così. L’ho detto e lo ribadisco. Ma posso farlo. È qualcosa che ha valore. Sono libero di affermare che il mio presidente dice e fa cose prive di senso. La mia fiducia la ripongo nel Paese. Il coronavirus farà suonare una sveglia. Il sistema è colpevole. Sarà cambiato».
Il sentimento che governa questo inizio millennio è la paura?
«Purtroppo sì. Ma non tornerei mai indietro. Siamo più sicuri oggi. Viviamo meglio dei nostri genitori».
Lei vive bene?
«Ora, scampato il pericolo, sì, me la spasso. Siamo io, il mio cane e tutti i personaggi che mi ronzano nella testa. Quando smetto di scrivere è come quando scendo dal tapis roulant: il movimento prosegue. Sento i loro dialoghi. Ma va bene così, mi tengono impegnato. Ogni nuovo romanzo è un universo, immagino trame, sviluppi, ambientazioni, poi per corroborarle studio: fisica, storia dell’arte. Scrivo un trattato di cento pagine e, solo dopo, comincio. Molto di quel che ho studiato resta fuori, è un lavoro enorme».
Non teme di essere prigioniero del metodo?
«Sono evaso. Ho scritto un libro per bambini».
Dopo tutti questi anni e questo lavoro, tra caccie al tesoro e codici segreti, ha decifrato l’enigma della vita? O almeno, della sua?
«Non ci sono neppure andato vicino. Ma sa come si dice: se durante l’esistenza realizzi tutti i sogni che avevi, hai messo l’asticella troppo bassa».
In che cosa crede?
«Nella legge di coscienza. Nel fatto che, a un certo punto, ci saranno risposte per tutti. Certo non credo al paradiso. E, al momento, neanche alla reincarnazione».
Al momento?
«Beh, si cambia. Dieci anni fa non credevo a cose cui credo ora».
Tipo?
«È stato troppo veloce a chiedermelo! Glielo dico un’altra volta... Capisce, il punto è: se scrivessi ora una lettera elencando le cose in cui credo, me la spedissi e l’aprissi tra dieci anni, leggendo direi "Mannò! Davvero! Come è stato possibile?"».
Che cosa si augura?
«Di vivere una lunga vita e di morire pensando di non averne avuta abbastanza».
Un’ultima domanda: secondo lei questa conversazione è stata ascoltata?
«Sì. E no. Nel senso: con la tecnologia attuale sicuramente è stata registrata e da qualche parte archiviata. Ma credo che molte conversazioni abbiano la precedenza per essere ascoltate in diretta o anche nell’immediato futuro. Dopodiché: io sono un autore di bestseller, il suo giornale è importante, abbiamo nominato Trump. Prima o poi il sistema farà una segnalazione. La privacy è morta, dobbiamo puntare sulla probabilità: quella di non essere in testa alla lista».