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 2020  agosto 29 Sabato calendario

L’economia del nuovo mondo

Prima ancora che il mondo fosse sconvolto dalla pandemia, le autorità di politica economica dei maggiori Paesi stavano già abbandonando strumenti e obiettivi dei decenni passati. A fine 2019, la Fed, la Bce e altre banche centrali avevano annunciato la revisione delle loro strategie di politica monetaria. Da parte sua, la Commissione europea aveva avviato l’aggiornamento delle regole che governano le politiche di bilancio. Con lo scoppio della crisi sanitaria, il riesame dell’intero impianto intellettuale della politica economica, che presiede agli obiettivi di stabilità, equità ed efficienza, è diventato precipitoso.
La Banca centrale americana ha annunciato di voler abbandonare come riferimento delle proprie politiche tutto ciò che gli economisti fino a poco fa chiamavano “naturale”, cioè il tasso d’interesse e il tasso di disoccupazione coerenti con un’inflazione contenuta. Quanto alle regole europee di crescita e stabilità, la Commissione ne reintrodurrà di nuove solo una volta che la media dei Paesi Ue avrà recuperato il livello del reddito del 2019. Di “naturale” nella politica economica è rimasto ben poco.
Robert Musil diceva che chi sostiene che una nuova era stia per iniziare non ha capito l’era in cui vive. In effetti, i vecchi modelli di politica economica, che cercavano di far convivere crescita e stabilità non funzionavano da tempo. Tuttavia, quelli nuovi sono ancora solo tentativi. Di essi sappiamo però una cosa: modificheranno il contratto sociale nelle democrazie occidentali.
L’inflazione non risponde quasi più agli stimoli e, se la produttività scende, un governo non può promettere lavoro per tutti. Le nuove tecnologie hanno modificato il capitalismo. La ricchezza si accentra in singole professioni, luoghi o tecnologie. Anche se è un esempio improprio, la capitalizzazione di Apple supera il reddito di tutti gli italiani. In passato, era sufficiente affidarsi ai liberi scambi per produrre convergenza tra Paesi poveri e ricchi, ora invece cresce la divergenza tra Paesi e all’interno di essi. La divergenza inoltre non è la stessa cosa della diseguaglianza, per correggerla non basta distribuire sussidi, come nel vecchio contratto sociale, ma bisogna costruire conoscenze, ridurre i consumi e aumentare gli investimenti pubblici. E forse nemmeno questo basta.
In tale colossale cambiamento, la nuova impostazione delle politiche economiche ha la pretesa di diventare pragmatica. Ma in effetti non c’è alcuna prassi. La crisi in corso non ha precedenti. Nessuno sa come sarà l’economia globale tra due anni. Sappiamo solo che i debiti, soprattutto quelli pubblici, saranno molto alti. E questo spiega il desiderio della Fed sia di un’inflazione più elevata, che eroda il valore reale di quei debiti, sia di tassi d’interesse che rimangano bassi.
Anche questo tuttavia modificherà il contratto sociale, rendendo più problematica la tenuta dei sistemi previdenziali, colonna del welfare europeo. Ugualmente, avrà un forte impatto sociale la necessità di aumentare le tasse tra qualche anno per ridurre i debiti pubblici accumulati.
Il tema del consenso e degli obiettivi comuni non è importante solo di per sé. Il caso giapponese, dove sono in atto da tempo politiche iper-espansive, dimostra che senza fiducia condivisa sulla crescita futura l’economia non riparte. Come si capisce, creare consenso sul futuro della società è un compito di dimensioni spaventose che fa capo alla politica.
Il paradosso è che il vecchio mondo delle politiche economiche che venivano disciplinate da regole precise, istituzioni neutre e teorie chiare era nato proprio dalla sfiducia nei confronti della discrezionalità (chiamiamola pure pragmatismo) della classe politica occidentale.
Di fronte al nuovo mondo – che richiede di creare convergenza con investimenti pubblici che rilancino la produttività – spicca l’importanza anche per la democrazia dell’iniziativa europea sui Fondi per la ripresa. La responsabilità di gestirli nel modo migliore va oltre l’Italia e forse va oltre l’Europa.