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 2020  agosto 29 Sabato calendario

L’Abenomics ha funzionato?

Non prevedeva nulla di nuovo, e nulla di speciale. La politica economica voluta da Shinzo Abe e applicata al Giappone dal 2013 porta però da sempre il suo nome: Abenomics. Il marketing politico è stato davvero efficace in questo caso, e non si può dire che abbia mascherato risultati poveri o deludenti. La Abenomics ha sicuramente aiutato il Paese ad affrontare le sue enormi sfide.
La strategia prevedeva tre “frecce”: più spese pubbliche, una politica monetaria più espansiva e decisa, e riforme strutturali per aumentare la crescita potenziale.
Il risultato politico certo dell’Abenomics è stato quello di dare sincronia alla politica fiscale e monetaria: La Nippon Ginko, la banca centrale, era stata un po’ riluttante, malgrado la deflazione che attanagliava il paese dagli anni 90: c’era il timore che una politica monetaria troppo espansiva avrebbe potuto creare rischi di stabilità finanziaria e non solo. Preoccupazioni non del tutto peregrine: il grande effetto collaterale della nuova politica economica è stata una relativa lentezza dei salari reali e un forte aumento di profitti e rendite, con un forte effetto redistributivo.
È un fatto però che la forte spinta alla domanda creata dalla Abenomics abbia avuto effetti chiari. Il Pil giapponese, dal ’94 fino alla grande recessione è cresciuto a un ritmo medio dello 0,1% trimestrale. Con l’Abenomics, e sino a settembre 2019, l’attività ha accelerato fino allo 0,4% medio. In questo modo il governo di Tokyo ha potuto far rallentare l’incremento del debito pubblico: passato dal 64,3% del pil del ’91 fino al 228,7% del 2012 – secondo i dati Fmi – è poi salito fino al 236% nel 2019. La crescita del pil ha infatti permesso – insieme ad alcuni aumenti delle imposte – una forte riduzione del deficit. Abe ha ereditato un disavanzo 2012 dell’8,61% del pil. Nel 2018 si era ridotto al 2,4%, il minimo dal ’93.
La deflazione, invece, non è stata del tutto sconfitta; anche se i progressi non sono mancati. Dal ’93 al 2012 i prezzi sono rimasti mediamente fermi, mentre dal 2013 al 2019 sono aumentati dello 0,8% annuo, in un periodo, peraltro, di bassa inflazione in tutto il mondo. La Nippon Ginko, con l’Abenomics, ha avviato un’ampia politica diquantitative easing “puro” (diverso quindi da quello di Fed, Bce e Bank of England, forme di credit easing) che ha portato il totale degli attivi della banca centrale da 140 trilioni di yen – il livello attorno cui aveva oscillato per circa un decennio, fino ai 585 trilioni di febbraio 2020, prima della pandemia (ora sono a 666 trilioni). I tassi sono scesi sotto zero ed è stato fissato a zero il target per i rendimenti del decennali, dando un forte aiuto al governo.
Importanti anche i risultati sul fronte del lavoro. Il Giappone era già riuscito a dare occupazione, a fine 2011, al 71% circa delle persone in età lavorativa, un record storico. Con Abe questa percentuale è salita fino a sfiorare il 78% (in Italia siamo al 59%), dando più opportunità alle donne: la Abenomics è stata anche, per usare le parole dello stesso Abe, una Womenomics. I salari reali, che a metà nel 2014 erano ai livelli del 1979, sono poi cresciute dello 0,4% trimestrale. Molto discusso è il bilancio della terza freccia. Il problema che le riforme strutturali avrebbero dovuto affrontare e risolvere è quello del rapido invecchiamento della popolazione che determina anche una riduzione dello stock di capitale: con le attuali politiche, stima un lavoro svolto per l’Fmi da Mariana Colacelli e Emilio Fernandez Corugedo a fine 2018, il pil potrebbe contrarsi di oltre il 25% in 40 anni, con un tasso medio di crescita del -0,8% annuo. La sfida è enorme. Non si può dire però, come molti fanno, che il Giappone non abbia varato riforme strutturali: piuttosto ha deciso – ha spiegato a fine 2019 Steven K. Vogel dell’Università di California Berkeley – di deregolamentare diversi settori, senza promuovere una maggiore concorrenza, quanto mai necessaria in Giappone. Anche in questo caso non si può dire che sia stato fatto poco: la produttività multifattoriale (Tfp), a differenza di quanto è accaduto con la deregulation del 1995-2005 è aumentata, +5,6% dal 2010 al 2018. Non abbastanza: il livello del 2010 era pari a quello del 1990. Solo tre economie sono riuscite però a fare meglio del Giappone nello stesso periodo: Corea (+11,3%), Danimarca (+7,9%) e Germania (+7,3%). In Italia la Tfp è cresciuta dello 0,05%.