Tuttolibri, 29 agosto 2020
Antropologia del cucito e del ricamo
A disposizione avevano solo quattro colori fondamentali - rosso, blu, verde e giallo - e quattro erano anche i punti - erba, croce e altri - impiegati per lo sterminato ricamo di 68,30 metri. Ma le lavoranti che si spaccavano la schiena e si consumavano gli occhi alla luce delle candele furono in grado di dar vita lo stesso a un capolavoro in cui i purosangue sembrano galoppare veramente e le navi appaiono in balia dei flutti: l’arazzo di Bayeux è uno dei più celebri manufatti di tutti i tempi, una rarissima testimonianza del cucito medievale e raffigura seicentotrentadue uomini, duecento cavalli, cinquantacinque cani e più di cinquecento tra altri animali e uccelli.
All’elaborata striscia di stoffa appartiene un valore inestimabile poiché descrive la conquista normanna dell’Inghilterra nel 1066, culminante nella battaglia di Hastings, e illustra anche la vita quotidiana dell’XI secolo. Il bellissimo racconto storico-antropologico di Clare Hunter, I fili della vita. Una storia del mondo attraverso la cruna dell’ago, ricostruisce le incredibili vicissitudini del pregiato manufatto ma ripercorre più in generale anche l’avventurosa vicenda del ricamo nei secoli e in vari continenti, dall’Europa alla Cina, dall’Australia al Giappone all’Africa.
A colpi di una narrazione tutta intessuta di colori, di fili di seta, di lana, di lino e d’oro, il saggio mette in evidenza il volto più segreto e nascosto dell’artigianato come un’arte praticata da donne rimaste quasi tutte sconosciute, e ne sottolinea l’estrema importanza anche come forma di comunicazione politica. Proprio così: dopo che per 500 anni l’arazzo di Bayeux fu ignorato - era conservato arrotolato nella cattedrale - il primo a intuirne l’eccezionale portata come strumento di propaganda fu Napoleone Bonaparte. Progettava l’invasione dell’Inghilterra e lo volle a Parigi nel 1803 in quanto emblema di una spedizione vittoriosa.
Anche Heinrich Himmler ne rimase affascinato: i normanni che avevano piantato i propri vessilli sul territorio della perfida Albione, secondo la sua opinione, in realtà erano vichinghi, e dunque, per estensione, germanici e ariani. Dopo lo sbarco alleato in Normandia, Himmler diede ordine che l’arazzo fosse trasferito nei sotterranei del Louvre. Quando il carico raggiunse il museo per fortuna trovò ad accoglierlo gli uomini della Resistenza francese.
Tornando indietro nel tempo, la prima in Europa a scoprire l’eccezionale portata comunicativa dei tessuti fu Maria Stuarda regina di Scozia. Non era una «cucitrice della domenica» ma un’esperta ricamatrice che aveva imparato l’arte in Francia. Quando rientra in Scozia, Maria porta con sé quarantacinque completi da letto, trentasei tappeti persiani, ventitré arazzi, ottantuno cuscini, ventiquattro tovaglie e vari tessuti ricamati, cinquantotto abiti, diversi mantelli e sottovesti, sottane, pettorine, mutande e cuffie. Il suo potere era simboleggiato da questo lussuoso sfoggio: «Le pieghe di una gonna o il drappo di un baldacchino potevano veicolare affermazioni politiche e personali. Il ricamo costituiva un ricco e complesso mondo materiale che indicava ricchezza e lignaggio», spiega l’autrice del saggio.
Dopo essere stata imprigionata, prima della sua esecuzione Maria Stuarda inviò messaggi e avviò progetti di fuga e di ribellione, come quello concertato con il duca di Norfolk, tramite i suoi elaborati: al posto delle lettere sottoposte a censura, usò cuscini da lei stessa lavorati con una simbologia criptica.
Dall’Europa all’Africa il passo è breve quando si parla di questa forma espressiva che si afferma nelle più diverse epoche e sotto tante latitudini. Il cucito è spesso adoperato per mandare messaggi di libertà: la nipote di una schiava africana ricamò su un lacero sacchetto la storia di sua nonna Rose e di sua madre Ashley. Il consunto contenitore le era arrivato in eredità con una ciocca di capelli e un po’ di noci: Rose aveva dato il sacchetto alla piccola Ashley quando, ancora bambina, era stata strappata dalle sue braccia per essere venduta a un mercante. Un modo raffinato, la scrittura su stoffa, per ricordare le sofferenze, più efficace di tante narrazioni scritte.
Anche la popolazione degli Hmong, è solo un altro esempio, utilizzò il cucito per raccontare la propria odissea. Dopo la proclamazione della Repubblica Popolare Democratica del Laos nel 1975, gli Hmong furono oggetto di rappresaglie per aver supportato gli americani durante la guerra in Vietnam. A migliaia furono costretti a lasciare i propri villaggi. Nei campi profughi le donne Hmong realizzarono piccoli ritagli di stoffa con sopra raffigurati i bombardamenti dei villaggi, le marce nella giungla, l’insidioso attraversamento del Mekong.
In Sudafrica, dove si parlano tanti dialetti diversi e l’analfabetismo femminile è alto, ancora oggi l’esperienza dell’apartheid è rivissuta tramite il lavoro di cucito. È nato un archivio tessile di oltre tremila storie di trasferimenti forzati, violenze da parte della polizia, incarcerazioni e stupri.
Oggi in tutto il mondo, anche se non è più praticata nella vita quotidiana, non si vuole perdere la memoria di questa splendida arte considerata marginale e di confine: così la Women’s Library di Londra possiede una collezione di stendardi ricamati delle suffragette. Molte donne hanno imparato a cucire proprio per riprodurli e hanno sfilato in corteo con i loro manufatti per ricordare le sconosciute presenze femminili che con questo artigianato hanno dato voce non solo alle storie individuali ma anche alla Storia con la maiuscola.