Tuttolibri, 29 agosto 2020
Intervista ad Andrea Vitali
Dice Andrea Vitali che rispetto all’epica del mare quella di lago è un’epichina. Ma lo dice strizzando un po’ la voce, per schermirsi, difficile ci creda veramente, lui che a quest’epichina ha dato una quarantina di romanzi, gloria e un esercito di eroi amatissimi. Eroi formato provincia, certo, che magari hanno «l’occhio del pesce persico» ma capaci di raccontare la tragicommedia umana. Che qui è fatta più delle cose di cui si parla(va) all’osteria. Battibecchi, ciclismo, storie di confini, corna, a volte amore. Questi eroi son battellieri, portalettere, spazzini, notabili vari, osti, carabinieri con l’incubo del «trasferimento in Sardegna». E poi mogli, modiste, commesse, zie e zitelle di ogni età. Gli uomini si chiamano Sigismondo, Omario, Gaspare ma per lo più li trovi per cognome, le donne Ortelia, Doris, Diomira, Deilde. L’Olimpo? C’è pure quello ma monoteista, popolato di prevosti perpetue campane e dame della san Vincenzo. Vitali a tutto questo ha dato anche una lingua, placida e appena increspata d’ironia come le onde del suo lago su cui non soffia Zefiro ma Breva. Un universo, insomma, che si chiama Bellano ed è il paese in cui è nato, cresciuto e ha fatto il medico condotto per 25 anni, quando ha deciso di fare lo scrittore e basta. Il camice lo ha rimesso durante l’emergenza Covid, per sostituire un ex collega in quarantena.
Tutto questo per dire che stupisce, dopo tanta felice epichina di lago, che il nuovo libro di Vitali - Il metodo del dottor Fonseca - lasci le amate sponde per arrampicarsi su cupissime montagne.
Dopo tanti romanzi vistalago, uno vistamonti. Perché?
«Per via di suggestioni che mi hanno spinto a raccontare una storia che non ha a che vedere col lago. Suggestioni sia paesaggistiche sia letterarie. Quelle paesaggistiche vengono dalla val Bregaglia, in Svizzera, vicina a me e nella quale ho un grande amico. In un tardo pomeriggio d’inverno - la montagna e le strade ghiacciate - lui che fa il pittore stava presentando una serie di disegni in una piccola stube; sembrava di essere nell’Ottocento e mi venivano in mente certe storie di Gotthelf tipo Il ragno nero che è ambientato proprio in una chiusa interna valle svizzera».
Altre suggestioni letterarie?
«Da Friedrich Dürrenmatt. Ho associato la lettura dei suoi romanzi, nella fattispecie La promessa, a questo panorama silenzioso, chiuso, un mondo quasi disabitato dove si possono nascondere delle cose».
Si sente anche Thomas Bernhard, altro cantore dell’alta montagna da lei amato.
«Sì ma Bernhard è ansiogeno come pochi, da leggere con misura per evitare di dover poi prendere gli antidepressivi».
Anche il genere è diverso: nell’ultimo libro del maresciallo Maccadò i casi sono sempre incruenti, più boccacceschi che delitti veri. Qui si è in un noir. È il mood del momento o per cambiare un po’?
«È la voglia di esplorare il lato oscuro, e anche qui ci sono padri nobili che mi hanno suggestionato da lettore. Uno è il Dino Buzzati letto in gioventù, quello dei Sessanta racconti. Per me era necessario abbandonare il mondo noto per ricrearne uno di fantasia, come in questa storia con una montagna chiusa, scura e una situazione inquietante. Con un quid di misterioso legato alla luna, al pensiero a distanza, aspetti non quantificabili della vita ma esistenti».
Ci sono temi pesanti, che forse la intrigano anche per deformazione professionale. Se nei suoi libri di lago si parla di contrabbandieri di sigarette qui di traffico d’organi, se là di matti di paese solo un po’ tocchi, qui di malattia mentale grave. Perché?
«La malattia mentale mi intriga da sempre, non solo per deformazione professionale ma forse anche per deformazione... mentale. L’ho avvicinata negli studi universitari e mai abbandonata; quando ho smesso di fare il medico di base non a caso ho cominciato a fare il volontario in una comunità psichiatrica della val Seriana, con questi malati che sono sempre un po’ stati l’ultima ruota del carro della sanità pubblica. Il traffico d’organi invece è un escamotage narrativo perché è un tema talmente serio che me ne tengo alla larga. Avevo pensato a un traffico di droga, poi mi è sembrato banale».
Thomas Bernhard - dei medici - in un suo romanzo dice che alcuni «hanno mentalità di uomini d’affari». Come il dottor Fonseca?
«Mi imbarazza parlare di una categoria cui ho appartenuto però, a fronte di un medico con una mentalità criminale che tradisce il giuramento di Ippocrate e ritiene il corpo umano una confezione di organi che possono essere venduti, ho messo anche chi invece affronta questa professione con la coscienza di lavorare con un essere umano, un individuo pari a lui. Sulla mentalità affaristica le cronache hanno chiarito che esiste un aspetto deviato nell’intendere la professione. I soldi piacciono a tutti perché servono per tante cosine, ma quando si approfitta della propria preminenza su chi è in un momento di bisogno, allora salta fuori la devianza».
Sempre Bernhard parla di «intelligenza d’alta montagna, impazzita». Crede che anche in questo ci sia del vero?
«Sì. Specie in luoghi dove le comunità sono così ristrette da provocare incroci che producono storture. In alta montagna bisogna nascerci con una certa propensione alla solitudine, se non si hanno certe armi è facile sbarellare, cadere nella paranoia. Pensi a certe storie che racconta Mauro Corona, che del tutto inventate non sono, quella è l’alta montagna che fa diventare matti».
E Corona lo è?
«Be’, lui ci fa anche un po’. Ha questa immagine e la gestisce molto bene, ma non è assolutamente matto. Matti sono molti dei personaggi che lui ha raccontato. Matti veri. Ricordo nel romanzo L’ombra del bastone questa forma di formaggio che viene regalata al parroco dentro la quale è stato messo un bambino abortito. Cose che fanno orripilare, segni veri di patologia. Tornando a Corona, non mi piace quando fa il gigione, ma è stupendo quando si accompagna all’amico che imita il canto degli uccelli».
Dalla coralità delle sue storie di lago all’atomismo dell’isolamento montano. Il paesaggio fa la sua gente?
«Sì, il paesaggio ha parte importante nell’aprirsi - o no - alla vita e agli altri. Penso al grande Nord dove spesso non c’è possibilità di comunicare. Mi vengono in mente i romanzi di Stefànsson, lo scrittore islandese, danno da pensare sulla incidenza del paesaggio nella visione che uno poi ha del mondo e delle persone che lo abitano».
Il suo ambulatorio e l’atrio, ha detto, sono stati il panorama umano dove ha attinto tanto per i suoi racconti (di lago). Com’erano?
«Piano terra, a due passi dal lago. Con una sala d’attesa per una ventina di persone sedute. Lo studio con il suo bel lettino, il paravento la scrivania il computer una grande libreria a vetri piena di testi scientifici, la pianta per fare le flebo. Mai usato il camice, che stava appeso perché spaventava i bambini. Poi l’ho regalato a un ragazzo della comunità psichiatrica che doveva fare il medico in una commediola. Mai avuta manco una segretaria, sempre fatto tutto da me, nei posti piccoli non serve».
Faceva le visite a domicilio, ormai quasi estinte?
«Sempre. Al di là della formazione che ho ricevuto - che la visita a domicilio si fa - stante il tipo di relazione che c’è qui non è pensabile che io dica a uno "no non vengo", suona male».
Torniamo al lago. La nebbia, il vento, l’umore malinconico, il pesce meno saporito. Verità o stereotipi?
«C’è della verità e del falso. Malinconia? Se uno viene a novembre con la foschia e le foglie marce forse. Ma in una giornata come oggi con la breva, il vento buono femminile che soffia dal basso lago, sfido chiunque a dire che gli viene la malinconia. Sul fatto che i pesci siano meno saporiti non posso dir niente, è una verità incontestabile, ci difendiamo con quel poco che abbiamo e cerchiamo di farlo valere».
E tra le attrattive di Bellano c’è un «Orrido»...
«Bello e orrorifico. Ora in grande spolvero, fa un sacco di soldi coi biglietti d’ingresso. Io non ho mai subito il suo fascino sinistro perché sono un po’ claustrofobico, qualche suicidio c’è stato...».
Poi c’è anche il lago glamour. Quando Clooney prese casa a Laglio, che si diceva nel suo ambulatorio?
«È sull’altra sponda. L’eco è arrivata ma non ha generato fenomeni di isteria di massa come è successo di là quando organizzavano le barche per andare a vedere il risveglio del Re che si affacciava alla finestra. Qui è stata acquisita con molta tranquillità, tutto sommato con un bel chissenefrega».
È tornato a fare il medico durante l’emergenza Covid. Pensa che le toccherà di nuovo quest’autunno?
«Ho il timore di sì, io naturalmente se ci sarà bisogno ci sarò, non si discute, l’ho fatto e lo farò. È un piacere poter essere di aiuto alla comunità».
Bellano è pieno di Vitali e due sono famosi come lei, ma pittori. Siete parenti?
«No neanche un filo, per quello che siamo amici. Due linee di Vitali che non si sono mai incrociate, niente in comune se non l’amicizia che ci unisce».
Milano, Roma, non le fanno pena queste città svuotate? Qualcuno dice che la gente tornerà ai borghi. Crede?
«Mi fanno tenerezza più che pena. Io non ci abiterei mai, la lontananza dal casino per me è fondamentale, la pace che mi dà sapere dove sono e chi conosco mi mancherebbe troppo. Se dovesse andare avanti così non è un’ipotesi campata in aria che uno costretto a lavorare da casa si cerchi un posto dove aprendo la finestra vede quattro alberi».
Questa estate è morta Giulia Maria Crespi, una di quelle signore della grande borghesia lombarda, colte e volitive, un po’ come la Perdicane di "Una finestra vistalago". Lei che dice, non ci sono più i "sciuri" di una volta?
«Ci sono ma meno illuminati. Lei lo è stata, ha avuto una visione legata non solo ai suoi interessi ma a quelli di una comunità ampia. Questo mecenatismo culturale appartiene a un’epoca che forse è un po’ tramontata. Lo vedo più nei confronti del calcio che verso l’arte la cultura e il paesaggio».
Lei è una voce del lago e della provincia, viene accostato a Chiara, Soldati, Guareschi. Il Fogazzaro di "Piccolo Mondo antico" invece è pochissimo citato. Secondo lei perché? Per via del titolo gozzaniano?
«Perché è stato dimenticato. Un destino che riguarda molti autori, dopo morti per un po’ c’è un rimbalzo in classifica poi si va nel dimenticatoio e si ritorna dopo un centinaio d’anni».
Quest’estate i suoi libri sono stati venduti con Famiglia Cristiana e andati esauriti. È una "consacrazione"?
«È un piacere, sono legato alla rivista che era lettissima dalle mie zie assieme a "Vita femminile", ricordo che c’era una rubrica dove si davano notizie dei dispersi in guerra. Sulla "consacrazione" invece ci andrei piano, mi mette un po’ paura perché va confermata».
Il latino: lei lo usa molto, specie il latinorum delle litanie, che anche i suoi personaggi comunisti citano. Oggi nemmeno in alcuni licei si fa più. Che si perdono?
«Da giovane mi sembrava una palla ma a distanza ho rivalutato tutto quel latino e greco. Oggi sembra una perdita di tempo domani sarà un plus».
In questo momento di manie iconoclaste contro le statue, il Tommaso Grossi della piazza del paese (e di tanti suoi romanzi) è in pericolo?
«No poveretto, che ha fatto mai? Il massimo di oltraggi che ha subito è stato trovarsi in maglietta del Milan o con un cappellino da muratore, in carta della Gazzetta dello Sport».