Sette, 28 agosto 2020
Intervista a Oliver Stone
L’amore del giovane Oliver Stone per la madre farebbe arrossire Edipo: «Lei era come una droga, quando non c’era le volevo bene ancora di più», dice il regista. Il padre era un militare, ebreo-americano, che conquistò la futura sposa a Parigi, poi la portò a New York, dove fece l’operatore finanziario (sì, proprio come il Gekko di Wall Street), coltivando però la passione per la scrittura che ha trasmesso all’inquieto figlio: «L’unico numero di telefono che ancora conosco a memoria è quello di casa, di casa di mio padre, è lui che chiamai quando a vent’anni sono finito in carcere a San Diego per un po’ di erba vietnamita».
Già, il Vietnam, per cui Stone, frastornato dal divorzio dei genitori, nel 1967 era partito volontario; e da cui torna decorato, assassino e turbato. E poi Los Angeles, il sogno del cinema, la dipendenza dalla cocaina, che fa lavorare male e pure a letto non aiuta. Infine la gioia per la paternità inattesa, qualcosa di più reale di tutti i film da Oscar. Sono alcuni dei passaggi dell’autobiografia Cercando la luce, che è uscita per La nave di Teseo e abbiamo letto in anteprima. Cercare la luce è, per ogni regista, trovare l’inchiostro giusto per scrivere il film: per Stone significa anche raccontare le ombre, senza farsi sopraffare.
Che lo sceneggiatore di Scarface sappia scrivere non stupisce, ma i retroscena e gli aneddoti sul cinema - il rapporto con Al Pacino, i litigi con Brian De Palma, la scelta delle attrici, le lezioni del maestro Scorsese - sono il contorno forte di un libro in cui Stone mette a nudo i suoi primi 40 anni, dall’adolescenza dorata alla maturità inquieta, fino al trionfo agli Oscar con Platoon nel 1987, passando per il divorzio dei suoi, l’abbandono dell’università di Yale, la fuga nell’esercito cercando risposte a piccole grandi domande: perché i miei non si amano più? Chi davvero voleva Kennedy morto? Tormenti che accrescono in lui la fobia per la menzogna, la diffidenza verso le versioni ufficiali e la predilezione per le voci contrarie se non avverse: dal comandante Chávez allo zar Putin, che intervista in film controversi, fino al film su Edward Snowden, nel 2016. Il 15 settembre Stone compie 74 anni, l’abbiamo intervistato via Zoom.
Mister Stone, nel libro confessa che avrebbe voluto uccidere suo padre e che provava un forte desiderio per sua madre. Sembra il festival di Freud...
«Sa, io ammetto questi impulsi perché penso che li proviamo tutti e non è giusto nascondersi, cullarsi tra gli insoddisfatti desideri, come direbbe William Blake. Non ho mai desiderato andare a letto con mia madre, ci conoscevamo intimamente, ma non mi eccitava. Lei era molto naturelle, della terra, mentre mio padre era più cielo, uno scrittore, un intellettuale ebreo costretto a lavorare nel mondo degli affari, che guardava il mondo con un distacco che anche io ho. Con il divorzio si è creata una divisione in me: un lato mediterraneo, ribelle, e un lato nordico, autoritario. Lei è scappata da tutto questo, divorziando, io me lo sono portato dentro».
Dualità che emerge in Platoon: nel film, il sergente Barnes è il militare disumano, il sergente Elias che resta umano. Sul primo ha proiettato suo padre e sul secondo sua madre. I due si contendono l’anima di Chris Tyler, il suo alter ego, interpretato da Charlie Sheen. Perché ha scelto Sheen?
«Charlie aveva lo stesso sguardo perso che avevo io, l’innocenza che si corrompe. Aggiungo una nota: il sergente Barnes è esistito veramente, anche se il nome vero era un altro, era il soldato più cattivo, il più impressionante che si possa immaginare. Era sposato con una donna giapponese, aveva un lato non del tutto spietato. Ma non sono riuscito a scoprire cosa portasse nell’anima, era impossibile conoscere le persone: i soldati vengono spostati, mandati qua e là... È spersonalizzante il sistema dell’esercito americano».
Elias è esistito, l’ha conosciuto. Ha pure ricevuto una lettera dalla figlia, dopo il film.
«Sì, era un indiano ispanoamericano, ma non sono riuscito a trovare un attore indiano. Ho scelto Willem Dafoe, che viene dal Wisconsin ma ha sangue misto, zigomi forti, occhi che parlano. Non sono riuscito a trovare nemmeno Rhah, il soldato del sud interpretato dal figlio di Anthony Quinn, Francesco: il vero Rhah era un tipo del Sud con lo spirito del sopravvissuto e le parole “LOVE” e “HATE” tatuate sulle nocche. Cristo Gesù che tipo! E poi c’erano tanti neri nel mio plotone, mi davano la forza di andare avanti, mi hanno mantenuto umano. Ci sono anche nel film».
Sì, è al riparo dalla censura retroattiva che negli Usa si sta abbattendo anche su classici come Via col vento. Era il film preferito da sua madre, ora è accusato di razzismo. Cosa pensa della cultura della cancellazione del passato?
«C’è tanta distrazione, finti problemi su identità culturali o sessuali. Per me le questioni più importanti sono la pace, la lotta per l’energia pulita... Perché in questo Paese siamo sempre alla ricerca di un nemico? Aggrediamo mentalmente i russi, i cinesi, gli iraniani, i cubani... Anche Joe Biden attacca la Russia e i democratici dicono che cambieranno la Siria. Il nemico è dentro di noi, ma oggi, non ieri».
Nel libro confessa d’aver votato Reagan nel 1980. Oggi... Biden?
«Sì, sceglierò il male minore. Su Reagan: in casa erano reaganiani, mio padre per visione politica, mia madre per snobismo francese, il mio fu un voto contro Carter».
Lei frequentava donne più grandi di lei, anche la prima moglie lo era. Com’era fare il toyboy?
«Io all’epoca non mi sentivo all’altezza, ero insicuro. E poi mi piacevano le amiche di mamma, erano attraenti. Una volta mi aveva portato in Francia e c’erano sue amiche nude in piscina. La sua migliore amica era quella che desideravo veramente e che devo dire assomigliava alla mia attuale moglie, che è una ragazza coreana, bassa, attraente, capelli scuri neri, un tipo come Elizabeth Taylor. Ecco l’amica di mamma era una bellissima donna che ricordava Elizabeth Taylor».
Quando Liz Taylor annunciò l’Oscar per Platoon, sua madre le urlò “dai un bacio a Liz!” e lei baciò la sua seconda moglie, Elizabeth Burkit Cox, ma sua madre intendeva l’altra l’attrice.
«Mia madre non aveva mezze misure, era un primo piano o un campo lungo: era intima e invadente, meravigliosa ma fuggitiva. Non era sempre lì per te, come la tipica mamma americana che fa torte di mele. No, mi correva dietro con un frustino quando avevo 8 o 9 anni».
Nel libro lei cita le attenzioni degli amici gay di sua madre. Ha mai avuto un interesse per loro? O l’ha scritto solo per vanità?
«Beh ho fatto Alexander, che non solo ha una mente omosessuale, va oltre: il suo amante è un eunuco. Alessandro Magno era pansessuale. E io capisco uomini come lui, ma parlo di attrazione estetica, per cui si sceglie un attore rispetto a un altro. E capisco perché in un certo senso gli uomini... non mi fraintenda, poi finisce nel titolo del giornale. Diciamo: ammiro la bellezza in un uomo come in una donna».
Qual è l’attore vivente più bello?
«Brad Pitt. Del passato direi Clark Gable, William Holden, Marcello Mastroianni...».
Nel libro racconta che Al Pacino ai tempi di Scarface la spinse a cambiare la sceneggiatura e poi non la difese dal regista Brian De Palma. Si sentì tradito?
«Sì, Al ha danneggiato la mia carriera e Scarface non mi ha aiutato, è piaciuto a una folla di gente che non era la folla del mondo cinema, erano neri, ispanici e bianchi della droga... Ad anni di distanza ne abbiamo parlato e l’abbiamo superata. Ho lavorato con Al per Ogni maledetta domenica, lui era una persona diversa, non più permaloso né superstar, ma alla mano, realistico. E continua a essere “un Amleto di strada” ha una radiosità speciale, è molto sensibile, occhi grandi, che assorbono e poi trasmettono».
Un’attrice che le piace?
«La sua? Mi dica, lei è giovane».
...Charlize Theron.
«Uhm... davvero?».
O Stefania Sandrelli.
«Sì, lei mi è piaciuta nel Conformista. Poi Anna Magnani o Sophia Loren: non il mio tipo, ma bella».
E di registi o registe italiani?
«Ora sto vedendo molto Roberto Rossellini. Mi piace il film con Ingrid Bergman, Stromboli».
Sta diventando romantico? Le hanno mai scritto una lettera d’amore come quella che Ingrid Bergman scrisse a Rossellini?
«No, mai. Sarà che non ci sono molte Ingrid Bergman in giro, o sarà che non ho mai fatto film d’amore, anche se mi sarebbe piaciuto. Nei miei film han recitato star come Juliette Lewis in Assassini nati, Joan Allen in Nixon e Cameron Diaz in Ogni maledetta domenica non è che fossi misogino, amavo le donne, ma l’unico film che ho fatto su una donna che ho veramente amato è stato Tra cielo e terra, la storia, vera, di una donna vietnamita. Vorrei aver fatto un film su mia madre, lei voleva che facessi film d’amore, questo libro ne è un po’ la sceneggiatura... La notte che è mancata, mi hanno detto, stava guardando un film di Terrence Malick, Tree of life credo».
Nel 1994 era a Venezia con Assassini nati che ottenne un Gran premio della Giuria ma non vinse il Leone d’oro. Deluso?
«Mi ha spezzato il cuore quella vicenda. Il presidente era Lynch, in giuria c’era Uma Thurman, alla proiezione il pubblico era esaltato, gridavano “bravo, bravo”, dieci minuti di applausi. Ma il giorno dopo uscì sui giornali una frase di Vargas Llosa, che era in giuria, che diceva del film: “Per fargli vincere un premio devono passare sul mio cadavere”. Uno scandalo, i giudici non dovrebbero pronunciarsi prima del verdetto... Volevo lasciare Venezia, ma Gillo Pontecorvo, che dirigeva la mostra, disse di restare, che ci sarebbe stata una sorpresa».
Nel libro racconta della sua seconda moglie incinta: “La notizia più bella che desiderassi”. Lei ha assistito anche al parto, che ricordi ha di quel momento?
«In sala parto ero come il terzo incomodo, che guarda. Cercavo di rendermi utile, stringendo la mano a mia moglie con tutte le forze. Quando è uscito il bimbo temevo stesse morendo, con tutti quegli urli, e invece no! Si rotolò sul tappetino come un lottatore di aikido e vidi che era maschio! Che gioia».
Quanti Oscar servirebbero per eguagliare quell’emozione?
«Non farei paragoni. Desideravo così tanto avere dei figli, dopo che mi era stato detto che non potevo averne - erano trascorsi 10 anni dal tempo del mio primo matrimonio. Con il secondo matrimonio, grazie alla tecnologia, siamo riusciti ad avere un figlio. Poi ne abbiamo adottato uno e poi ho avuto anche una figlia da un’altra moglie. I miei film sono altrettanto importanti, come dei figli. Ho dato la mia vita in quegli anni, in ogni singolo film ho messo tutto me stesso, ogni volta si sacrifica un po’ della propria vita. Ricordo l’ultimo incontro con Bernardo Bertolucci, sulla sedia a rotelle, gli dicevo “dai Bernardo, vieni a Los Angeles e ti aiutiamo noi, il blocco più grande è nella tua testa”, insomma dicevo cose che non avrei dovuto dirgli, ma lo incoraggiavo e lui, guardandomi, mi disse: “Tu vuoi veramente fare cinema; vero Oliver? Vedo in te quel desiderio... anche io l’avevo. Ora non ce l’ho più”. È triste, ma è vero, si apprezza la fame, soprattutto quando non ce l’hai più».
La prima notte di nozze con Elizabeth, scrive nel libro, fu un disastro. Non avete fatto sesso, eravate troppo sballati.
«Nulla è speciale quando si ha una tossicodipendenza. Anche il sesso. Tutto si appiattisce. Ci si annoia con la cocaina, perché ci si fa sempre ed è uno sballo, poi ci si annoia degli sballi ed è questo che mi è capitato. Sei sposato e non riesci nemmeno ad eccitarti, mio Dio; per chiunque assuma cocaina, ne sono certo, il sesso può essere bello qualche volta, ma raramente. È un disastro per lo più».
La cocaina, scrive, le ha creato problemi anche con la scrittura. Perché la prendeva allora?
«Negli Anni 70 e poi ‘80 era molto popolare a Hollywood. Io ero in mezzo, inizialmente la prendevo alle feste, tutti la prendevano, sembrava a posto, ma crea dipendenza. Capii che stava distruggendo le mie cellule cerebrali, mi stava uccidendo. Lavoravo a un copione, dal libro Wilderness di Robert Parker: beh ma non vide la luce, ero molto arrabbiato con me stesso. La scrittura di Scarface sono riuscito a finirla solo perché mi rifugiai a Parigi: nessuno usava droghe a Parigi all’epoca, era inverno, c’era freddo, buon cibo, belle amicizie».
Nel libro ricorda che la parola “fuck” compare 183 volte nel copione di Scarface. Nel suo libro invece il termine “Dio” compare decine di volte, non solo come esclamazione. Lei crede o credeva in dio?
«Credo nel destino. Ora pratico il buddismo, dove non c’è un dio-creatore e il mistero della vita continua senza inizio né fine. A quell’età, a 19 anni, sì, credevo in Dio. Il divorzio dei miei mi aveva destabilizzato, mi sentivo fuori luogo, senza famiglia. Scrissi un libro che mi venne rifiutato e pensai “sono una merda, non ho uno scopo, sono perso in questo mondo. Vado nell’esercito, mi dissi, vado in guerra, voglio vedere la guerra e poi se mi vogliono gli déi mi prenderanno, me ne lavo le mani, non ne sono responsabile”. Ecco, era un modo per deresponsabilizzarmi. Ma non mi presero, anzi, ho ucciso io. Venni ferito due volte in combattimento, ma quando sono uscito dal Vietnam, ho realizzato che la mia vita aveva uno scopo, e l’ho messo alla fine di Platoon: riempire la vita di bontà e di significato. È per questo che sono sopravvissuto e, grazie a Dio, sono stato in grado di scrivere una storia e farci un film, Cristo Gesù! Questo è un grande traguardo già di per sé, è un sogno che si realizza».
Sua madre amava il cinema, suo padre la scrittura. Ma è sua nonna materna, Memé, a indicarle la via. Dal Vietnam scriveva le lettere a lei e al suo funerale, a Parigi, ha una illuminazione. Dopo un pianto liberatorio. Lei piange spesso?
«Abbiamo molti motivi per piangere, di tristezza, di goia... Tornando al funerale di nonna: avevo 30 anni, un mondo dentro che mi scoppiava e la sua voce mi parlava nella testa, e diceva: “Ora devi fare tu quello che senti di voler fare, tocca a te”. Poi sono arrivate le ombre dei miei commilitoni e ho capito. Sono tornato negli Usa, ho finito di scrivere Platoon e non ho mai mollato. Mai. E boom, realizzai Fuga di mezzanotte e poi Scarface e finalmente Platoon. Mio padre aveva letto la sceneggiatura, diceva che non c’era speranza. Ma no, non era vero, la speranza c’è: poter raccontare la verità, essere sinceri».