La Stampa, 27 agosto 2020
L’anello di fidanzamento di Dodi a Diana
Quell’estate del 1997 Alberto Repossi l’ha ben impressa nella mente. Ogni fotogramma, istantanee di un incubo che si sarebbe protratto per 12 lunghi anni. Repossi è un grande gioielliere, fornitore ufficiale della casa regnante monegasca, dei principi sauditi e della famiglia Al Fayed. Perciò venne naturale a Dodi di rivolgersi a lui per acquistare l’anello di fidanzamento da regalare alla principessa Diana.
Repossi, era il 1997...
«... E io da poco mi ero recato a Saint Tropez dove erano di passaggio Dodi e Lady Diana. Lei era già stata nella nostra maison di Place Vendome a Parigi e aveva scelto un anello molto bello ma discreto. Scherzammo anche con Dodi sul fatto che la linea si chiamava "dit moi oui" (dimmi di sì) e dunque non prevedeva ripensamenti. Il 31 agosto nel pomeriggio, poco prima della tragedia, Dodi, il padre, le guardie del corpo e il segretario vennero a ritirare l’anello. Sulla ricevuta il mio impiegato scrisse "anello di fidanzamento" e anche di quello sorridemmo come fosse indelebile, nero su bianco, la loro promessa».
Poi nella notte, la morte, sotto il ponte dell’Alma.
«Terribile, un dolore inimmaginabile. L’inchiesta in Francia fu abbastanza frettolosa, nessuno ci ascoltò e dopo una settimana decisero che si era trattato di un incidente, il corpo di Diana venne imbalsamato "per ragioni di sicurezza pubblica", si disse. A Londra invece la Regina Elisabetta incaricò Lord Stevens delle indagini a Scotland Yard. Va ricordato che Stevens alla fine si dimise, per motivi di salute, in realtà non voleva firmare gli atti. Io e mia moglie fummo convocati per tre volte con gli investigatori che ci trattavano come banditi, solo perché raccontavamo la verità su quell’anello. Mi proposero di chiuderla lì, con poche righe negli atti a patto di cambiare la mia versione dei fatti. Ma io non lo feci anche perché avevo le prove ».
Perché secondo lei?
«Perché era in preparazione il secondo matrimonio del principe Carlo che fu anticipato da un libro pilotato a firma della guardia del corpo Trevor Rees-Jones, l’unico sopravvissuto (sfigurato) all’incidente. Il libro sosteneva che l’anello non era mai esistito, quando lo lessi saltai sulla sedia come Mohamed Al Fayed. Oltretutto il padre di Dodi era stato vicino a Trevor pagandogli tutte le spese mediche. Ricominciarono le pressioni e io a preoccuparmi anche per la mia famiglia. Persino il presidente Chirac, tramite sua moglie Bernadette, mi fece arrivare il messaggio di tacere, soprattutto con la stampa. Si erano convinti che fossi stato io a parlare, invece le informazioni del Sun erano arrivare dai Lloyd’s. Decisi di pubblicare su Internet, perché fossero pubbliche, le registrazioni delle fotocamere di sicurezza sulla consegna dell’anello. Mi richiamarono a Londra per testimoniare al processo e io non volli andare, lì mi avrebbero potuto fare quel che volevano. Ottenni di collegarmi in videoconferenza da Parigi. Delle 800 pagine di conclusione dell’inchiesta, ben 80 sono dedicate all’anello».
Poi tutto finalmente finì.
«Due anni dopo Mohamed Al Fayed mi invitò a colazione al Ritz, disse che stava preparando un esposto. Sinceramente lo sconsigliai, già aveva avuto tanti problemi e doveva ringraziare di essere vivo. Così pensai anche di me. Continuava a telefonarmi insultando la famiglia reale inglese, ovviamente era intercettato e io dall’altro capo fingevo di non sentire. Vendette tutto in Francia, tranne il Ritz e la villa che fu di Wallis Simpson, dove Diana e Dodi volevano vivere da sposati. Una nemesi inquietante».