Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2020
Il problema degli studenti cinesi nelle università Usa
La dottoressa Juan Tang, 37 anni, è arrivata a San Diego il 29 dicembre 2019 per portare a termine il suo dottorato in biologia cellulare, come visiting researcher al Dipartimento di Oncologia dell’University of California, tra il mare de La Jolla e la pineta della riserva naturale di Torrey Pine. Studiava i trattamenti radiologici più avanzati contro il cancro assieme a colleghi americani. Doveva restare un anno.
In Cina ha lasciato il marito e una figlia di otto anni. Non era mai stata all’estero prima di questa esperienza. Un’esperienza che non dimenticherà. Qualche settimana fa è stata arrestata con l’accusa di spionaggio e di far parte del China’s People Liberation Army. Lei e altri tre ricercatori cinesi sono stati accusati di frode dal Dipartimento di giustizia per un visto falso. Tang si è riparata nel Consolato cinese di San Francisco per evitare l’arresto. I media americani in quelle ore parlavano di una spia in fuga. Quando gli agenti del Fbi si sono presentati al Consolato cinese con l’ordine di arresto, Tang, che secondo il suo avvocato difensore soffre di asma e ha bisogno di cure continue, era uscita per acquistare dei farmaci. Ha avuto una crisi isterica quando ha visto le manette.
Le autorità americane la accusano di essere un finto scienziato, con affiliazioni all’esercito cinese. Il suo avvocato Alexandra Negin sostiene che la ricercatrice non rappresenta un pericolo per la comunità e che l’arresto non fosse necessario. Gli agenti del Fbi hanno trovato delle vecchie foto di lei in uniforme di quando era studente alla scuola di medicina dell’esercito. «Ma questo non vuol dire che lei ora lavora nell’esercito», sostiene il legale. La donna spera di poter tornare presto in Cina.
La vita degli studenti universitari e dei ricercatori cinesi negli Stati Uniti è diventata un inferno con l’amministrazione Trump. Alle difficoltà per il rinnovo dei visti di studio si sono aggiunti gli arresti per spionaggio.
Con il Coronavirus e la chiusura obbligata dei campus gran parte degli studenti sono rientrati in Cina. Hanno continuato a seguire, come tutti, i corsi e a sostenere gli esami online. A fine agosto riaprono i campus ma i cinesi, come anche molti tra gli studenti internazionali, non rientreranno negli Stati Uniti con il coronavirus. L’Immigration and Customs Enforcement (Ice), il 6 luglio ha annunciato nuove restrizioni per il rinnovo dei visti agli oltre 1,5 milioni di studenti internazionali.
Secondo l’Università dell’Indiana su 7.848 studenti internazionali iscritti la decisione dell’Ice avrà un impatto su almeno 6.282 studenti che hanno un visto F-1. Trump il 26 luglio ha precisato che non rinnoverà i visti agli studenti stranieri che non rientreranno nei campus alla riapertura a fine agosto. Un incubo. Soprattutto per i tanti laureandi cinesi che non sanno come ora terminare i loro percorsi formativi.
Per anni gli studenti cinesi che cercano programmi di specializzazione all’estero sono stati il tesoretto finanziario per i college e le università americane. Il numero maggiore di iscrizioni tra gli studenti internazionali arriva dalla Cina. Nell’anno accademico 2017-2018 risultavano iscritti alle università e ai college americani 369.548 studenti cinesi, secondo l’Institute of International Education. Il numero degli studenti cinesi negli Usa è triplicato nell’ultimo decennio. Aiutato dall’aumento dei redditi della classe media e dalla crescita economica cinese. Molti giovani cinesi hanno utilizzato gli incentivi del piano “Migliaia di talenti” lanciato dal governo cinese nel 2008 per promuovere l’alta formazione dei suoi ricercatori all’estero. Un programma che ha aiutato circa 7mila ricercatori cinesi a studiare fuori dalla Cina.
L’impatto della perdita di tanti studenti internazionali provenienti dalla Cina rischia di essere molto pesante per le università americane, sia in termini di impoverimento culturale che soprattutto e finanziario. Le politiche repressive messe in atto dall’amministrazione Trump oltre a bloccare l’arrivo di cinesi negli Usa rischiano di togliere alle università e ai college americani qualcosa come 15 miliardi di dollari di rette che ogni anno gli studenti con gli occhi a mandorla pagavano per poter studiare nel paese. L’ostilità è totale.
Perfino i Confucius Institutes aperti in quasi tutti i campus americani per promuovere la lingua e la cultura cinese (come i British Council o gli Istituti di cultura italiani sparsi all’estero) rappresentano secondo l’amministrazione Trump una minaccia di spionaggio. Così come il pugno duro dell’amministrazione Usa che ha portato all’arresto della dottoressa Tang, con l’accusa di frode per un vecchia foto da studente in uniforme quando studiava nella scuola di medicina dell’esercito.
Il diplomatico cinese Xu Yongji che al consolato cinese di New York ha la delega per l’educazione e gli scambi culturali lamenta la politicizzazione di quelli che una volta erano i normali scambi educativi tra Stati Uniti e Cina.
Il governo di Pechino oggi consiglia agli studenti che vogliono studiare all’estero di valutare attentamente i rischi esistenti prima di decidere di studiare negli Stati Uniti. Molti cercano altre strade e altri paesi. In Europa, in Canada e in Australia soprattutto. Tanti restano in Cina con la qualità del sistema universitario cresciuta molto negli ultimi anni: due atenei cinesi sono nella classifica delle migliori 25 università mondiali, la ricerca scientifica cinese negli ultimi anni ha superato gli Stati Uniti in termini di impatto in diversi settori. Pechino ha aumentato le collaborazioni scientifiche con partner come Corea del Sud, Russia, India, Singapore, Germania, Italia. Il piano di sviluppo One Belt, One Road inoltre coinvolge 65 paesi e circa il 63% della popolazione mondiale.
Per anni le aziende tech e le università americane sono andate a caccia dei migliori talenti cinesi. Ragazzi di solito con un’ottima formazione e una dedizione al lavoro non comune. Ora non è più così facile. Il problema però esiste per gli studenti cinesi che stanno studiando negli Usa e che sono vicini alla laurea.
I rettori delle principali università americane hanno tutti preso apertamente posizione con lettere aperte e appelli contro le politiche dell’amministrazione Trump. All’Università californiana di Berkeley su 1.460 laureandi in questo anno accademico, 988 sono studenti cinesi. Il portavoce dell’Università Dan Mogulof non vuole parlare dell’impatto che la stretta Usa potrà avere sull’ateneo: «Come università che valorizza la diversità Berkeley crede che avere una popolazione studentesca globale sia un elemento fondamentale del suo carattere istituzionale e della sua missione accademica. Continueremo a garantire che ogni studente in questo campus, indipendentemente dal proprio paese di origine, si senta al sicuro, rispettato e benvenuto».
Mary Sue Coleman, presidente dell’Associazione delle università americane, ha detto che «gli Stati Uniti sono stati a lungo in grado di attrarre i migliori e più brillanti talenti da tutto il mondo. L’idea che gli Stati Uniti non siano più un paese accogliente ci danneggia».