Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2020
Orari di lavoro ridotti antidoto alla crisi?
Lavorare meno per lavorare tutti, aumentando la produttività e possibilmente senza grosse riduzioni di salario. Rilanciato da Berlino e da Helsinki il messaggio, come una sirena agostana, affascina l’Europa, provata e preoccupata dalle ripercussioni occupazionali del coronavirus. Ma è una suggestione che rischia di essere fuorviante se concentrata semplicisticamente sul solo orario di lavoro.
A riaccendere il dibattito è stato a Ferragosto Jörg Hofmann, presidente del potente sindacato Tedesco IG Metall, che rappresenta 2,3 milioni di lavoratori del settore metalmeccanico ed elettrico, dove la crisi causata dal coronavirus mette a rischio 300mila posti di lavoro. In un’intervista alla Süddeutsche Zeitung, Hofmann ha preannunciato che, nel prossimo round negoziale per il rinnovo dei contratti collettivi, proporrà l’introduzione di una settimana lavorativa di quattro giorni, «con un certo livello di compensazione salariale, in modo da renderla sostenibile per I lavoratori». In questo modo – ha concluso, senza aggiungere troppi dettagli – «sarà possibile salvaguardare i posti di lavoro» in un settore, quello automobilistico, su cui peraltro già pesavano altre incognite legate a cambiamenti strutturali come la transizione verso la mobilità elettrica.
Lunedì è stata la volta della premier finlandese Sanna Marin. Nel discorso con cui ha salutato la sua elezione a presidente del Partito socialdemocratico, la giovane leader ha rilanciato l’obiettivo di una riduzione dell’orario di lavoro da otto a sei ore al giorno (ne aveva parlato già a gennaio, con in più anche un riferimento alla settimana lavorativa di quattro giorni), non in conflitto – ha detto – «con tassi più alti di occupazione»; ha quindi sottolineato che bisogna «ridurre l’orario in modo da non indebolire i livelli di reddito», citando a questo proposito studi e sperimentazioni che suggeriscono che il taglio degli orari migliora la produttività, senza gravare sul costo del lavoro per le imprese.
L’accento andrebbe in realtà posto proprio sulla produttività più che sull’occupazione, come conferma Andrea Garnero, economista del Dipartimento Lavoro e Affari sociali dell’Ocse. «Se l’obiettivo è risolvere questioni contingenti di crisi (come quella dovuta al Covid, ndr) – spiega – nella ricerca empirica non vediamo effetti sull’occupazione; non vediamo cioè che, se si lavora meno, quelle ore vengono redistribuite ad altri in maniera sostanziale. Abbiamo invece qualche evidenza che ne beneficiano l’equilibrio vita-famiglia e il benessere individuale del lavoratore e abbiamo qualche evidenza di un effetto positivo sulla produttività. Quello che dice la premier finlandese ha senso, perché parla di produttività più che di lavorare meno e lavorare tutti. È una sorta di processo iterativo in cui inizialmente si riduce l’orario, in parte si riducono i salari ma ci sono anche dei guadagni di produttività che possono di nuovo essere redistribuiti sotto forma di salari; e quindi, nel medio periodo, si dovrebbe arrivare a non intaccare il salario senza aumentare il costo del lavoro».
Viene in mente in realtà un caso tedesco che ha fatto scuola e che nacque proprio a tutela dell’occupazione: la riduzione del 20% dell’orario, da 36 a 28,8 ore settimanali, attuata da Volkswagen in accordo con IG Metall nel 1993, in cambio di una riduzione salariale più limitata. Garnero invita però a distinguere: «I casi aziendali sono un po’ diversi da quello che succede in un Paese. In un’azienda può essere utile ridurre l’orario di lavoro quando ci sono meno ordini ed è in un certo senso un altro modo di fare la cassa integrazione. Altra cosa è farlo per legge a livello nazionale: quello è il caso francese, le 35 ore, e lì non abbiamo grande evidenza di un impatto sull’occupazione, l’effetto è stato limitato. Più in generale – aggiunge – le questioni chiave da considerare sono due: che tipo di compensazioni ci sono in caso di taglio dell’orario e come viene attuato. Io credo che, nei limiti del possibile, sia importante dare un quadro legislativo e poi lasciare alla negoziazione settoriale, e soprattutto aziendale e territoriale per le piccole imprese, la possibilità di adattarsi». Il modello tedesco è, in questo senso, una sorta di paradigma.
Ma i modelli sono esportabili tra Paesi diversi, che hanno per esempio – per tornare al nodo centrale – livelli di produttività molto diversi? Quello che si discute in Germania o Finlandia funzionerebbe anche in Italia o in Grecia? «Credo che da noi – conclude ancora Garnero – la discussione sia forse ancora più urgente. Si tratta di capire come mai lavoriamo così tanto (in termini di ore) e la produttività cresce così poco: una discussione che si allarghi e non si concentri solo sull’orario; una questione che riguarda il lavoratore e l’impresa, l’organizzazione del lavoro, la formazione, le tecnologie. Il dibattito dunque c’è, è giusto averlo, purché non si riduca dire: facciamo come i finlandesi o i tedeschi».