Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  agosto 27 Giovedì calendario

Il suicidio di Cesare Pavese, 70 anni fa

«Ma Pavese com’era?». La domanda, Guido Davico Bonino, allora da poco in forza alla Einaudi come ufficio stampa, la rivolgeva a Italo Calvino. Calvino sbuffa, non vuole interrompere il lavoro che sta facendo e rimanda. Con Calvino andrà poi a cena e lì qualcosa Davico riuscirà a sapere, per esempio che per la casa editrice Pavese aveva lavorato moltissimo: era stato assunto nel ’38, anche se la collaborazione andava avanti già da tempo e che i rapporti con Giulio erano a corrente alternata. Poi Calvino si fa convincere ad affrontare il tema: il rapporto tra letteratura e vita, tra scrittura ed esistenza. E Calvino, con la precisione che gli è propria, parla di uno straordinario sforzo di autocostruzione che consisteva «nel voler far coincidere ad ogni passo la vita con la letteratura… Tutto quello che faceva – il lavoro editoriale duro, lo studio assiduo, la traduzione e la scrittura creativa costanti – erano tanti schermi dentro cui ingabbiare la sua sofferenza».
Quando Davico interroga Calvino (vedi il suo Incontri con uomini di qualità, Il Saggiatore 2013) siamo all’inizio degli anni Sessanta. Pavese è morto suicida il 27 agosto del 1950, esattamente settant’anni fa, all’Hotel Roma, in piazza Carlo Felice, a Torino. A ribadire l’equazione di Calvino, Pavese aveva annotato poco tempo prima: non scriverò più, il che equivaleva a dire, non vivrò più. Poi, più o meno come Majakovskij, aveva lasciato un messaggio, una richiesta di perdono (perdono a tutti e a tutti chiedo perdono) che si chiudeva con una sorta di strizzata d’occhio: non fate troppi pettegolezzi. La sua era una morte iperletteraria.
Con La bella estate Pavese aveva vinto il Premio Strega nel 1950, ma il successo non era bastato a cambiare il corso degli eventi. Il libro si compone di tre racconti lunghi: La bella estate, appunto, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole.
Quest’ultimo è del ’49 e mette in scena un suicidio. Non occorre cercare paralleli con la vita reale, anche se saltano agli occhi. Clelia, l’io narrante, torna a Torino (che è la sua città) e va in albergo dove avvengono poi molte cose… L’avventura di Pavese dura poco meno di un ventennio. Si laurea con una tesi su Withman non senza contrasti: il relatore aveva trovato l’impianto critico troppo crociano e dunque sgradito al Regime. Lo aveva aiutato Leone Ginzburg e, a farla breve, cambiato relatore, si era laureato. Intanto aveva cominciato a tradurre americani ed inglesi (Melville, Dickens, Anderson… la lista alla fine risulterà lunghissima), nel ’36, aveva pubblicato, con le edizioni di Solaria, la sua prima raccolta di versi: Lavorare stanca. Scrivendo a Carlo Muscetta, Leone Ginzburg parlò del «più bel libro di versi uscito in Italia a rivelare un poeta nuovo dopo La via del rifugio “. Trent’anni dopo Gozzano e non è un caso se Ginzburg aggiunge l’esclamazione: questo curioso Piemonte! Ma il giudizio di Ginzburg implicava anche uno sguardo più ampio, che escludeva gli ermetici e Ungaretti in particolare da un possibile confronto. La raccolta, comunque, non ebbe al momento nessun riscontro critico e fu presa in considerazione solo più avanti quando Pavese pubblicò Paesi tuoi (1941), iniziando la sua carriera di narratore. Intanto aveva sofferto per un anno il confino a Brancaleone Calabro. Antifascista e poi iscritto al Partito comunista era particolarmente attento alla storia degli uomini. Si è detto che Paesi tuoi è uno dei testi fondamentali del neorealiamo, ma la tela di Pavese è più complessa e non si lascia tanto facilmente racchiudere in una formula. Bisogna infatti tener presente anche il Pavese mitologico dei Dialoghi con Leucò e la secca esplorazione di un mondo del già citato Tra donne sole.
Il Piemonte grazie a Pavese assumeva una precisa connotazione letteraria, diventava la sua piccola America. Parlando di Sherwood Anderson, Pavese aveva ricordato le sue «dolorose e pensose e risolutive rappresentazioni di vita moderna, insieme elementari e complicatissime, cerebrali e illetterate, belle di una bellezza che supera la pagina scritta». C’è da pensare che, ragionando di Anderson, Pavese ponesse anche le basi della propria poetica dove vita e scrittura, come si è visto, si intrecciano senza fine.
E si sa che dalla vita Pavese ebbe molte delusioni, specie in amore, da Tina Pizzardo (la donna con la voce roca) a Fernanda Pivano, da Bianca Garufi a Romilda Bollati e Constance Dowling. Sono vicende raccontate molte volte di cui c’è ampia traccia anche negli epistolari. Einaudi decise di ripubblicare tutto Pavese nel 1968, dedicandogli una collana con la copertina grigia, ma intorno a lui l’attenzione era cresciuta quasi subito dopo la tragica scomparsa. A Torino, nei primi anni Cinquanta, si stampava una rivista, Questioni, diretta da Mario Lattes e Oscar Navarro. Nel numero 2 (aprile 1954) un lettore chiede che si parlasse di Pavese e del messaggio che lasciava ai giovani. Era consapevole del fatto che un suicida può anche trasmettere un messaggio ambiguo, ma lui restava convinto che Pavese, come scrisse Piero Jahier, fosse in realtà un maestro. Gli rispose Armanda Guiducci in un articolo intitolato proprio Pavese eigiovani dove si ricordava che i critici insistono sulla poesia e sulla narrativa di Pavese, al di là della sua tragedia esistenziale. «Il messaggio significativo che Pavese ha lasciato ai giovani si può formulare così: vivere seriamente e seriamente riuscire scrittore autenticamente nuovo è diventato estremamente difficile». Insomma la scrittura si paga di persona, anche se non è certo il suicidio la via segnata. Di recente Gian Carlo Ferretti ha dedicato un ampio studio al Pavese editore e al suo cospicuo contributo alla costruzione del catalogo Einaudi, per esempio progettando con De Martino la celebre collana viola dedicata all’antropologia. Di Pavese Giulio Einaudi non parlava volentieri e se gli chiedevi qualcosa preferiva non rispondere. Un suicidio non si accetta mai a cuor leggero, nemmeno settant’anni dopo.