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 2020  agosto 27 Giovedì calendario

La quarta dimensione della Russia di Navalnyj

Appoggiato al muro grigio di una delle quattro stanze del suo ufficio, con le mani sempre in tasca e quel maglione a collo alto, Aleksej Navanyj sembrava uscito in ritardo da un film sulla gioventù bruciata, quel giorno di febbraio 2012 a Mosca. E invece era in anticipo sul potere nel tentativo sproporzionato di conquistare un pezzo di gioventù della Russia putiniana, e accenderla di rabbia politica e indignazione contro il Cremlino. Attorno, con le teste chine sui computer, lo stato maggiore del suo movimento cuciva in silenzio la rete degli attivisti dispersi nel Paese: erano poco più che ragazzi, tutti sotto i trent’anni, molti volontari, qualcuno venuto dalle Russie più lontane per giocare la partita impossibile della sfida alla nomenklatura di comando. In un angolo, su una sedia, la borsa del galeotto sempre pronta per l’avvocato laureato a Mosca – con un anno passato a Yale – e trasformato in nemico pubblico numero 1 di Vladimir Putin, abituato ai fermi di polizia durante le manifestazioni, ai sequestri nei cellulari con le sbarre prima dei comizi, costretto da dieci anni a entrare e uscire dalle galere, tra le grida dei suoi seguaci: ” Pozor “, vergogna.
Per chi era abituato al vecchio mondo sovietico, in quelle stanze vicino al Kolzò (l’anello che circonda il centro di Mosca) si consumava una metamorfosi in pochi metri quadrati: il passaggio storico dal dissenso all’opposizione. Come se il vecchio mondo, che per più di settant’anni aveva visto gli intellettuali critici impotenti e isolati di fronte all’onnipotenza totalitaria del sistema bolscevico, fosse naufragato per sempre lasciando nascere politicamente una nuova generazione post-sovietica, capace di credere davvero al cambiamento di regime e alle promesse democratiche, e di venire allo scoperto con le sue accuse al potere. Eravamo andati a cercarla, quella generazione, insieme con Nicola Lombardozzi, corrispondente per anni dalla Russia, e con Fiammetta Cucurnia, che conosce da sempre Mosca palmo a palmo, per scoprire metodi di lotta, parole d’ordine, tattiche, ambizioni e paure: senza pensare che questa sfida potesse finire in una tazza di tè col veleno, nello spazio sospeso di un volo aereo dalla Siberia alla capitale.
Navalnyj ci aveva spiegato la sua personale metamorfosi. Aveva iniziato comprando poche azioni di grandi società russe finite in mano agli oligarchi legati al Cremlino, per poter andare in assemblea dopo aver letto i bilanci, facendo pubblicamente le pulci alla gestione: e soprattutto rilanciando tutto – dati, prove, accuse, risposte, filmati – sul suo blog, immediatamente divorato dalla passione popolare per la denuncia della corruzione e degli sprechi di Stato. «È stato a quel punto – spiegava – che il potere ha incominciato a perdere l’equilibrio. Non era abituato a questa specie di show quotidiano contro la malversazione, non sapeva come contrastarlo. E io mi sono trovato all’improvviso a far politica, quasi senza accorgermene». È accaduto il giorno in cui, visti i continui riferimenti che Navalnyj nella sua campagna faceva a Putin, una radio gli ha chiesto che cosa pensasse del partito del leader, Russia Unita: “un partito di ladri e di malfattori” è stata la risposta scaricata nel microfono e immediatamente rilanciata ancora incandescente nell’universo dei blog e dei social network, dove ha continuato a rimbalzare per mesi, arrivando in tutte le case e negli uffici.
Dunque, si poteva. Il Cremlino era colto in contropiede, su un terreno di gioco che non conosceva. Dall’altra parte del campo Navalnyj scopriva di avere in mano la chiave di quella che coi suoi uomini chiamava “la quarta dimensione”, un universo parallelo perfetto per chi aveva poco più di trent’anni, come lui in quel momento. «Noi abbiamo capito subito che non potevamo usare nessun mezzo fisico, nessuno strumento materiale per farci conoscere – spiegava – perché la polizia è abituata a spiare le tracce concrete dei corpi e degli oggetti. Dunque niente manifesti, volantini, giornali, perché gli apparati controllavano tutto. Allora è stato giocoforza spostarci in uno spazio sconosciuto, tutto virtuale, in Rete. È appunto la quarta dimensione, dove loro non possono seguirci perché hanno una cultura materiale, un ad destramento corporale. Non sanno che fare con i ragazzi nati col web, che Putin ha definito “criceti del computer"».
Coi criceti la denuncia dell’opposizione corre, scava, allarga cunicoli sotto il territorio presidiato del potere. In rete il movimento di Navalnyj prospera, cresce dentro una valanga di clip, denunce firmate, sberleffi social, nomi e cognomi, accuse, notizie, appelli e appuntamenti per sit-in improvvisi, manifestazioni mordi e fuggi, cortei e comizi. Internet sfugge al controllo, Mosca è ormai tutta wireless, troppo tardi. Ma succede qualcosa di più, del tutto imprevisto. Il coraggio diventa contagioso, qualcuno comincia a trapiantare il metodo Navalnyj in altri campi, con obiettivi diversi, grandi o piccoli. Attorno all’esempio dell’avvocato-blogger spuntano opposizioni simboliche, testimonianze testarde, resistenze agguerrite, gruppi di pressione, interessi organizzati, associazioni che chiedono il rispetto di un loro diritto collettivo. Guidato da Lombardozzi nella periferia moscovita, sono andato a cercarli: Oleg Kashin, il giornalista di Kommersant che ha denunciato in un articolo il raddoppio autostradale che minacciava di distruggere il bosco di Khimki e la sera dopo davanti a casa ha trovato due persone in attesa con un mazzo di fiori dov’era nascosto un tubo di ferro con cui lo hanno tramortito pestandolo più di 50 volte; Evgenija Cirikova, che a 35 anni non aveva mai fatto politica, ma quando ha visto gli alberi di Khimki col segno della vernice rossa che li condannava a morte si è sdraiata davanti ai bulldozer, trascinando con sé un vero movimento di disobbedienza; Aleksej Massolov, che ha creato una radio di denuncia ecologista contro gli scempi ambientali; Vikton Klepikov, che ha fatto nascere gli “Automobilisti organizzati”; Fedor Eziev, che ha raccolto più di 6 mila iscritti con il sito “La buca rossa”, dove si denunciano i quartieri e il municipio per la pessima manutenzione delle strade; Dmitrij Volvo, che a 29 anni ha obbligato con le sue ingiunzioni le banche alla trasparenza di bilancio.
Poi i disobbedienti anonimi, gli sconosciuti che una sera hanno proiettato il teschio con le tibie incrociate sulla parete della Casa Bianca moscovita, gli artisti di strada di “Vojna” che nelle loro performance hanno incominciato a dar fuoco a finte auto di polizia, i dieci ragazzi che al Museo di biologia hanno improvvisato scene di vero sesso per far festa “all’Orsetto Medvedev”, le centinaia di auto col secchiello di plastica incollato al tetto per scimmiottare, deridendola, l’arroganza del potere che correva (e corre) per Mosca facendosi strada coi lampeggianti.
Forme ingenue di protesta, che sono però il segno di una qualche autonomia della società rispetto al potere. Navalnyj quella società l’ha sollecitata, spinta, provocata. Con Konstantin Kalmykov, di 29 anni, ha aperto il sito di “RosPil” (che vuol dire segatura, lo scarto sporco che resta dopo i lavori), per controllare come vengono spesi i soldi dello Stato negli appalti pubblici, visto che ogni anno su cinque trilioni di rubli uno viene rubato. I cittadini hanno imparato in fretta a mandare le loro denunce al sito che le pubblicava via via. Poi 93 avvocati controllavano la pratica, indagavano, e se c’era corruzione scattava la denuncia: intanto si apriva un portafoglio elettronico che raccoglieva ogni volta contribuiti per pagare le spese, aggiornando costantemente il rendiconto. Navalnyj quel giorno chiese il saldo generale della segatura di corruzione. Eccolo: all’inizio di febbraio 2012 il sito aveva recuperato più di 40 miliardi di rubli, cioè un milione di euro. Spese documentate: cinque milioni e mezzo di rubli, più o meno 75 mila euro.
Alla fine, andiamo con Navalnyj in quello che lui chiama il suo secondo ufficio, volante. È un Internet caffè vietnamita, sulla Nikoloyamskaja, dove il tavolo del dissidente è giù in fondo alla sala, e quando la porta si apre parte la musica di Magic moments, come se in piena Mosca si entrasse davvero in un altro mondo. Prima di andarcene, chiediamo a Navalnyj se nella “quarta dimensione” non ha paura. Allarga le braccia: «Non so quante volte sono entrato in galera. Mia moglie vive come il mio doppio, ha le chiavi di tutto, sa dove sono le cose, conosce le urgenze, sa di chi può fidarsi, se fermano me andremo comunque avanti con lei». Fino a quando, fino a dove? «Finché non ci saranno elezioni davvero libere in Russia». Altrimenti? «La Rete esalta e invecchia, mangia e consuma. Un giorno la gente si stuferà anche di noi, se le cose non cambiano. Saremo stati utili ugualmente, ma non si può essere eroi di Internet per sempre».
Un mese dopo, quando ho intervistato Putin nella dacia di Novo- Ogariovo, il villaggio blindato della nomenklatura, gli ho chiesto se si impegnava a non usare dopo le elezioni il pugno di ferro contro le opposizioni. C’è stata una pausa, poi ha risposto: «Ma di che cosa hanno paura? Io rispetto la piazza, parlo con tutti. E la nostra strategia è quella del dialogo. Perché dovrei usare la forza?». Un cameriere silenzioso serviva il tè.