Corriere della Sera, 27 agosto 2020
Non dimentichiamo Cesare Pavese
Oggi ricorrono i settant’anni dal suicidio di Cesare Pavese nell’Hotel Roma di Torino, ed è facile tessere le lodi ammirate del grande intellettuale, direttore editoriale di Einaudi, traduttore, scrittore. Pochi ricordano che Pavese ha avuto fieri detrattori in vita e in morte (e non solo per il suo noto caratteraccio). Il che può apparire incongruo oggi, in un tempo facilissimo alla cieca glorificazione non solo postuma. Giansiro Ferrata, amico di Vittorini e di Sereni, nel 1949 sull’Unità parlò del protagonista de La casa in collina come di uno «scialbo e astratto moralista con qualche raro palpito di pietà o di comprensione». Nel clima postbellico di esaltazione dell’esperienza partigiana, non piaceva l’inquietudine di fronte ai morti repubblichini. Quando nel 1952 uscì Il mestiere di vivere, Davide Lajolo sempre sull’Unità accusò il curatore Italo Calvino di voler enfatizzare, con quel diario postumo, la componente più torbida della personalità di Pavese. Proclamando senza mezzi termini: «Il mestiere di vivere non è da leggere», per il «piglio di cinismo… di maleducazione…, di odio e di disprezzo usato soltanto per velare la sua estrema malinconia, la sua angoscia disperata, il suo suicidio» (proprio così!). Senza preclusioni ideologiche, Alberto Moravia nel ‘54 definì il diario il «libro penoso» di un «decadente di provincia»: come D’Annunzio era entrato nel mito grazie alle donne e al lusso, così «il povero Pavese “per ingenuità” non trova altra via, per assurgere a mito, che il suicidio» (sic!). Per motivi opposti a quelli di Lajolo, in un’intervista del 1972 (la si trova online), Pasolini espresse il suo «no» a Pavese, «scrittore medio se non mediocre», popolare e provinciale, il cui impegno politico e letterario era talmente «corretto» da non «suscitare grandi problemi a nessuno». Avrà avuto pure ragione, Pasolini, ma avrebbe dovuto aggiungere: a nessuno tranne che a se stesso. È forse questo il paradosso che gli sopravvive.