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 2020  agosto 26 Mercoledì calendario

Lo zio Cesare (Pavese)

«È morto lo zio Cesare. Manda le condoglianze». Ero a casa dei miei nonni, a Sassello. Ricordo come fosse oggi il postino che allunga la cartolina scritta da mio padre. Avevo quindici anni e non riuscivo a capacitarmi che un uomo in salute di quarantadue anni potesse morire così, all’improvviso. Mia sorella venne a sapere della tragedia in maniera ancora più diretta: rientrando con i miei zii da Serralunga, vide un assembramento sotto casa, all’ora di cena. Sul momento venne messa a dormire in un’altra stanza, ma il giorno dopo mia zia dovette farsi carico di spiegare a una bambina di dieci anni che cosa fosse successo veramente.
I miei zii abitavano in via Lamarmora 41, a Torino, i Pavese l’isolato accanto, al civico 35. Mi capitava spesso di andare da loro, perché Guglielmo (il fratello di mio zio) aveva sposato Maria, la sorella di Cesare. Per me e mia sorella Pavese è sempre stato «lo zio Cesare». Il primo della famiglia a conoscerlo era stato mio padre Aldo, che era savonese, ma nel 1924 stava prestando servizio militare a Torino. Aveva vent’anni ed era un pittore e giornalista per alcune testate, tra cui Il Secolo XIX. Lo zio Cesare invece all’epoca aveva sedici anni e frequentava il liceo D’Azeglio, già allora determinatissimo a diventare uno scrittore. Mio papà aveva una cultura letteraria nemmeno lontanamente paragonabile alla sua, eppure – complici quei sei anni d’età che li differenziavano – il giovane Cesare sembrava tenere molto al suo parere. Al punto che gli spediva in lettura i lavori giovanili, sollecitando un suo giudizio e dando vita a fitti carteggi. Un’abitudine che sarebbe proseguita fino ai Dialoghi con Leucò.Aveva un carattere molto chiuso. Spesso si ritirava nel suo studio e lì trascorreva giornate intere, a volte saltando i pasti. Quando era a tavola iniziava chiacchierando con noi bambine, chiedendo della nostra vita e della scuola, ma dopo poco si ammutoliva, estraniandosi. Era taciturno con tutti, comprese sua sorella e le nipoti. Io e mia sorella lo osservavamo di sottecchi, con un misto di curiosità e soggezione, mentre mangiava con il capo chino e gli occhi nel piatto.Quando fu arrestato per antifascismo scriveva spesso a casa. Nonostante la prigionia e il confino, la malattia e l’isolamento, ricordo come nelle lettere non avesse perso il suo cinico senso dell’umorismo. In una missiva da Brancaleone Calabro del 17 dicembre 1935 scriveva a mia zia: «Non c’è niente di più bello che sparire dalla circolazione quando si stampano delle poesie; non fosse che per creanza tutti sentono il dovere di dirne bene e di comperarle». Non potevamo saperlo, ma alla fine le cose per lui sarebbero andate veramente così.
Conservo il biglietto dopo il suo funerale, listato a lutto. Riporta una delle sue foto che amo di più – lui di profilo mentre fuma una sigaretta – e una delle più belle frasi dai Dialoghi con Leucò: «L’uomo mortale, non ha che questo d’immortale, il ricordo che porta e il ricordo che lascia».