Corriere della Sera, 26 agosto 2020
Il silenzio di Venezia
«Fede de Cristo eh / la xé cristiana ooh / quela dei turchi eh / la xé pagana ooh / e spiegaremo eh / bandiera rossa ooh / bandiera rossa eh / segno del sangue ooh...»
Nel silenzio assoluto, definitivo, a un certo punto pare quasi di sentire lontano «El canto dei battipali». La dolorosa nenia dava il ritmo ai possenti manovali, i veri «fondatori» della Serenissima, che colpo su colpo ficcavano nel fango della laguna i pali di legno sui quali era posata la città. L’unico rumore, col canto dei panettieri, che si poteva sentire nella Venezia più antica. Prima dell’orda del turismo di massa, dei petardi dei teppisti, dei fastidiosi toc-toc-toc-toc dei trolley spropositati sui masegni delle calli, delle comitive straniere pilotate coi megafoni elettronici, delle grida degli «intromettitori patentati» («Scusi, che mestiere fa?» «Mi intrometto») decisi a rimorchiare giapponesi o russi, dello scatarro dei «moto-topi» del trasporto lagunare, delle sgasate dei motoscafi, degli strilli delle slave travestite da Veronica Franco («Foto, fate foto con cortigiana originale veneziana!»), dei barriti dei barchini truccati che sfrecciano in bacino sparando musica dagli amplificatori a palla.
Il silenzio. Questo è il tema dominante di «Molecole» di Andrea Segre, il film Rai scelto per la pre-apertura, il 1° settembre, della 77esima Mostra cinematografica di Venezia. Il silenzio e le assenze. Nel tempo del Covid-19. La prima è l’assenza del padre Ulderico, un veneziano di Cannaregio che si era trasferito per studiare a Padova e lì era rimasto fino alla morte, dovuta a un soffio al cuore: «Era uno scienziato, studiava i movimenti delle molecole» e in particolare «i radicali liberi, molecole con elettroni solitari, che in quanto tali sono alla ricerca di altri elettroni con cui accoppiarsi».
La seconda è l’assenza di tutto ciò che il mondo intero associa da anni a Venezia: il caos e il fascino di una città diversa da tutte le altre, l’eleganza delle gondole nei canali («nera, slanciata, il modo in cui si muove, lieve, senza rumore alcuno, ha qualcosa di strano, una bellezza da sogno, ed è parte integrante della città dell’ozio, dell’amore e della musica», scrisse Hermann Hesse), i bambini incantati da tutti quei colombi che si tuffano a folate sui chicchi di mangime venduti ai baracchini, i vaporetti stracarichi d’una umanità di mille razze e mille lingue e mille maschere...Non c’è un solo colombo, neppure uno, nella Piazza San Marco infinitamente vuota ripresa dal regista nell’inverno virale. Niente chicchi niente bambini, niente bambini niente colombi. Solo due cocai, i gabbiani dalla zampa gialla. Affamati. Spaesati. Sullo sfondo, decine di sedie ammonticchiate di uno dei celeberrimi caffè, sbarrati, dove secoli fa venne servita la prima volta una tazza della «negra bevanda» portata dall’Oriente. Sotto un portico un’aspirante cantante lirica rumena, Alexandra, rimasta intrappolata a Venezia dalla pandemia, rompe il silenzio intonando «Lascia ch’io pianga» di Händel. Sa che c’è la quarantena, non potrebbe esser lì. Il canto, però, è vita.
La laguna piatta
Nel silenzio assoluto, a un certo punto pare quasi di sentire lontano «El canto dei battipali»
Andrea Segre era lì a Venezia per «raccontare le due grandi tensioni della Venezia di oggi: il turismo e l’acqua alta». Insediatosi a casa del fratello di papà alla Giudecca, il 22 febbraio 2020 era pronto a partire: «Tutti noi non potevamo immaginare che cosa stava per succederci».
La quarantena. Il lockdown. Una maledizione. Eppure anche un’occasione unica, per un documentarista, per vedere Venezia, compresa la basilica di San Marco, in quel momento di sospensione. Così come possiamo immaginarla deserta ai tempi lontani della peste. Una tragedia. Ma anche, per certi versi, un momento magico. Niente più moto ondoso, niente sgasate di barchini, niente mastodontiche navi da crociera trainate da rimorchiatori. Laguna piatta. Una tavola d’olio. Azzurra. Nell’acqua solo il leggerissimo «pluff» del remo di Elena, l’erede di una famiglia di grandi della «voga veneta» che nel vuoto del Canale della Giudecca spiega come dà lezioni ai turisti: «You have to pull just a little bit, in order to keep the oar into the “forcola”, the rowlock...». È incantata dall’assenza del moto ondoso: «Saranno millenni che il Canale della Giudecca non era così. Meraviglioso. Meraviglioso».
Dietro le finestre i bambini passano il dito sul vetro appannato e guardano fuori, il campiello dove «prima» giocavano. Qualche anziano professore ricorderà forse la lettera mandata nel 537 ai primi «veneziani» da Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus colpito da come costruiscono la loro casa «simile in qualche modo ai nidi degli uccelli acquatici. E infatti ora appare terrestre ora insulare»... Sospesa tra la bellezza e l’incubo: «Il mare difende e minaccia, dà vita e morte: non c’è soluzione di continuità, non c’è una risposta definitiva», sospira Segre, «Forza e debolezza non sono opposti per Venezia: saper continuare a cercare un equilibrio quasi impossibile con l’acqua, con la natura, con la paura». Come suo papà. Sospeso nell’incerto equilibrio stabilito dal destino («Credo che lo studio sulle molecole fosse il modo per provare a capire il funzionamento di quel suo destino») e da quel soffio al cuore: una vita trascorsa a «imparare a dialogare con l’inevitabile». Senza mai rassegnarsi, però...