la Repubblica, 25 agosto 2020
ReiThera, l’azienda italiana che ha prodotto il vaccino
Duecento gruppi al lavoro, le più grandi e bellicose multinazionali in gara per il bene più ambito al mondo: il vaccino. Decine i miliardi già investiti, con Cina, Russia e Stati Uniti che cannoneggiano con annunci roboanti per vantarsi di essere vicini all’obiettivo.
E poi c’è ReiThera. Fra prati e pini dell’agro romano, cento biologi, 35 anni di età media, si aggirano in laboratori lindi e spaziosi, disturbati solo dagli operai che stanno rinnovando un’ala dell’edificio. Bisogna allargare l’officina farmaceutica, dove un nuovo bioreattore da 3mila litri sostituirà il vecchio da 200, per realizzare l’alchimia di un virus di gorilla iniettato nel corpo di un uomo per sconfiggere un virus di pipistrello. La macchina infialatrice è già in moto. Le boccette transitano, si riempiono, si tappano. Le prime 90 dosi sono partite dall’azienda di Castel Romano e arrivate allo Spallanzani di Roma, dove è in programma la sperimentazione del vaccino italiano, o meglio dell’agro romano.
Dal freezer a meno 80 dello Spallanzani manca da ieri una dose. È nel corpo della prima volontaria, scelta fra i 4mila cittadini disposti a partecipare ai test. «Sono contento che tante persone si fidino di noi» dice Stefano Còlloca, chief of technology di ReiThera. «Credo nella scienza italiana» ha confermato lei, nel concedere il braccio alla puntura.
Il gruppo di Castel Romano potrà sembrare giovane e spensierato. Ma poggia su un team di fondatori che ha vent’anni di esperienza nel mondo. «La nostra è ricerca d’avanguardia» conferma Colloca. «Durante il lockdown non ci siamo fermati un attimo» racconta Antonella Folgori, presidente della biotech. «Lavoriamo a ritmi estenuanti con ferie al minimo. Vista l’età giovane, molti di noi hanno figli piccoli. Non è facile spiegargli perché mamma o papà tornino così tardi» racconta Marco Soriani, project manager. «Speriamo che da grandi apprezzino l’importanza di quel che facciamo». Folgori è ottimista: «La piattaforma che usiamo è stata già testata con altri candidati vaccini contro diverse malattie infettive».
Con il gruppo di Oxford, ad esempio, i ricercatori dell’agro romano hanno lavorato al vaccino della malaria. Con i National Institutes of Health americani hanno messo a punto un vaccino per Ebola: il progetto a cui lavoravano con l’Istituto Sabin quando è arrivato il coronavirus. Epatite C, Hiv e un vaccino contro il cancro sono altri nemici con cui si sono misurati, puntando su un’arma unica, da adattare ai vari campi di battaglia: un virus di gorilla. Si tratta di un adenovirus che ai primati fa venire un raffreddore. Agli uomini, se opportunamente sabotato, non fa nulla. Arrivando da un animale, non viene riconosciuto e passa sotto al radar del sistema immunitario.
Viaggiando nel sangue, infetta le nostre cellule e come un cavallo di Troia vi lascia le sue truppe: una sequenza di geni che i ragazzi dell’agro romano avevano aggiunto in precedenza al Dna dell’adenovirus. E che ordina alle cellule di assemblare la proteina spike: la punta della corona che scatenerà la risposta del sistema immunitario.
Tecniche evolute di bioingegneria. Ma prima c’è stato un problema assai più pratico da risolvere. Dove si trova un adenovirus di gorilla? «È una specie protetta. Impossibile ottenere pelle o sangue» racconta Colloca. Che con uno zoo tedesco alla fine ha raggiunto un compromesso: un campione di feci. Da lì è stato estratto l’adenovirus sfruttato per i vaccini di ReiThera da 15 anni. All’epoca l’azienda si chiamava Okairos. Fu acquistata dalla Glaxo nel 2013. «Ma non ci distribuimmo neanche un dividendo» ricorda Colloca. «Ripartimmo subito con ReiThera». Oggi l’azienda può produrre migliaia di dosi, ma nel nuovo bioreattore se ne comporranno milioni. «Con tutta la prudenza del caso – anticipa Folgori – potrebbero essere disponibili entro la metà del prossimo anno».