25 agosto 2020
In morte di Arrigo Levi
Marzio Breda, Corriere della Sera
È il 12 aprile 1961. L’Unione sovietica lancia nello spazio Gagarin, pioniere dei cosmonauti. Quando si diffonde la notizia, Gaetano Afeltra, direttore dell’Informazione, edizione del pomeriggio del Corriere, telefona ad Arrigo Levi, corrispondente da Mosca per chiedergli entro le 11 un reportage. Il collega si mette a disposizione. Gira le strade della città, per coglierne il clima, e all’ora stabilita il suo servizio è pronto. Chiama Milano. «Gaetano, ho fatto il pezzo». «Lo hai scritto?» «Certo che l’ho scritto». «Bene, buttalo via». «Come, buttalo via?» «Buttalo via, ti dico, e parla, parla al microfono… ci vuole la sensazione della realtà, della cosa vissuta, dell’emozione. Ti passo gli stenografi. Mi raccomando, non leggere, parla».
Così Levi raccontava, con il suo sorriso ironico e mite, un certo modo di lavorare in via Solferino «sotto l’impero di Afeltra», come lui definiva quella stagione. Una lezione di giornalismo che non avrebbe dimenticato. Gli servirà, infatti, quando approda alla Rai, primo giornalista a coordinare e condurre in diretta un Tg (e diversi programmi d’approfondimento) senza declamare appunti preconfezionati, e infine al Quirinale, dov’è consigliere di Ciampi e Napolitano. Esperimento, quello di «buttare via» le bozze di discorsi — magari troppo laccati e perfetti — ed esprimersi invece a braccio, cui convertì Ciampi, che soffriva di agorafobia ed era abituato a prendere la parola in pubblico solo una volta l’anno per scandire la relazione annuale di Bankitalia, senza saltare né aggiungere una riga. Grazie al canone Levi, il timido ex governatore impara a spiegare con disinvoltura gli Arcana Imperii quirinalizi, rendendo i testi pianificati dalla squadra del Colle «un’emozionante cosa vissuta», avendone interiorizzato i contenuti. Comprese certe espressioni straniere, a volte utili per lasciarsi intendere meglio negli incontri internazionali.
Cosmopolita per vocazione e orizzonti mentali, garbato ed elegante nei modi come nella scrittura, Arrigo Levi padroneggia quattro lingue (nel senso che le parla e le scrive) e molte culture. Non è dunque un caso che, grazie alla lucidità e profondità delle sue analisi di geopolitica, sia uno dei rarissimi italiani a conquistarsi il rango di editorialista del Times e columnist di Newsweek.
Nato nel 1926 a Modena da un’agiata famiglia ebraica quando Mussolini vara le leggi razziali fugge con la famiglia in Argentina. E’ ancora adolescente, eppure ostinatamente refrattario a ogni forma di dispotismo. Perciò è fatale che anche nella Buenos Aires di Peron finisca in carcere, in quanto esponente di punta del movimento studentesco. Ed è da lì che, nel 1944, spedisce a «Italia libera», giornale del Partito d’Azione, il primo articolo della sua lunga carriera, siglato a.l. Con due minuscole, per non darsi arie.
Alla caduta del fascismo, rientra in patria, si laurea in filosofia e comincia febbrilmente l’approccio alla professione. Che interrompe (ma a metà) tra il 1948 e il ’49, quando si arruola volontario nelle brigate del Negev e prende parte al primo conflitto arabo-israeliano. Sarà l’occasione per cimentarsi, tra una battaglia e l’altra, nelle sue prime prove da war reporter, esperienza coraggiosa sulla quale indirizzerà resoconti limpidi e analisi sottili a quotidiani e riviste. Nel 1950 è per quasi un decennio a Londra, dove lavora alla Bbc e dove incontra la futura moglie, Lina.
Da quel momento sarà un ininterrotto susseguirsi di incarichi per diverse testate. Gazzetta del Popolo, Nazione, Carlino, Corriere (la parentesi più lunga), Giorno. Si sposta senza adombrarsi per la routine di qualche ruolo che gli viene assegnato, per esempio il «pastonista» politico da Roma. Pause brevi, comunque. Lo aspetta il lavoro da inviato speciale e da corrispondente dall’estero. Da Mosca, anzitutto, che lo incuriosisce. E da dove, ispirandosi al principio di «combattere i miti», specie quelli creati dai totalitarismi, dà voce al «popolo del silenzio»: i dissidenti. Memorabile il «poderoso colpo di sedere» che nel 1962 gli assesta per scherzo Krushev, stanco d’essere pedinato dal cronista italiano. E destinata a restare per i toni profetici l’intervista con il presidente cileno Salvador Allende, assediato dai caccia che rombano sulla Moneda a volo radente, alla vigilia del golpe di Pinochet. Come pure è indimenticabile la sua testimonianza sull’America «orfana del sogno di Kennedy» e ferita nella propria «vitalità morale e politica» dall’attentato di Dallas.
A parte le intermittenti esperienze televisive e i tanti saggi (26) che manda alle stampe, Levi tocca il vertice della maturità come direttore della Stampa. Nel novembre 1977 i terroristi uccidono il suo vice, Carlo Casalegno, e lui conferma in quella devastante occasione la sua saldezza nella fede democratica forgiata sui valori costituzionali. Sarà un caso, ma nel fondo in cui dà l’addio a Casalegno, steso a ciglio asciutto e quindi antiretorico, sembra tratteggiare il suo stesso autoritratto. Ne rammenta infatti la «lucidità critica, aperta, tollerante verso le idee degli altri, fossero anche i più estranei e ostili… Una dote di umanità che era anche principio ideologico e che coincide con l’idea stessa di una società civile».
Sergio Mattarella, nel salutarlo ieri ha citato la sua «passione civile, la cultura raffinata, il tratto umano affabile e signorile, il suo aver interpretato acutamente i grandi sommovimenti dell’età contemporanea». C’è dentro tutto, nel messaggio del capo dello Stato. Tranne un cenno a quel che irritava Levi della brutta deriva presa dalla professione (e che elevava a metafora di una certa Italia) e che quand’era entrato nell’estrema vecchiaia, senza però sentirsi vecchio, lo infastidiva fino all’indignazione. Cioè «le cose di bassa qualità, la sciatteria della scrittura, le reazioni demagogiche alle mode». Ecco la coerenza di Arrigo con se stesso e con la propria storia, chiusa a 94 anni nel rimpianto di molti. Segno che non era il solo a pensarla così.
***
Alberto Sinigaglia, La Stampa
Arrigo Levi è stato il più drammatico direttore della Stampa. Più di Alfredo Frassati, che il fascismo punì obbligandolo a lasciare la direzione e la proprietà del giornale che aveva fondato. Più di Filippo Burzio che, assunta la direzione alla caduta di Mussolini, fu condannato a morte dalla Repubblica di Salò e costretto alla clandestinità per salvare la pelle. Arrigo Levi aveva cominciato presto a vedersela con la vita e con la politica. Ragazzo ebreo, spinto dalla leggi razziali a rifugiarsi con la famiglia in Argentina, si salva da un regime ma ne assaggia un altro, quello di Perón, che lo mette in prigione solo per aver partecipato a una dimostrazione di studenti democratici.
Democrazia è il primo pensiero di Arrigo Levi quando nel 1973, a 47 anni, succede all’amico e coetaneo Alberto Ronchey, che l’ha assunto alla Stampa trasformando il popolare giornalista televisivo, collaboratore di Newsweek e del Times, nell’inviato di punta, autore della più lunga inchiesta tra i maggiori economisti del mondo.
Le sue «firme»
Per la prima volta in Italia, giovedì 3 maggio il direttore designato sottopone la propria nomina alla fiducia del colleghi in assemblea nelle redazioni di Torino, Roma e Milano collegate per telefono (un solo voto contrario, Vittorio Gorresio, grande cronista politico, indispettito «per non essere stato informato» o forse per non essere stato scelto). Nel breve saluto «Ai lettori» s’impegna a mantenere al giornale «la sua chiara e forte fisionomia di organo indipendente, democratico e antifascista, che ha partecipato a tutte le battaglie per lo sviluppo del Paese». Ne dovrà affrontare altre, come quelle in difesa delle leggi sul divorzio e sull’aborto.
Riceve una solidarietà internazionale oltre a quella immediata di Gianni Agnelli quando Gheddafi, prossimo azionista della Fiat, chiede all’Avvocato la sua testa e quella di Carlo Fruttero e Franco Lucentini per un elzeviro ironico sul colonnello dittatore. Ma la ferma difesa dello Stato democratico sfidato dal terrorismo delle Brigate rosse costa alla Stampa mesi di minacce, tre attentati e, il 16 novembre 1977, il primo assassinio di un giornalista: Carlo Casalegno, il vicedirettore culturale e politico. Per il direttore è un lutto personale, che segnerà per sempre la sua vita: non accetterà mai più di dirigere un giornale.
Eppure Arrigo Levi merita di essere ricordato per molto altro. Modenese cordiale, poliglotta, rapido, pragmatico, stenografo, dattilografo, è capace di scrivere un editoriale di due colonne in meno di un’ora. Scrive direttamente in inglese la rubrica per Newsweek. Mentre scrive lascia la porta aperta, risponde al telefono e a chi si affaccia continuando a battere sulla tastiera. Con il vicedirettore Giovanni Giovannini potenzia la presenza della Stampa in Piemonte con redazioni in ogni città. Inaugura la prima teletrasmissione di un giornale del Nord a Roma, dove La Stampa esce da rotative che girano simultaneamente a quelle di Torino. Avvia la rivoluzione tecnologica che traghetterà il giormale dal piombo fuso della tipografia al computer.
Offre la spalla domenicale della terza pagina alla rubrica «Controcorrente di Indro Montanelli», appena licenziato dal Corriere della Sera diretto da Piero Ottone. Arruola tra i collaboratori Leonardo Sciascia, Giorgio Bassani, Carlo Cassola, Antonio Ghirelli e due firme che nella storia della Stampa occuperanno un posto speciale: Primo Levi e Norberto Bobbio. Istituisce una pagina dell’arte. Nel 1975 vara Tuttolibri il primo settimanale italiano totalmente dedicato all’editoria.
Onestà e senso morale
Il 7 settembre 1978 Arrigo Levi firma La Stampa per l’ultima volta. Dal «giornalismo come missione» può ritornare al «giornalismo come mediazione, anzi come arte della mediazione». Lo fa da autore televisivo, da scrittore di saggi sull’Europa, sull’universo arabo-islamico, sugli operatori di pace, su temi filosofici, religiosi, spirituali. Lo fa per 14 anni al Quirinale, riservato consigliere di due Presidenti della Repubblica: Carlo Azeglio Ciampi (l’ultima inchiesta la condusse per preparare il suo viaggio in tutta l’Italia) e Giorgio Napolitano.
Gli italiani meno giovani ricorderanno Arrigo Levi «mezzobusto» del Telegiornale Rai, efficace conduttore di collegamenti internazionali per la Guerra dei Sei giorni e per l’invasione sovietica di Praga. O sorrideranno ricordando le imitazioni che ne faceva Alighiero Noschese aumentando la sua popolarità. Chi ebbe la fortuna di essergli collega ricorderà la sua umanità, il suo coraggio, la sua idea di informazione interpretata come pubblico servizio, da svolgere con onestà e senso morale, per favorire la crescita di una società italiana illuminata e matura.
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Paolo Garimberti, la Repubblica
«Ma sa che Levi scrive meglio in inglese che in italiano?». La battuta di Gianni Agnelli fotografava perfettamente, con l’abrasiva lapidarietà dell’Avvocato, il cosmopolitismo giornalistico, oltre che la versatilità linguistica, di Arrigo Levi. Che cominciò a scrivere per un giornale in Argentina, continuò a Modena, passò per Israele, Londra, Mosca, Roma, Torino, dove culminò con la direzione della Stampa , per finire, dopo altri passaggi e altre testate, al Quirinale come consulente internazionale, animato da una sana passione per la Repubblica, di due Presidenti, Ciampi e Napolitano. Passando dalla carta stampata alla televisione, e viceversa, con la naturalezza e la leggerezza con le quali ballava il tango, che aveva imparato a Buenos Aires e del quale era rimasto un grande cultore.
La battuta dell’Avvocato (che Arrigo, venutone a conoscenza, liquidò chiedendosi se era un complimento o una critica) era riferita alla “column” che Levi teneva periodicamente su Newsweek negli anni 70, quando il settimanale americano vendeva più di 3 milioni di copie ed era considerato uno dei giornali più influenti al mondo. I suoi commentatori americani, come Stewart Alsop o George Will, facevano tremare la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato. Nell’edizione europea aveva alcuni collaboratori, scelti tra i giornalisti più noti e autorevoli a livello internazionale e tra questi, unico italiano, c’era Levi.
Ma Arrigo scriveva bene anche in italiano. E molto velocemente. Aveva un diploma in stenodattilografia e batteva sulla tastiera con una ritmo davvero impressionante, tanto che il suo grande e burbero amico Alberto Ronchey diceva: «Riscrive tre volte un articolo nel tempo che io impiego a scriverne uno». Era un “natural”, come dicono gli americani, un vero predestinato. Aveva cominciato poco più che adolescente da Buenos Aires, dove la sua famiglia era emigrata da Modena nel 1942 in seguito alle leggi razziali, inviando corrispondenze per il giornale del Partito d’Azione, L’Italia libera .
Ma il suo mentore era stato Guglielmo Zucconi, il padre di Vittorio (e Arrigo, in un intreccio di carriere e di amicizie, ne fu a sua volta il direttore quando Vittorio, corrispondente da Washington per la Stampa , raccontò in maniera straordinaria lo scandalo del Watergate che travolse Richard Nixon). Tornato a Modena dall’esilio argentino, Levi lavorò per Unità Democratica , diretto da Guglielmo Zucconi. Che, quando Arrigo partì per Israele e si arruolò nelle brigate del Negev, durante la prima guerra arabo- israeliana, gli chiese di inviare corrispondenze per la Gazzetta di Modena , della quale nel frattempo Zucconi era diventato direttore.
Londra e la Gazzetta del Popolo , all’inizio degli anni 50, furono altri due passaggi fondamentali nella formazione del giovane Levi. A Londra lavorava per la Bbc e conobbe Lina, poi diventata sua moglie. Divennero una coppia affiatata, oltre che molto divertente per chi abbia avuto il piacere delle loro compagnia, in cui talvolta sembrava che Lina tenesse a bada quell’istintiva monellaggine che c’era in Arrigo. Il quale, oltre alla Bbc, aveva un altro lavoro a Londra: scriveva per la Gazzetta del Popolo , il giornale che allora a Torino rivaleggiava con la Stampa e aveva una tradizione di grande qualità nei reportage internazionali.
La consacrazione di “grande firma” arrivò con le corrispondenze da Mosca, tra il 1960 e il 1962, dove Levi imparò la sua sesta lingua e accumulò il materiale per scrivere il suo libro forse più importante e impegnativo tra i tanti da lui prodotti: Il potere in Russia , che sarebbe diventato una sorta di Bibbia per chiunque dovesse raccontare gli oscuri rapporti di forza dentro le mura del Cremlino. Levi ci aveva lavorato con il suo amico Michel Tatu di Le Monde , considerato il più attendibile cremlinologo dell’epoca. E per una coincidenza forse non casuale, in Francia uscì quasi contemporaneamente un libro dal titolo molto simile, Le Pouvoir en Urss . «Arrigo e io eravamo come gemelli», mi disse una volta Tatu, diventato nel frattempo capo del servizio internazionale del suo giornale. Ma anche in quella occasione Levi era stato più veloce del suo amico: era stato a Mosca due anni contro i sette di Tatu, ma il suo libro uscì un anno prima.
L’esperienza televisiva, dopo un passaggio al Giorno , ne fece uno dei volti più noti e di alto gradimento. Anche perché fu il primo giornalista a condurre un telegiornale, quello delle 20 diretto da Fabiano Fabiani, mentre fino ad allora il tg veniva presentato e letto da uno speaker. E nel giugno 1967, quando ci fu la Guerra dei sei giorni tra arabi e israeliani, Levi chiese di essere esonerato dalla conduzione: temeva di essere considerato non imparziale e quindi non credibile per gli ascoltatori. Fu Ettore Bernabei, allora direttore generale, a imporsi perché restasse al suo posto e fu una scelta pagante perché univa la capacità che Levi aveva di “bucare il video” con la competenza che derivava dalla conoscenza dei luogi e della storia.
Tornò alla carta stampata nel 1969 con una monumentale inchiesta sull’economia mondiale, che andò avanti per mesi sulla terza pagina della Stampa con interviste a tutti i più grandi economisti scovati negli angoli più remoti dei cinque continenti. Lo aveva chiamato Alberto Ronchey. Si erano conosciuti a Mosca e non potevano essere più diversi: all’esuberante vitalità di Levi si contrapponeva la contenuta scontrosità di Ronchey. Ma si stimavano e si compensavano a vicenda, così quando Ronchey lasciò la direzione Levi ne prese il testimone quasi con naturalezza.
Non furono anni facili. L’ingresso della Libia nel capitale della Fiat (Gheddafi chiese la testa di Levi, Agnelli rifiutò) e poi l’assassinio da parte delle Br di Carlo Casalegno, che lo toccò profondamente, esaurirono la sua carica vitale. Lo ricordo depresso, quasi impaurito, nel suo appartamento in Piazza San Carlo, durante il rapimento Moro, in uno stato di tensione che lo portò a scrivere un editoriale che fece molto discutere.
La scelta di lasciare la direzione a Giorgio Fattori fu inevitabile. Levi rifiorì tornando a scrivere per il Corriere della Sera e inventando, nel 1987, un rotocalco televisivo, che andava in onda su Canale 5 e Rete 4, Tivù Tivù,
a immagine e somiglianza del celebre 60 Minutes della Cbs americana: 5 servizi di attualità della durata di 12 minuti l’uno, con Levi che interveniva all’inizio e alla fine di ogni puntata. L’idea gli era venuta dalle sue esperienze a Tv7, ma anche dalle sue frequentazioni internazionali: durante gli anni di Mosca aveva creato un rapporto solidissimo con Marvin Kalb, un famoso giornalista televisivo americano che ha diretto per anni una scuola di giornalismo associata all’università di Harvard.
Si definiva “un cittadino del mondo” e “un laico miscredente”. Ma, in ospedale, prima di morire ha cantato l’inno di Israele (La Speranza) e una filastrocca modenese, la sua settima lingua. È stato uguale a se stesso fino alla fine: esuberante e passionale, come il tango che aveva imparato nell’esilio a Buenos Aires. E fedele alle sue radici.
«Ma sa che Levi scrive meglio in inglese che in italiano?». La battuta di Gianni Agnelli fotografava perfettamente, con l’abrasiva lapidarietà dell’Avvocato, il cosmopolitismo giornalistico, oltre che la versatilità linguistica, di Arrigo Levi. Che cominciò a scrivere per un giornale in Argentina, continuò a Modena, passò per Israele, Londra, Mosca, Roma, Torino, dove culminò con la direzione della Stampa , per finire, dopo altri passaggi e altre testate, al Quirinale come consulente internazionale, animato da una sana passione per la Repubblica, di due Presidenti, Ciampi e Napolitano. Passando dalla carta stampata alla televisione, e viceversa, con la naturalezza e la leggerezza con le quali ballava il tango, che aveva imparato a Buenos Aires e del quale era rimasto un grande cultore.
La battuta dell’Avvocato (che Arrigo, venutone a conoscenza, liquidò chiedendosi se era un complimento o una critica) era riferita alla “column” che Levi teneva periodicamente su Newsweek negli anni 70, quando il settimanale americano vendeva più di 3 milioni di copie ed era considerato uno dei giornali più influenti al mondo. I suoi commentatori americani, come Stewart Alsop o George Will, facevano tremare la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato. Nell’edizione europea aveva alcuni collaboratori, scelti tra i giornalisti più noti e autorevoli a livello internazionale e tra questi, unico italiano, c’era Levi.
Ma Arrigo scriveva bene anche in italiano. E molto velocemente. Aveva un diploma in stenodattilografia e batteva sulla tastiera con una ritmo davvero impressionante, tanto che il suo grande e burbero amico Alberto Ronchey diceva: «Riscrive tre volte un articolo nel tempo che io impiego a scriverne uno». Era un “natural”, come dicono gli americani, un vero predestinato. Aveva cominciato poco più che adolescente da Buenos Aires, dove la sua famiglia era emigrata da Modena nel 1942 in seguito alle leggi razziali, inviando corrispondenze per il giornale del Partito d’Azione, L’Italia libera .
Ma il suo mentore era stato Guglielmo Zucconi, il padre di Vittorio (e Arrigo, in un intreccio di carriere e di amicizie, ne fu a sua volta il direttore quando Vittorio, corrispondente da Washington per la Stampa , raccontò in maniera straordinaria lo scandalo del Watergate che travolse Richard Nixon). Tornato a Modena dall’esilio argentino, Levi lavorò per Unità Democratica , diretto da Guglielmo Zucconi. Che, quando Arrigo partì per Israele e si arruolò nelle brigate del Negev, durante la prima guerra arabo- israeliana, gli chiese di inviare corrispondenze per la Gazzetta di Modena , della quale nel frattempo Zucconi era diventato direttore.
Londra e la Gazzetta del Popolo , all’inizio degli anni 50, furono altri due passaggi fondamentali nella formazione del giovane Levi. A Londra lavorava per la Bbc e conobbe Lina, poi diventata sua moglie. Divennero una coppia affiatata, oltre che molto divertente per chi abbia avuto il piacere delle loro compagnia, in cui talvolta sembrava che Lina tenesse a bada quell’istintiva monellaggine che c’era in Arrigo. Il quale, oltre alla Bbc, aveva un altro lavoro a Londra: scriveva per la Gazzetta del Popolo , il giornale che allora a Torino rivaleggiava con la Stampa e aveva una tradizione di grande qualità nei reportage internazionali.
La consacrazione di “grande firma” arrivò con le corrispondenze da Mosca, tra il 1960 e il 1962, dove Levi imparò la sua sesta lingua e accumulò il materiale per scrivere il suo libro forse più importante e impegnativo tra i tanti da lui prodotti: Il potere in Russia , che sarebbe diventato una sorta di Bibbia per chiunque dovesse raccontare gli oscuri rapporti di forza dentro le mura del Cremlino. Levi ci aveva lavorato con il suo amico Michel Tatu di Le Monde , considerato il più attendibile cremlinologo dell’epoca. E per una coincidenza forse non casuale, in Francia uscì quasi contemporaneamente un libro dal titolo molto simile, Le Pouvoir en Urss . «Arrigo e io eravamo come gemelli», mi disse una volta Tatu, diventato nel frattempo capo del servizio internazionale del suo giornale. Ma anche in quella occasione Levi era stato più veloce del suo amico: era stato a Mosca due anni contro i sette di Tatu, ma il suo libro uscì un anno prima.
L’esperienza televisiva, dopo un passaggio al Giorno , ne fece uno dei volti più noti e di alto gradimento. Anche perché fu il primo giornalista a condurre un telegiornale, quello delle 20 diretto da Fabiano Fabiani, mentre fino ad allora il tg veniva presentato e letto da uno speaker. E nel giugno 1967, quando ci fu la Guerra dei sei giorni tra arabi e israeliani, Levi chiese di essere esonerato dalla conduzione: temeva di essere considerato non imparziale e quindi non credibile per gli ascoltatori. Fu Ettore Bernabei, allora direttore generale, a imporsi perché restasse al suo posto e fu una scelta pagante perché univa la capacità che Levi aveva di “bucare il video” con la competenza che derivava dalla conoscenza dei luogi e della storia.
Tornò alla carta stampata nel 1969 con una monumentale inchiesta sull’economia mondiale, che andò avanti per mesi sulla terza pagina della Stampa con interviste a tutti i più grandi economisti scovati negli angoli più remoti dei cinque continenti. Lo aveva chiamato Alberto Ronchey. Si erano conosciuti a Mosca e non potevano essere più diversi: all’esuberante vitalità di Levi si contrapponeva la contenuta scontrosità di Ronchey. Ma si stimavano e si compensavano a vicenda, così quando Ronchey lasciò la direzione Levi ne prese il testimone quasi con naturalezza.
Non furono anni facili. L’ingresso della Libia nel capitale della Fiat (Gheddafi chiese la testa di Levi, Agnelli rifiutò) e poi l’assassinio da parte delle Br di Carlo Casalegno, che lo toccò profondamente, esaurirono la sua carica vitale. Lo ricordo depresso, quasi impaurito, nel suo appartamento in Piazza San Carlo, durante il rapimento Moro, in uno stato di tensione che lo portò a scrivere un editoriale che fece molto discutere.
La scelta di lasciare la direzione a Giorgio Fattori fu inevitabile. Levi rifiorì tornando a scrivere per il Corriere della Sera e inventando, nel 1987, un rotocalco televisivo, che andava in onda su Canale 5 e Rete 4, Tivù Tivù,
a immagine e somiglianza del celebre 60 Minutes della Cbs americana: 5 servizi di attualità della durata di 12 minuti l’uno, con Levi che interveniva all’inizio e alla fine di ogni puntata. L’idea gli era venuta dalle sue esperienze a Tv7, ma anche dalle sue frequentazioni internazionali: durante gli anni di Mosca aveva creato un rapporto solidissimo con Marvin Kalb, un famoso giornalista televisivo americano che ha diretto per anni una scuola di giornalismo associata all’università di Harvard.
Si definiva “un cittadino del mondo” e “un laico miscredente”. Ma, in ospedale, prima di morire ha cantato l’inno di Israele (La Speranza) e una filastrocca modenese, la sua settima lingua. È stato uguale a se stesso fino alla fine: esuberante e passionale, come il tango che aveva imparato nell’esilio a Buenos Aires. E fedele alle sue radici.