Affari&Finanza, 24 agosto 2020
La tempesta per le banche deve ancora arrivare
La peggior recessione dal Dopoguerra pressa i bilanci delle banche italiane al 30 giugno: ma neanche tanto. I dati di Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Bpm, Ubi, Bper, Mps, che valgono circa metà del settore domestico e sono stati aggregati da Goldman Sachs, mostrano ricavi in calo attorno al 5%, utili operativi ridotti di un quinto, accantonamenti su crediti per 5,8 miliardi, circa il doppio di un anno prima per un costo del rischio di 95 centesimi ogni 100 euro prestati: un po’ meno rispetto all’1,12% delle maggiori 50 banche europee, che insieme nel semestre hanno accantonato 59 miliardi. I sindacati parlano di “grande resilienza” – così scrive la First Cisl – chiedendo ai datori di lavoro di andarci piano con i tagli, che hanno visto chiudere 500 filiali e l’uscita volontaria di 5 mila addetti nel primo semestre. In effetti l’analisi dei numeri non è così drammatica come farebbe pensare il tessuto economico, di cui le banche sono un volano (e una spia, essendo le più cicliche aziende del settore finanza). Tuttavia, banchieri, investitori, regolatori sanno che i bilanci non sono mai stati tanto distorti come oggi: dalle incerte previsioni macro, dalle misure pubbliche per agevolare il credito, dal rischio di ricadute pandemiche. Si racconta che anche Andrea Enria, presidente della Vigilanza bancaria europea, sia preoccupato per la difficoltà di “modellizzare” l’impatto del Covid-19 sui conti bancari e di prezzare il rischio creditizio in questa fase. È facile limitarsi alla previsione che il peggio debba ancora arrivare, nella realtà un po’ congelata del Paese (per attenuare gli effetti prociclici, ma anche politici, dei due mesi mancati tra febbraio e maggio). Ma pochi azzardano dei parametri, tale è la quantità e complessità delle situazioni inedite.
Le prossime perdite sui crediti
Quattro sono gli elementi che rendono arduo stimare le prossime perdite sui crediti. Il primo sono le moratorie. Ci sono, ai dati più aggiornati dell’Abi, 298 miliardi di euro di prestiti con rate sospese, e la sospensione è appena stata allungata dal 30 settembre al 31 gennaio 2021. È uno strumento già collaudato, volto a evitare che i traumi si amplifichino: così imprese e lavoratori che in primavera hanno visto ridursi al minimo gli incassi possono riorganizzarsi e risalire nei prossimi mesi di sperata normalizzazione. Quanto di questi 298 miliardi, circa un quinto dei prestiti ai privati italiani, sarà rimborsato l’anno prossimo? Presentando i conti Mediobanca a giugno, il management ha fornito una tra le rare cifre comparabili, avendo l’istituto già terminato alcune moratorie brevi: i clienti del credito al consumo con rate sospese sono tornati a pagarle all’85%. A una simile forchetta, dal 10 al 20% di default sulle moratorie, è giunto anche Alberto Cordara, esperto di Bank of America che in recenti analisi ha usato il tasso di morosità dei “forborne” (i crediti ristrutturati che restano in quarantena due anni prima di tornare in bonis). Nel 2019 il tasso italiano di default di questa nicchia si aggirava sul 12%. In teoria i forborne sarebbero più rischiosi dei crediti in moratoria, dato che i secondi comprendono anche dilazioni di finanziamenti sani. Ma l’arrotondamento per eccesso, fino al 20% della stima, legato all’imprevedibilità della durata della recessione: dipende anche dall’ampiezza di eventuali seconde ondate di coronavirus. Molti banchieri raccontano infatti di non avere segnali sull’effettivo andamento a V o a U della crisi. Un secondo elemento vischioso, ma che mostra il peggioramento degli attivi bancari, sono le classificazioni dei “modelli interni” di ponderazione creditizia. A differenza delle ormai rigide classificazioni ufficiali stabilite da Bce e Ue, i modelli non sono omogenei perché customizzati per ogni istituto: quindi non ci sono serie storiche o comparazioni. Spulciando i data base di Intesa Sanpaolo e di Unicredit, però, si nota tra marzo e giugno un certo esodo dai livelli “stage 1” (i migliori), a “stage 2”, che sono crediti ancora performanti ma sottoposti ad accantonamenti moltiplicati, perché chi deve rimborsarli opera nei settori merceologici più esposti; spesso peraltro sfrutta le moratorie. Unicredit a giugno ha passato impieghi per 14 miliardi da stage 1 a stage 2, fascia che vale il 12,5% degli impieghi ed è coperta al 3,9% (mentre gli stage 1, che sono l’82,7% del totale, “costano” solo lo 0,3%). Analogamente, Intesa Sanpaolo nel secondo trimestre ha raddoppiato, fino a 600 milioni, le rettifiche sui 140 miliardi di “finanziamenti in bonis” della divisione Imprese.
I crediti garantiti dallo Stato e le gli istituti nostrani
Il terzo elemento nuovo sono i crediti garantiti dallo Stato: rapidamente lievitati agli attuali 82 miliardi, tra i minori coperti dal fondo Mcc e i maggiori di Sace. È un meccanismo di ripartizione delle perdite con l’Erario protagonista, e che fa crollare le serie storiche con cui le banche erogatrici prezzano l’attivo. Esempio: se lo Stato garantisce l’80% di una fascia di crediti, con un tasso di default elevato – poniamo il 15% – di quella perdita l’istituto si intesterà solo un 3%, il resto tocca al Tesoro. Così crollano gli accantonamenti e il consumo di capitale, anche perché sulla parte garantita dallo Stato la ponderazione per il rischio è nulla. Quarto fattore, più tattico, è la beauty parade in corso tra diversi istituti nostrani. Intesa Sanpaolo per la chiusura in gloria dell’Opas su Ubi, Ubi per l’orgoglio e l’interesse a “vendersi bene”, Banco Bpm per la determinazione a non finire preda (come Ubi) aumentando il valore di scambio della sua carta depressa, Bper nello slancio di integrare le 532 filiali Ubi pensando a prossime fusioni, Popolare di Sondrio e Creval per parare eventuali scalate (la seconda anche per la riuscita ristrutturazione che ha rialzato del 74% l’utile semestrale, “nettamente oltre le attese” secondo Equita). Diversi banchieri italiani, insomma, sono intenti a mostrarsi in ghingheri, con poca voglia di prefigurare perdite future. Del resto la stessa vigilanza Bce da mesi consente il più grande lassismo contabile agli istituti europei: e altrove non si vedono casi di severità contabile, tolte le eccezioni delle spagnole Santander e Bbva o della britannica Hsbc, dove le svalutazioni si contano a miliardi ma sono legate all’esposizione globale. Comunque vada, questa crisi “avrà un impatto strutturale sui business model delle banche, e porterà a ripensare la metodologia di misura dei rischi e i loro processi di gestione”. È il succo dell’analisi di Aifirm, associazione italiana dei risk manager del settore finanza, che è stata coordinata dalla docente della Sapienza Marina Brogi in collaborazione con Oliver Wyman. “È la prima crisi sistemica dopo il 2008, e nonostante gli interventi di governo, Ue, Bce e Banca d’Italia gli effetti saranno considerevoli per l’economia italiana e di conseguenza anche per le banche”, aggiunge Brogi.