L’Economia, 24 agosto 2020
Il problema con la banda larga in Italia, spiegato
Quando si seppe che Angelo Rovati, consigliere di Romano Prodi a Palazzo Chigi (siamo nel 2006) aveva inviato all’allora presidente di Telecom, Marco Tronchetti Provera, un piano per staccare l’infrastruttura di rete e metterla in una nuova società partecipata dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp), la polemica fu fortissima. La pubblicazione della notizia su Il Sole 24 Ore scatenò un largo dibattito sull’ingerenza del potere politico in una società quotata in Borsa. Quando è apparsa l’indiscrezione secondo la quale, agli inizi del mese di agosto, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte avrebbe telefonato all’amministratore delegato di Tim Luigi Gubitosi, a consiglio di amministrazione in corso, per suggerirgli di rimandare la decisione sull’ingresso del fondo americano Kkr in Fibercop, la notizia, non smentita, è passata pressoché inosservata. Palazzo Chigi si è limitato a ribadire «il forte interesse del governo a promuovere una rete nazionale integrata a banda ultralarga per realizzare una infrastruttura strategica per il Paese». Si sono sicuramente mossi, con una lettera al presidente di Tim, Salvatore Rossi, per chiedere di ritardare l’accordo sulla rete secondaria in rame di Telecom, i ministri dell’Economia Roberto Gualtieri e dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli. Non osiamo pensare che cosa sarebbe successo allora, se Prodi avesse preso in mano il telefono e anche se lo avesse fatto il suo simpatico e compianto collaboratore o un qualsiasi altro ministro. Lo sdegno fu eccessivo allora.
Ma l’indifferenza di oggi è preoccupante. Perché in un’economia di mercato non è normale un intervento del capo o di un membro dell’esecutivo, in questa modalità, su una società privata e quotata. Certo, le pressioni ci sono sempre, in qualunque Paese. Ma la forma è sostanza. E fa l’immagine internazionale di un Paese oltre che del suo sistema economico. Il tutto si traduce in una formula anglosassone rule of law che è il discrimine fra le democrazie evolute e quelle in cui il potere (non solo politico) conserva ampi margini di arbitrarietà. Differenza che non sfugge al giurista Conte. E non sfugge purtroppo nemmeno agli investitori internazionali gonfi di pregiudizi sull’inaffidabilità dei contratti stipulati nel nostro Paese.
Opportunità e pericoli
Forse non è sbagliato partire da questa considerazione nell’affrontare le opportunità (e i pericoli) di una rete di telecomunicazioni unica nel nostro Paese che metta insieme Tim e Open Fiber. E questo pur condividendo la necessità da parte del governo di migliorare la dotazione infrastrutturale, dare una spinta alla digitalizzazione, risolvere la contraddizione di Cdp azionista sia di Telecom (al 10 per cento) sia, con Enel, di Open Fiber (al 50 per cento). Ci sarebbe anche da tutelare la concorrenza ma questa non sembra essere in cima alle preoccupazioni dell’esecutivo. Innanzitutto pubblica o privata? L’amministratore delegato di Tim, Luigi Gubitosi, in una intervista a Repubblica, ha ribadito la sua posizione contraria a cedere la maggioranza dell’eventuale rete unica ma disponibile a trattarne tutte le condizioni di governance, tenendo conto degli indirizzi di governo, oltre naturalmente delle direttive del regolatore italiano (Agcom), di quello europeo (Berec), dell’Antitrust.
Il 31 agosto, ormai una data chiave della vicenda, il consiglio d’amministrazione di Tim dovrebbe procedere all’accordo sull’ingresso in Fibercop di Kkr e Fastweb e probabilmente altri. Poche ore dopo l’intervista di Gubitosi, Patuanelli ha ribadito che la rete unica dovrà essere pubblica. Gli ha dato manforte il viceministro allo Sviluppo economico, Stefano Buffagni. Il governo su questo punto è diviso. Conte e Gualtieri più possibilisti nel lasciare a Tim la maggioranza. Se mai dovesse realizzarsi il progetto di una società unica a controllo pubblico, essendo la rete patrimonio della società – privatizzata male ma pur sempre privatizzata – questo comporterebbe il passaggio di parte del debito di Tim (che nei piani di Gubitosi dovrebbe scendere a fine 2020 sotto i 20 miliardi) a carico della controllante. Ovvero di Cdp che investe i risparmi postali. Ormai i miliardi sono noccioline e purtroppo non ci facciamo più caso. Lo Stato si assumerebbe in sostanza una quota del debito messo a carico della società dai privati che la scalarono nel 1999. Un paradosso della storia. Ma l’obiettivo vero del governo qual è? Dare una spinta alla digitalizzazione del Paese, portare Internet in ogni casa (come si fece nel Novecento con il telefono fisso), favorire lo sviluppo della fibra, del 5G e dell’edge clouding, oppure allargare l’area d’intervento e di potere dello Stato?
L’interesse pubblico può essere ugualmente tutelato attraverso accordi specifici, impegni precisi del cosiddetto incumbent – che in passato li ha largamente disattesi – e con una presenza nell’azionariato più significativa di Cdp che valorizzi l’investimento e orienti gli indirizzi strategici. Contro l’ipotesi che la rete unica abbia come azionista di controllo Tim si sono espressi in una lettera al governo anche Vodafone, Wind e Sky. Separare semplicemente la rete e le torri dalla società di servizio, il cosiddetto spezzatino che ha consensi bipartisan (oltre a quello di Beppe Grillo), sacrificherebbe un campione nazionale facendo un favore ai competitor.
Un predecessore di Gubitosi, Franco Bernabé, ha scritto, su Il Sole 24 Ore, che la soluzione migliore sarebbe quella di far vendere a Cdp la propria partecipazione in Open Fiber per consentirle di accrescere ulteriormente quella in Tim, anche approfittando del dualismo tra Vivendi e Elliott. Enel avrebbe tutto l’interesse di sviluppare Open Fiber e offrire ai suoi clienti, insieme alla fornitura elettrica, anche la banda ultralarga, sfruttando il rinnovo dei contatori.
Gli sfidanti
L’amministratore delegato di Enel, Francesco Starace, è contrario a una rete unica a controllo Tim, essendo un soggetto verticalmente integrato. E il presidente di Open Fiber, Franco Bassanini, ha promosso sul Corriere della Sera, il progetto di una «rete unica neutrale, partecipata da tutte le Telco ma non controllata da nessuna, caso mai dallo Stato, garante dell’interesse generale a un’accelerazione degli investimenti». Franco Debenedetti, sul Foglio, ha contrastato la tesi di Bassanini difendendo la concorrenza sulla rete. «C’è da fidarsi poi di uno Stato che cambia idea a seconda delle convenienze del governo?». Bassanini ha comunicato che Open Fiber, di cui è amministratore delegato Elisabetta Ripa, ha ormai collegato in fibra al 30 giugno circa 9 milioni di case. Gubitosi sostiene che non sono dati veri. E qui probabilmente c’è una distinzione tecnica su dove arrivi esattamente il servizio Ftth, se in casa o all’armadio, al cabinet in strada. In ogni caso, nonostante le difficoltà del periodo Covid, Open Fiber ha esteso la rete in fibra a un milione di case, investendo 600 milioni di euro. Gubitosi afferma di aver già coperto in fibra due terzi delle aree bianche, cioè quelle senza banda larga, e si accingerebbe a connettere il 90 per cento della popolazione entro la fine dell’anno, chiudendo di fatto il digital divide.
C’è da dire che senza Open Fiber probabilmente l’ex monopolista non avrebbe accelerato sugli investimenti nelle cosiddette aree bianche. Anzi, in passato dichiarò di non avere alcun interesse a coprirle. Ed è per questa ragione che nacque, con il governo Renzi, Open Fiber. Dunque, la concorrenza non fa male. Un’eventuale rete unica sarebbe non solo soggetta all’approvazione del regolatore comunitario ma comporterebbe probabilmente, nei tempi della fusione, un ulteriore ritardo negli investimenti. La Francia ha diviso in due parti il Paese e messo a gara gli operatori per le coperture. Un buon esempio. Poi ci sarebbe un problema di domanda, non solo di offerta. Ed è quello che emerge dall’ultima statistica Desi (Digital economy and society index) secondo la quale l’Italia, nella trasformazione digitale, è terz’ultima nell’Unione europea. Preoccupa soprattutto il basso livello cognitivo del capitale umano. E non basterà, per migliorarlo, un bonus per l’acquisto di personal computer e l’accesso a Internet.