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 2020  agosto 24 Lunedì calendario

La Certosa che ispirò Le Corbusier

La Certosa di San Lorenzo a Padula fu conosciuta in tutto il mondo nel 1967 con il film C’era una volta, una favola che Francesco Rosi trasse da una novella di Giambattista Basile. La protagonista è una bella popolana di cui si invaghisce un gentiluomo spagnolo al tempo del viceregno: Sophia Loren e Omar Sharif sono i protagonisti. Un grande pranzo ha per scena la spettacolosa Certosa. Prima di questo film pochi conoscevano anche in Italia non dico la Certosa ma il toponimo stesso di Padula. Il Mezzogiorno d’Italia, non è certo avaro di sorprese e di scoperte.
Quando si imbocca l’Autostrada del Sole nel tratto che da Salerno conduce a Reggio Calabria c’è una deviazione che indica il casello Padula- Buonabitacolo. Il primo toponimo è una deformazione dal latino medievale che indicava la palude che doveva esserci nell’area più bassa di questa vasta piana. Essa era parte del feudo di Tommaso Sanseverino conte di Marsico e signore del Vallo di Diano. Dopo cinque minuti di strada asfaltata, costeggiata da altissimi olmi, si para dinanzi una grande corte contadina: sul fondo – in simmetria con un grande portale di accesso – si leva una sorta di retablo tardomanierista che allude, anche per il dorato timbro della pietra a quella in uso nell’architettura pugliese. È il fronte della Certosa di San Lorenzo, il cui nome si deve a un originario cenobio benedettino.
Nella facciata ci sono colonne fasciate e pinnacoli lanceolati, con edicole e statue, con busti e finestre coronate da bizzarre e carnose escrescenze decorative. Una iconostasi introduce a uno dei monumenti tra i più sconosciuti d’Italia. Patrono della Certosa è San Brunone, monaco la cui casa di fondazione a Grenoble risale al 1084, una certosa di precedente fondazione a quella di Padula è a Serra San Bruno in Calabria.
Tommaso Sanseverino concesse con gesto pio e mecenatesco parte della sua proprietà all’ordine dei certosini nel 1306. Una donazione interessata che gli guadagnò le simpatie del sovrano Carlo II d’Angiò, pure prodigo di favori ai medesimi monaci di Grenoble per guadagnarsi i favori del papa. Fino ad alcuni decenni fa questo complesso era un relitto, scrostato e fatiscente, devastato dalla guerra e saccheggiato di molti beni preziosi. Assai lentamente la Certosa è stata magnificamente restaurata dalla già Soprintendenza di Salerno, dalla Regione Campania e dal ministero dei Beni culturali: le corti introducono a immensi corridoi, di qui come in un labirinto la chiesa, le cappelle, le celle dei monaci, la residenza del priore, il cimitero, la biblioteca e il refettorio. La Certosa di San Lorenzo è la più vasta che ci sia in Italia e tra le più vaste d’Europa. Il chiostro grande costruito a partire dal 1538 è un rettangolo il cui lato maggiore è lungo150 metri per 100. Il punto prescelto dai monaci per costruire la Certosa risultò sin da subito strategico e cruciale, potendo infatti contare sui grandi campi fertili circostanti che furono coltivati con alacrità secondo la regola certosina dell’ ora et labora. I monaci producevano vino, olio di oliva, frutta e ortaggi per il loro sostentamento oltre che per il commercio all’esterno. Da quella posizione c’era il controllo delle vie che portavano alle regioni meridionali del regno di Napoli.
L’attività commerciale dei beni prodotti nella Certosa fu per molti secoli fondamentale in quell’area; essa era di fatto l’unico centro di raccolta di manodopera e con un’intensa attività produttiva. La reputazione della Certosa crebbe dopo che l’imperatore Carlo V vi soggiornò con il suo esercito nel 1535 di ritorno dalla vittoriosa battaglia di Tunisi.
Negli ultimi decenni del Cinquecento le fiorenti fortune economiche del convento consentirono ingenti lavori di ampliamento con la costruzione tra l’altro del gigantesco chiostro grande. La veste medievale dell’architettura gotica d’origine andò lentamente scomparendo e fu la koiné barocca che dominò gli ingenti lavori di ristrutturazione e ampliamento del complesso. La cacciata dal regno dei Sanseverino nel Seicento fece sì che i monaci restassero gli unici proprietari non solo della Certosa ma di tutti i beni del feudo nel Vallo di Diano. La Certosa visse per cinque secoli una vita fastosa fino al lento declino, iniziato in età murattiana, e proseguito con l’Unità d’Italia. Nella Certosa si ha la netta sensazione che tutto i monaci abbiano fatto per assicurarsi una mondana e comoda esistenza. La loro casa divenne nel tempo fastosa, memorabile e smisurata, come la frittata di mille uova che i monaci offrirono a Carlo V quando l’imperatore lì si fermò. Il complesso è stato ottimamente restaurato e ancora oggi si eseguono lavori di finitura.
Nell’attraversarlo si ha la sintesi di molti secoli di storia, per seguire la quale è assai utile un’incisione di Thomas Salmon pubblicata nel 1763. Una veduta a volo d’uccello dalla quale si legge che attorno al chiostro grande, su tre lati, si succedono le celle dei monaci articolate in uno spazio privato per la preghiera e la meditazione, con annesso un piccolo orto per il lavoro. Questa tipologia colpì tanto il giovane Jeanneret, poi Le Corbusier, che quando giunse al convento di Ema in Toscana ne studiò ogni dettaglio e ne trasse ispirazione per il modello di casa che allora sognava di costruire. Le celle della Certosa di San Lorenzo sono perfettamente identiche a quelle di Ema, perché l’Ordine aveva una regola ferrea e rigorosa da non consentire deroghe. Insomma i monaci avevano inventato lo standard molti secoli prima del maestro svizzero.
Mi sono sempre chiesto, attraversando simili ambienti, come abbia potuto convivere una regola così severa con una sensibilità tanto vigile alle vicende mondane del gusto più sfarzoso. I priori nel Seicento a San Lorenzo vivevano come principi: i viaggiatori stranieri erano sbigottiti dai broccati, dal vasellame d’argento, dalle cristallerie, dalle biblioteche, dalle pareti affrescate e dalle opere d’arte di rinomati artisti che erano stipate in questi conventi. Per quanto in molte sue parti San Lorenzo sia stata spogliata e depredata di tali tesori quel che offre ancora oggi basta per darci conto di come vissero questa contraddizione i monaci del Vallo. Con una non trascurabile aggravante per loro: perché se i certosini di Napoli dovevano rivaleggiare con francescani e domenicani dapprima, poi con gesuiti e teatini i frati relegati a Padula avevano al loro cospetto solo poveri contadini che avevano trasformato nei secoli una campagna desolata in fonte di ricchezza. I monaci vollero che questo loro isolamento dalla capitale Napoli fosse dorato e arricchirono il convento nel Cinquecento di un repertorio decorativo e scultoreo che rimanda a Cosimo Fanzago, il più grande architetto attivo a Napoli.
Questo cantiere permanente ha la sua ultima stagione di splendore tra la fine dei Seicento e la seconda metà del XVIII secolo. Infatti il sontuoso scalone elicoidale che conclude il lungo braccio del chiostro grande fu costruito tra 1760-70 e adduce nell’immensa biblioteca. Non si può fare a meno di pensare che a costruirlo sia stato Ferdinando Sanfelice, il più elegante e geniale architetto del Settecento napoletano: ma questo costruttore di palazzi e scale memorabili era morto da 22 anni quando iniziarono i lavori. Eppure non rinuncio all’idea che i monaci possano aver serbato nel loro archivio un suo progetto e l’abbiano realizzato quando ebbero disponibile l’enorme somma di 64 mila ducati necessari all’impresa. Dunque ben venga l’iniziativa del Comune di Padula di candidare la città a capitale della cultura italiana 2022. In questo sistema legato allo sviluppo territoriale, i beni paesistici, naturali e archeologici hanno come baricentro la Certosa di San Lorenzo, valore simbolico di eccezionale rilevanza.