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 2020  agosto 24 Lunedì calendario

La Cina è padrona dei nostri farmaci

Una pastiglietta di Tavor contiene un milligrammo di principio attivo che dà al nostro cervello il potere di calmarci, il paracetamolo invece di sostanza antidolorifica ne possiede molta di più, circa 1 grammo. Due farmaci comuni, di largo consumo. Diversi nell’uso, ma che funzionano allo stesso modo: per essere efficaci hanno bisogno di tanti mattoncini, cioè molecole farmacologicamente attive, chiamate anche «starting materials», materiali di partenza. Immaginiamo il gioco del Lego: la compressa è la casetta costruita, la molecola il blocchetto colorato che serve per montarla. Nella grande farmacia d’Europa, un battito d’ali della Cina, come la recente pandemia ad esempio, è in grado di sconvolgere il nostro mercato. Già, perché la Ue non è legata a doppio filo a Pechino solo nel settore del tessile o della tecnologia. C’è un altro campo in cui, ancor di più, il Dragone è padrone assoluto: i farmaci. La Cina è diventata, dagli Anni 2000 e a velocità supersonica, il più grande produttore mondiale di ingredienti farmaceutici, e copre il 60% della produzione globale di «starting materials», detti anche «intermedi», imprescindibili per formare i principi attivi delle nostre medicine. Nel caso della Ue, la dipendenza è totale per i secondi (dobbiamo comprare l’85-90% delle molecole-mattoncino), e del 33% per i primi, i principi attivi (Api). Se consideriamo che il nostro carrello si riempie anche in India, arriviamo a quasi il 60%.
Dai farmaci di marca ai generici da banco, analgesici, antinfiammatori, ai più complessi impiegati in cardiologia e oncologia: lo scaffale europeo non si riempirebbe senza la farmacia cinese. A fare la fotografia di questa bilancia tutta tesa a Est è il Cpa Industry Report 2019, un report della Chemical Pharmaceutical Generic Association, che a inizio settembre presenterà i dati alla Commissione europea, in cerca di una strategia per riportare parte della produzione dei principi attivi nella Ue. Il Covid ha creato carenze di approvvigionamento, ma è stato solo l’ultimo dei segnali che la sproporzione va riequilibrata. Il controllo della salute, per Pechino, è un campo in crescita constate (+9,1%), di pari passo con l’invecchiamento della popolazione cinese e con la necessità di prepararsi a nuove pandemie, sviluppando in fretta e meglio vaccini e strategie di sopravvivenza. «Proprio con l’emergenza coronavirus – spiega il presidente di Assogenerici, Enrique Häusermann -, l’Europa si è scoperta troppo dipendente, soprattutto nei momenti critici, da Paesi extra-europei. Con la Ue stiamo cercando la strategia per uscirne».


Prezzi e sicurezza
La principale ragione per cui gli occidentali, Stati Uniti compresi (l’80% degli antibiotici venduti negli Usa proviene dalla Cina), hanno consegnato le chiavi dei propri farmaci in mano alle aziende orientali è la concorrenzialità sul prezzo: «Il costo di produzione è più basso del 30-40%, a partire dai salari inferiori di un decimo, a volte anche di un ventesimo», spiega Marcello Fumagalli, general manager di Cpa, da vent’anni leader degli studi sul mercato mondiale dei principi attivi. Poi, c’è il tema ambiente: Pechino può permettersi di produrre molecole necessarie al settore farmaceutico in stabilimenti pericolosi o inquinanti. C’è, però, un altro prezzo immateriale che dobbiamo pagare, quello della qualità dei prodotti, come racconta Gian Mario Baccalini, vicepresidente dell’European Fine Chemical Group e di Aschimfarma: «Se da noi il livello di garanzia dei principi attivi prodotti è 10, perché siamo sottoposti a stringenti controlli, in Cina è 3-4, in India tra il 2 e il 3». Facciamo un esempio: «Un nostro antibiotico normalmente ha una purezza del 99%, quello che arriva dall’India del 70. Questo significa che l’efficacia di questo farmaco è inferiore», continua Baccalini.


La grande ansia
Il lockdown ha messo in crisi il mondo occidentale. A partire da aprile-maggio le aziende farmaceutiche e chimiche hanno posto il problema di non sentirsi più sicure nell’approvvigionamento. Se mai Cina e India stringessero, per qualche ragione, i cordoni dell’esportazione, la situazione peggiorerebbe ancora. Un campanello d’allarme suonato a Bruxelles, e in Francia e Germania fra gli Stati Ue. «Parigi sta cercando di riportare a casa il paracetamolo, ma è una goccia nel mare», continua Baccalini. Con la pandemia, ad esempio, l’India ha deciso di consolidare la produzione di ibuprofene per il mercato interno, poi quel che resta lo ha venduto all’Europa. Lo stesso è accaduto con il remdesivir, che ha un’efficacia nella terapia contro il virus. Negli ultimi due anni, sono anche lievitati i prezzi, e la Cina inizia a essere sempre meno conveniente: «C’erano prodotti che compravamo da Pechino a 50 dollari, oggi ce li vendono a 150», perché nel frattempo l’industria lì ha migliorato i propri standard.


La potenza di Pechino
Ma perché Pechino la fa da padrona? I laboratori cinesi del farmaco sono dislocati in province benedette da una varietà di climi, consentono la produzione di una vasta gamma di materie prime (tra 1500 e 2000 tipi) con cui noi costruiamo i farmaci. Comprare da loro permette ai sistemi sanitari statali europei di vendere una pillola antibiotica a meno del prezzo di una gomma da masticare. I produttori della repubblica popolare stanno divorando fette di mercato e le esportazioni degli «intermedi» sono cresciute del 3,8% negli ultimi anni, raggiungendo un valore di circa 30 miliardi di dollari. Le aziende beneficiano di generosi sussidi dallo Stato e godono del sostegno bancario con prestiti a prezzi irrisori. Ad esempio, riporta European Data Journalism, la Zhejiang Huahai Pharmaceutical (ZHP), il principale produttore cinese di componenti dei farmaci utilizzati per regolare la pressione sanguigna e per l’Alzheimer, ha ricevuto 44,4 milioni di dollari in finanziamenti statali nel 2018. Le prospettive sono di crescere ancora: i cinesi forniscono molecole necessarie, ma di per sé semplici e senza brevetto, vecchie e poco remunerative per la nostra industria.


La campagna di Trump
Il lockdown mondiale ha convinto anche Trump, che finora non aveva messo sanzioni sulle importazioni farmaceutiche dalla Cina. Il 7 agosto, ha emesso un ordine esecutivo, in cui annunciava l’intenzione di riportare negli Usa la produzione di farmaci essenziali e dava all’Agenzia del farmaco 30 giorni per stilare una lista. Finanzierà la Eastman Kodak, la multinazionale nota per le pellicole fotografiche, con un prestito di 765 milioni di dollari per occuparsi della riconversione. Il provvedimento d’urgenza ha messo in allarme le case farmaceutiche: «Non siamo pronti, non possiamo garantire sicurezza e sostenibilità del mercato domestico», spiegano. C’è il rischio anche di un aumento dei prezzi. Gli stessi, ma più timidi, segnali sono arrivati dal ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire, che ha definito l’esperienza del lockdown un «punto di svolta» e ha chiesto un ripensamento, considerata l’«irresponsabile» dipendenza dell’Europa dalla Cina. A ruota ha seguito il ministro della Salute tedesco Jens Spahn. Mentre la commissaria Ue Stella Kyriakides ha promesso entro fine anno «un’ambiziosa strategia». Salvo che poi, con le sforbiciate al Recovery Fund, il programma sanitario è stato tagliato. Ma il progetto di una parziale e progressiva marcia indietro c’è. Ce l’hanno i governi e le major, come la francese Sanofi, che l’anno prossimo darà vita a una newco europea dei principi attivi. Oggi, l’unico laboratorio rimasto in Europa che ospita tutte le fasi di produzione di un antibiotico salvavita come la penicillina è nella città austriaca di Kundl. «Abbiamo fatto un esperimento su 350 prodotti farmaceutici, dimostrando che gli europei hanno le capacità produttive e la tecnologia per realizzarli al 90%», dice ancora Baccalini. La corsa per la salute, mai come oggi e mentre il mondo attende un vaccino contro il Covid-19, sarà una delle armi strategiche della supremazia mondiale.