Corriere della Sera, 23 agosto 2020
Intervista a Vezio Bonera che scrive libri da cieco
Assomiglia a Geri, il simpatico vecchietto con gli occhiali dalle enormi lenti rettangolari che ripara giocattoli in Toy story 2. Solo che a Vezio Bonera non servirebbe neppure il monocolo da orologiaio. «Tecnicamente sono ipovedente, però iscritto all’Unione italiana ciechi», ride. «Di lei, per esempio, intuisco una macchia nera al posto del viso. Tutt’intorno, solo ombre. Comunque, mi poteva capitare di peggio». Ha perso la vista d’improvviso, a 68 anni. Oggi ne ha 95, ma non smette di creare. È uno scrittore, Bonera. Dal 2005 ha pubblicato 11 libri. Si adattò a stendere il suo primo romanzo, Lo scrigno di latta, settando sul computer il font Impact in corpo 90, quello che i giornali usano quando muore il Papa. Una nuova schermata di Word ogni 6-7 parole: da perderci il filo. Immaginarsi la caparbietà e la fatica per arrivare a mandare in libreria un volume di 444 pagine. «La mia misura è Guerra e pace».
Da una vita, Bonera passa l’estate in Val Seriana, a Castione della Presolana, dove, se solo volesse, lo eleggerebbero sindaco coram populo. Qui, come a ogni agosto, ha presentato il nuovo libro, Con te per sempre (Dialoghi). La prensilità nell’indagare i sentimenti è il suo sesto senso. Ha fatto propria la lezione che la volpe impartisce al protagonista del Piccolo principe: «Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi».
Com’è diventato cieco?
«Nel 1993 ero a Tenerife. Mi svegliai alle 7: una barriera scura m’impediva di vedere. Quando nel 1979, in vacanza quassù, persi l’occhio sinistro, ipotizzai un errore dell’ottico, che mi aveva rifatto le lenti smarrite in Kenya. Invece si trattava di cecità causata da un embolo. Poco male, mi restava il destro. La seconda volta il danno lo fece l’ipertensione».
Non si direbbe che abbia un handicap.
«Eh, invece ne ho uno più grosso del cieco totale, perché nessuno capisce che non ci vedo. Non potendo salutare chi incontro per strada, passo per superbo».
Quando si dedica alla scrittura?
«Dalle 23 alle 2. La luce del giorno mi disturba. Il primo romanzo lo finii in quattro mesi. Sarà anche l’ultimo, pensai. Ma tre anni dopo la consorte del proprietario dell’hotel Milano, dove soggiorno, mi spronò a scriverne un altro, in modo da portarlo qui, nella frazione Bratto, l’estate successiva. Era Serenata ad un angelo, ispirato alla canzone che il maestro Cinico Angelini scrisse nel 1943 per la moglie defunta. Da quel momento ne ho sfornato uno all’anno per non mancare all’appuntamento agostano con il mio amico Gianni Fossati, manager di Rcs. Era felice di presentare i miei libri».
Ma stavolta non ha potuto.
«Già. È mancato il 24 marzo, stroncato dal coronavirus. La moglie Magda, ricoverata nello stesso ospedale sempre per il Covid-19, l’ha saputo dopo tre giorni. Il marito è stato sepolto per errore nel campo 87 del Cimitero Maggiore di Milano, con le salme che nessuno reclama».
Terribile.
«Non se lo meritava. La vedova è stata ospite mia e di mia moglie a Ferragosto. Gianni mi accompagnava a presentare i nuovi romanzi anche nelle case di riposo. Diceva ai vecchi depressi: “Prendete esempio dal Vezio, guardate come ancora s’impegna sulla via dei 100 anni”».
Constato che non li chiama anziani.
«Vecchio è il titolo che ci spetta, una parola bellissima, altro che terza età. Fra l’altro, io sono tale dalla nascita: Vezio viene dal latino vetus, che significa appunto vecchio. Su un sito ho letto che solo 1.156 italiani portano questo nome, lo 0,0019 per cento della popolazione. San Vezio ricorre il 2 giugno».
Festa della Repubblica.
«Non proprio la mia, a essere sinceri».
Ma come? Sulla copertina del suo primo libro c’è la foto di un partigiano barbuto che sfila per Milano il 6 maggio 1945, con il tricolore sabaudo alle spalle.
«Litigai con l’editore, per quell’immagine. Il volume usciva il 25 aprile e lui, purtroppo, mi mandò la prova della copertina soltanto il 22. Avrei dovuto esaminarla con l’ingranditore».
Che cosa c’era che non andava?
«Se tutti coloro che si vedono marciare in quella foto fossero veri partigiani, sulle montagne ci sarebbero stati solo posti in piedi. La verità è che gli italiani rimasero alla finestra a guardare su quale carro del vincitore salire».
Che prove ha per parlare così?
«A maggio del 1943 frequentavo il liceo classico Manin a Cremona. Le scuole finirono di colpo, gli esami vennero aboliti, fummo tutti promossi. Che felicità! Invece arrivarono il 25 luglio e l’8 settembre. Il momento più duro, quello delle scelte. In classe eravamo 28: tre aderirono alla Repubblica sociale italiana, tre andarono sulle montagne a combattere, i restanti 22 si nascosero per non essere arruolati. Io feci la scelta sbagliata».
Si schierò con la Rsi.
«Volontario. Con la firma di mio padre: non avevo ancora compiuto 18 anni. Uscii sottotenente dal corso Impeto, pensi che nome, dell’Accademia militare di Modena. Noi in divisa, gli altri in borghese. Il nemico non lo vedevi, chiunque poteva spararti per strada. Fu una guerra sporca, vinta bombardando la scuola elementare di Gorla e uccidendo 184 fanciulli. Perciò la perdemmo tutti».
Dove si trovava il 25 aprile 1945?
«Nelle Langhe. Mi consegnai agli Alleati. Finii in campo di concentramento a Coltano. Gli americani sono un po’ dispettosi, sa? All’alba ci facevano smontare le tende e ci lasciavano tutto il giorno al sole, in piena estate, senza l’ombra di un albero. Un unico pasto, una brodaglia dolce, a mezzodì».
Nei lager nazisti accadde ben di peggio.
«Abbiamo avuto la grazia di tornare tutti amici a Cremona, vincitori e vinti, a 50 anni di distanza. Mi ritrovai a piangere i nostri morti con Gian Galeazzo Biazzi Vergani, braccio destro di Indro Montanelli, Mauro Masone, primo direttore del Sole 24 Ore, e Roberto Denti, fondatore della Libreria dei ragazzi a Milano, che scriveva per L’Unità e Il Manifesto».
Da dove trae spunto per i romanzi?
«Dalla realtà. Mio nipote Stefano andò ad adottare un bimbo in Nepal, Dinesh. Dopo 15 minuti che glielo avevano affidato, si sentì dire: “Ci siamo sbagliati. Deve prendere lui”, e gli consegnarono il fratellino, Gita Ram. Passarono 18 anni. Una notte ricevette una mail: “Sono Dinesh, forse non vi ricordate di me. Se ho sbagliato, scusatemi”. Stefano credeva che fosse finito a una famiglia francese, invece viveva ancora in Nepal. Andò a trovarlo: studiava medicina. Dinesh e la sorellina Anita vennero a vivere in Italia con mio nipote e la moglie Elena. Ecco, Quella notte su Facebook nacque così».
Anche lei bazzica quel social, ho visto.
«Una fonte inesauribile. Mi scrisse una signora: “Se le raccontassi la mia vita...”. Lo faccia, le risposi. Mi parlò della cataratta congenita, patologia che colpisce un neonato ogni 2.500 e alla fine rende ciechi. Si potrebbe diagnosticare precocemente con il test del riflesso rosso, ma non lo prescrive nessuno, perché è considerata una malattia rara. Ci ho scritto La nostra forza. E ho aperto su Facebook il gruppo “Ti racconto una storia”».
Ho notato che non è l’unico gruppo.
«Sì, è mio anche il “Libro abban-donato”, costituito per invitare i lettori a lasciare parte della loro biblioteca sulle panchine dei tram. È arrivato a 44.000 iscritti in due mesi. Poi sono entrati nel mio profilo e me l’hanno rubato. Ho presentato denuncia alla polizia postale e alla fine mi è stato restituito. Ma ho creato gruppi anche per poesie e canzoni».
Il suo libro «Pentagrammi musicali», 524 pagine, parla di Lucio Battisti.
«I 33 capitoli seguono il ritmo di 40 canzoni. “I giardini di marzo” sono quelli pubblici di Milano. Della mia città mi rimane nella mente via Senato acciottolata con le lavandaie curve a sciacquare i panni nel Naviglio, che poi fu tombato».
Soffre a non poter leggere?
«Ho gli audiolibri. Sono fermo al Piccolo Lord, che mi fu regalato per la prima comunione, a Cuore, a Giovannino Guareschi, a Giovanni Mosca. Romanzi come Acciaio non mi dicono niente. Detesto la volgarità».
Dei giovani d’oggi che mi dice?
«Non sono poi così male. Certo, sul tram loro stanno seduti e i vecchi in piedi. Se qualcuno ti cede il posto, strano a dirsi, è un extracomunitario».
Gli anziani aumentano, i nuovi nati calano, il welfare costa. Non teme che si arriverà all’eutanasia di Stato?
«No, ho fiducia che le cose cambino in meglio. Il peggio già lo vidi il 26 aprile 1945. Eppure in sette anni ricostruimmo l’Italia tutti insieme, rossi e neri».
Ma perché i giovani non fanno figli?
«Per motivi economici. Essere genitori comporta molti sacrifici e pochi svaghi».
La sua prima poesia è «Le candele».
«Quelle del santuario di Lantana, su quelle cime che vede. L’emblema della mia vita. Possono spegnersi per consunzione o per un colpo di vento. Mi sto consumando. Spero nella folata finale il giorno che perderò un po’ di questa apparente lucidità. Non vorrei vivere da rimbambito, essere di peso ai miei cari».
Crede nell’aldilà?
«Mi faccio tante domande. Prego».
Ha paura della morte?
«Per nulla. È un evento naturale».
Francesco Petrarca scrisse a Giovanni Boccaccio: «Spero che mi colga mentre sono intento a leggere o a scrivere o, se a Dio piacerà, mentre prego e piango».
«Mi piacerebbe che mi cogliesse mentre piango, però da solo. Quando scrivo, spesso mi capita. A quel punto so che si commuoverà anche il lettore. E mi chiedo: com’è uscita questa roba dalla testa di uno come te, meno che mediocre?».
Ma lo scopo della vita qual è, Vezio?
«Conoscere l’amicizia».