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 2020  agosto 23 Domenica calendario

Il debole confine tra naturale e artificiale

Cosa c’è di più naturale della pace campestre, di un sentiero che si snoda fra gli ulivi o ai margini di un vigneto? Eppure quegli ulivi, quel vigneto, e anche un campo di grano, sono il paesaggio più artificiale che ci sia, frutto di una forzatura ecologica e tecnologica. Ci siamo così abituati a vedere contrapposte, tanto sui giornali quanto nei blog e nella pubblicità, le categorie di «naturale» e «artificiale», la prima associata al bene e la seconda al male, che non ci facciamo più caso (se ne è lamentato, qualche anno fa, Antonio Pascale, in un bel libro, Scienza e sentimento, Einaudi).
Ma le cose sono più complicate di così, e non da oggi, ma da millenni; parlare a vanvera di natura potrà anche andar bene per un suggestivo spot in tv, ma non aiuta a comprendere. Scrive Michele Morgante: «Il contributo maggiore allo sviluppo dell’agricoltura è riconducibile alla modifica dei patrimoni genetici delle piante, avvenuta migliaia di anni prima dello sviluppo delle biotecnologie». Semi che non cadono spontaneamente, o resistono meglio alla siccità; e frutti più grandi, meno acidi e con maggior contenuto di zuccheri: solo grazie a queste e altre modifiche, introdotte dall’uomo attraverso secoli di tentativi (un «tiro a segno con gli occhi bendati»), si è arrivati a produrre le varietà che fanno bella mostra di sé sugli scaffali dei fruttivendoli.
Michele Morgante, una delle figure di rilievo della genetica italiana, e un’autorità a livello internazionale nello studio dei genomi delle piante, dimostra anche doti di affabulatore in questo suo libro, I semi del futuro. Dieci lezioni di genetica delle piante. Parte del merito va anche a Caterina Visco, che lo intervista e il cui nome compare nel risvolto (ma chissà perché non in copertina). La materia, c’è poco da fare, è complessa: sia dal punto di vista strettamente tecnico, sia per le sue tante implicazioni etiche, economiche, ambientali e, direi, anche psicologiche.
Da qui, credo, la scelta di frammentarla in una serie di domande semplici: a cui, per forza di cose, non si può sempre rispondere in maniera altrettanto semplice. Anche questo, però, è un merito del libro: temi che richiedono una riflessione attenta non si possono ridurre a semplici slogan, e quindi è giusto chiedere al lettore un piccolo sforzo, ogni tanto. Da quando l’uomo manipola geneticamente gli organismi? C’è una linea netta fra gli OGM, gli organismi geneticamente modificati, e quelli che definiamo naturali e portiamo ogni giorno in tavola? E poi la domanda delle domande: come possiamo dar da mangiare a miliardi di persone, senza avvelenarle e senza per questo danneggiare ulteriormente il pianeta?
Morgante comincia dall’evento forse più importante della storia dell’umanità. Diecimila anni fa, con l’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento degli animali, smettiamo di essere una specie affamata e perennemente in moto alla ricerca di qualcosa da mangiare. Impariamo a produrre il cibo, diventiamo sedentari, fondiamo le prime città. Si chiama rivoluzione neolitica, e come ogni rivoluzione tecnologica ha richiesto ingegno e inventiva. Il risultato è stato una serie di cambiamenti profondi: nel paesaggio, nella biologia delle piante e nella nostra alimentazione. Le piante che coltiviamo non sono più in grado di sopravvivere senza di noi, in un ambiente naturale; e noi non saremmo in grado di sopravvivere senza di loro. Si è trattato di vere manipolazioni genetiche, condotte da intelligenti e sconosciuti sperimentatori preistorici nel Vicino Oriente, in Cina e nell’America centrale.
Oggi nei laboratori si continua a sperimentare come facevano loro, a fare incroci e a commettere errori, ma con un grande vantaggio: grazie alle nostre conoscenze genetiche il margine di errore si è molto ridotto. Questo ci permette operazioni stupefacenti: sappiamo individuare geni che hanno effetti benefici; abbiamo imparato a trasferirli dalle cellule di una pianta a quelle di un’altra; e sappiamo stimolare queste cellule a svilupparsi in piante complete. Le fragole del supermercato sono più grandi di quelle del bosco perché abbiamo moltiplicato i cromosomi delle loro cellule; il mais l’abbiamo fatto diventare giallo nel Novecento, prima era bianco; il grano duro Creso con cui si fa la pasta, vanto della cucina italiana, è stato ottenuto bombardando le piante con neutroni e raggi gamma; gli esempi potrebbero continuare all’infinito.
Dunque, dove stia il confine fra naturale e artificiale non è affatto chiaro: si potrebbe ragionevolmente sostenere che ogni pianta che mangiamo, a parte i frutti di bosco, è tecnicamente un OGM.
Tutto bene, tutto facile, dunque? Naturalmente no, altrimenti non saremmo qui a discuterne. Dei difficili tentativi di stabilire norme che regolino la ricerca e la commercializzazione di OGM ci parla la nona di queste dieci lezioni, intitolata, appunto, Regole. Regole che sono difficili da definire, perché da un lato c’è un’opinione pubblica poco informata e spesso allarmata, che richiede estrema prudenza; dall’altro una ricerca genetica che ha fatto passi da gigante e vorrebbe vederne le applicazioni nei campi coltivati; il tutto in un contesto in cui la sfida è produrre cibo in modo sostenibile per una popolazione mondiale in continua crescita. Qui vale la pena di sottolineare la parola sostenibile. L’orto dietro casa e la lattuga a km zero vanno benissimo, ma non è a loro che possiamo ricorrere per sfamare miliardi di persone. E se è così, ed è sicuramente così, quali tecnologie comportano rischi, per la salute o per l’ambiente, e vanno disciplinate, e quali vanno incoraggiate? «Produrre alimenti ha un costo dal punto di vista ambientale», sottolinea Morgante, e quindi l’obiettivo di tutti, degli scienziati come degli agricoltori e dei consumatori, dev’essere quello di ridurlo.
Se si vuol fare in modo che la discussione su questo obiettivo comune non sia viziata da pregiudizi e ideologie, ma si basi il più possibile su dati di fatto, un libro come I semi del futuro è un ottimo punto di partenza.