Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  agosto 23 Domenica calendario

Chiude l’ultima miniera inglese

Scavatrici spente, camion in rimessa, elmetti al chiodo. La miniera di carbone a cielo aperto di Bradley, a Durham, ha chiuso per sempre. Un altro simbolo della storia industriale britannica finisce in soffitta. La decisione è arrivata dopo che l’azienda proprietaria del sito, il Banks Group, si è vista respingere il piano di ampiamento con cui chiedeva di portare la produzione da 150mila a 240mila tonnellate di carbone all’anno. Iniziativa incompatibile – hanno risposto le autorità locali e nazionali – con il progetto di realizzare nel più breve tempo possibile la conversione ecologica dell’economia britannica.
Il declino delle miniere di carbone, quelle hanno rappresentato il motore della rivoluzione industriale e che fino alla fine del 1960 sono state la principale fonte di energia prodotta nel Regno Unito, è cominciato negli anni 80 ma si è aggravato agli inizi del 2000. La cronaca ha raccontato il tramonto di siti “simbolo” della storia nazionale. La più antica miniera a ciclo continuo del mondo, come lo è stata Tower Colliery, in Galles, rilevata dai suoi stessi minatori per evitarne la chiusura, ha serrato i battenti nel 2008. Kellingley, in Yorkshire, la più grande d’Europa e per questo sopranominata “Big K”, ha smesso di funzionare nel 2015. La stessa Bank Group aveva chiuso altri due siti a cielo aperto, a Shotton, in Northumberland, due mesi prima di annunciare lo stop allo stabilimento di Durham. Pochi altri siti restano al momento attivi nel Regno Unito, in particolare in Scozia e Galles, ma, certo, la sensazione è che il Paese abbia definitivamente voltato pagina decretando la fine dell’età del carbone.
Ogni volta che un giacimento chiude c’è una comunità, spesso legata da generazioni ai ritmi del lavoro in miniera, sottoterra o a cielo aperto, che soffre la perdita di posti di lavoro. Gli operai del settore, compresi quelli di Bradley, fanno fatica a rassegnarsi. ll fabbisogno di carbone, certo, è crollato negli ultimi tempi (lo scorso anno è stato di 9 milioni di tonnellate, nel 1970 era 157 milioni) tanto da portare l’Hargreaves Services, azienda con 150 anni di storia nel settore, a dichiarare apertamente che «il carbone nel Regno Unito ha un futuro limitato». Ciò è dovuto anche alla determinazione con cui il governo vuole azzerare la produzione di elettricità ottenuta dal 2025. Ma, va detto, c’è ancora una fetta consistente che viene importata dall’estero, soprattutto da Stati Uniti, Russia e Australia. Lewis Stokes, che per Banks Group gestisce le relazioni con la comunità locale, si chiede: «Se ci sono attività, come per esempio la produzione di zucchero, che necessitano ancora di carbone per andare avanti perché non dobbiamo essere noi a farlo?». La pressione dei gruppi ambientalisti che si battono in tutto il paese per contenere, se non bloccare, le miniere ha avuto un certo peso nella decisione di non concedere a Banks Group l’autorizzazione all’ampiamento dei siti a Durham. Per tre giorni consecutivi, lo sorso febbraio, attivisti dell’Extintion Rebellion mascherati da canarini in gabbia (a simboleggiare la prigione che la natura soffre con l’inquinamento) hanno presidiato il sito di Bradley per esprimere contrarierà a un eventuale via libera. L’effetto della manifestazione ha sortito l’effetto sperato. Il prossimo impianto a chiudere, probabilmente a ottobre 2022, dovrebbe essere quello, sempre a cielo aperto, di Ffos– y–fran, a Merthyr Tydfil, nelle valli del Galles meridionale.