il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2020
Biografia di Alessandra Ferri raccontata da lei stessa
Totò, modestamente, principe della risata lo nacque; e senza falsa modestia, paragoni, giustificazioni, magari il buon rifugio del “se lo dicono gli altri”, anche Alessandra Ferri individua nei geni la grazia della sua vita: “Da sempre penso solo alla danza. Da sempre. (Abbassa leggermente il tono) Io sono nata ballerina e quando da bambina arrivava l’estate, aspettavo sotto l’ombrellone la fine dei giorni di vacanza per poter tornare a indossare le scarpette e ritrovarmi sulle punte”.
E così già ragazzina entra alla Scala; già adolescente lascia Milano per la Royal Ballet School di Londra; già diciannovenne diventa prima ballerina; già 22enne si trasferisce all’American Ballet Theatre di New York, sotto il consiglio di sua divinità Mikhail Baryshnikov.
È tutto un già.
Anche quando parla sembra tutto semplice, naturale, senza trucco dentro e fuori (“li utilizzo solo in scena, altrimenti preferisco stare senza”); quando parla preferisce guardare negli occhi l’interlocutore, danzare con chi ha davanti, capire se il partner dell’occasione è affidabile o meno, quindi rifiuta il semplice telefono anche se vive a Londra (“Almeno in video…”), altrimenti non è a suo agio.
Come va in Inghilterra?
Sono tornata da poco, prima stavo a Milano; comunque qui è strano, c’è una grossa differenza, prendono tutto alla leggera, le persone non vivono la nostra paura.
Mentre in Italia…
Sono arrivata il 20 marzo nel pieno dell’incubo, e attrezzata: vista l’incertezza sul prossimo futuro, avevo imbarcato la sbarra, solo che me l’hanno persa e poi ritrovata. Meno male.
Quante ore si allena al giorno?
In casa almeno due ore, due ore e mezza; poi da giugno ho avuto accesso a una sala di danza, e per fortuna sono riuscita a mantenermi, soprattutto sul piano mentale.
Cosa temeva?
Di perdere la motivazione quotidiana: quando ti annullano la stagione, e non mi era mai successo, è faticoso trovare i giusti stimoli.
Ci vuole disciplina…
Per me è una passione, non un lavoro; (cambia tono) il talento è composto da vari tasselli, come la predisposizione fisica e psicologica, o l’umiltà davanti al proprio talento, per mantenere lo “strumento” accordato.
Quindi?
La disciplina ci vuole, ferrea, come la capacità di focalizzarsi, però rientra all’interno della passione, senza pensare solo al risultato finale, che è lo spettacolo.
Quotidianità…
È un rapporto che sviluppi con te stessa; è estremamente difficile ballare la danza classica, non molti si rendono conto delle difficoltà, e forse l’unico metro per spiegare quanto è impervio il percorso, è l’età: è fondamentale iniziare da giovanissimi.
E…
Quando sono entrata alla Scala avevo dieci anni e all’audizione siamo passati in dodici su duecento, e appena in due siamo arrivati in compagnia; (sorride) poi per raggiungere il mio livello parliamo di una scrematura su migliaia di ballerini. (Pausa) Chi arriva è perché vive la passione per la danza non per lo spettacolo.
A quindici anni ci vuole carattere per lasciare la Scala…
È vero, e non è stato facilissimo, soprattutto lasciare la mia famiglia, ma ho seguito il mio sogno; già d’allora e anche dopo, non mi sono mai fermata a uno stadio, mai adagiata.
I suoi amici?
Erano tutti nell’ambito della danza, sono cresciuta dentro la Scala.
A 10 anni, oltre a danzare, cosa?
(Sorride) Non ho hobby; se uno ha una passione così grande, diventa la tua vita: quando me ne distacco, soffro, sto male, sento sacrificata un’enorme parte di me.
Sì, ma a 10 anni?
Volevo ballare, le mie energie erano su quello: quando chiudeva la scuola e seguivo mia mamma a Milano Marittima, non ne potevo più, stavo sul lettino e immaginavo balletti.
La sua prima coreografia.
A 3 o 4 anni mamma metteva i dischi, Giulietta e Romeo o Il lago dei cigni, e io ballavo sotto a un tavolo, creavo delle storie, magari diventavo la principessa; quando si parla di destino e indole, è vero: sono nata con un qualche cosa dentro, da sempre, non ho mai voluto impegnarmi in altro e la mia famiglia non era neanche particolarmente interessata alla danza o al teatro.
Però a un certo punto ha smesso.
E per tanto tempo mi sono chiesta “come mai?”.
Risposta?
Tanti motivi: un po’ ero stanca, il mio corpo sentiva il bisogno di uno stop, e in quegli anni non mi sono mai allenata.
Mai?
Per me ballare è qualcosa che trascende, non perché mi piace muovermi, ma come assoluta esigenza interiore; danzare in casa diventa deprimente, un livello amatoriale che non mi appartiene, e ho ceduto solo in questi mesi per il Covid; (ci pensa e sorride) mi correggo: anni fa ho ballato in casa con le mie figlie, ma erano piccole, oggi mi manderebbero a quel paese.
Ha sperato seguissero la sua strada?
No, assolutamente. Ripeto: o hai la passione e devi farlo, sei costretto, o meglio evitare, non le avrei volute come saltimbanchi.
Secondo alcuni i talent hanno permesso ai ragazzi di avvicinarsi alla danza, per altri l’hanno svilita…
Sono vere entrambe le tesi: è reale il coinvolgimento di tanti giovani, ma la danza è un’arte molto raffinata, e non basta sapersi muovere; (resta in silenzio) in inglese distinguono tra entertainment e art, e questi programmi puntano solo sull’intrattenimento, per me è arte e va celebrata solo in un tempio, che è il teatro, e in un certo modo e a un certo livello.
Primo articolo della Costituzione secondo Alessandra Ferri.
Il rispetto; (ci pensa) l’uguaglianza e il rispetto.
Litiga mai?
Raramente, molto raramente: non mi piace, mi spaventa.
Tra odio e indifferenza?
L’odio lo tengo lontano, preferisco osservare e prendere le distanze.
Per molti attori il palco allevia o annulla ogni dolore fisico e mentale.
Ho visto artisti malati di Parkinson salire su quelle assi e per un’ora annullare il tremolio. Si trascende. (Sorride, lieve) Ho una caviglia che mi dà molti problemi, mancano due legamenti e la cartilagine, e i fisioterapisti si stupiscono anche solo nel vedermi camminare.
Oltre i limiti.
Adesso per il Covid non si potrà più ballare se c’è la febbre, ma veramente ho assistito a delle magie, con ballerini doloranti, malati, anche solo raffreddati, salire sul palco e non sentire altro che l’arte pervadere le loro emozioni.
Ha danzato con Baryshnikov.
Misha è stato per me un grandissimo maestro, il più grande al mondo, e ho toccato con gli occhi la sua serietà, cosa si aspettava da se stesso, la perfezione; quando l’ho conosciuto io avevo 21 anni e lui 36…
Ed era bellissimo.
Lo è tuttora, poi è affascinante; guardando lui ho compreso che non basta il solo talento.
L’ha stupita quando è diventato una star della serie tv “Sex and the city”?
No, perché era già una star di Hollywood, aveva girato Due vite, una svolta, era inserito in quella dimensione; lui è sempre stato così.
Lei nella New York anni ’80, così giovane.
Non mi sono trovata subito bene, provenivo da una situazione molto protetta come quella londinese, dove ci conoscevamo tutti sin da quando eravamo ragazzi; quando sono arrivata negli Stati Uniti, sia la città che la compagnia, erano porti di mare, un caos pazzesco, con colleghi che provenivano da ogni lembo del pianeta.
Altra filosofia.
Per loro c’era un’idea di selezione naturale: chi è bravo regge, lo spettacolo poteva andare bene o male, senza alcuna seconda chance.
Scuola dura.
Durissima, e pure New York adottava la stessa filosofia: la gente viveva solo per lavorare, per riuscire, per raggiungere il proprio obiettivo, era più importante sopravvivere che vivere.
E lei?
È stato più duro il passaggio da Londra a New York che da Milano a Londra, e nonostante l’età; (cambia tono) e poi, a quel tempo, la Grande Mela era pericolosa, specialmente dove era la sede della compagnia.
Ha mai rischiato di perdersi?
Verso i 23 o 24 anni ho cominciato a sentire la pressione rispetto alle attese; da me si aspettavano sempre qualcosa di speciale e ho iniziato a perdere la consapevolezza.
Quale consapevolezza?
Che devo ballare perché è una mia esigenza, e non per la carriera o gli altri. Ed è stato pericoloso, andare in scena era diventato angosciante, non credevo possibile soddisfare le attese di tutti e mi sono sentita sola.
Come l’ha superato?
Molto mi ha aiutato l’incontro con Fabrizio (Ferri, celebre fotografo e suo ex marito); la nostra unione, le nostre figlie, mi hanno permesso di liberarmi degli altri.
Come ha vissuto la gravidanza?
È stato interessante perché ho una padronanza incredibile del mio corpo, sono in grado di comandare qualsiasi muscolo, anche il più piccolo e nascosto; invece in quel momento mi era impossibile. Comunque è il post-gravidanza la fase più dura per una ballerina.
Cosa c’è sempre nella sua valigia?
Le scarpette da punta, senza mi sento persa.
Un personaggio letterario che ama.
Carmen e per la sua indipendenza, pure davanti la morte.
Legge l’oroscopo?
Non più, me ne sono liberata: preferisco credere di potermi creare la quotidianità.
Un vizio.
Sono un po’ pigra; se non ballo, posso stare ore in casa a bere tè e leggere.
Scaramanzia.
Davanti al gatto nero mi fermo sempre, e pure le scale, non ci passo sotto; mentre a teatro non lo sono, altrimenti è un inferno.
Lei chi è?
Una donna autentica nella sua forza e fragilità, e voglio essere entrambe.
(Canta Fiorella Mannoia in “Quello che le donne non dicono”: “Siamo così, dolcemente complicate, sempre più emozionate, delicate…”).