Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2020
Perché le razze non esistono
La prima volta che ho avuto occasione di discutere il concetto di razza con un pubblico non scientifico ma colto fu quando lavoravo all’Università di Ibadan, in Nigeria, nel 1966. Passai in rassegna le classificazioni delle razze umane elaborate da vari antropologi: ed era facile spiegare che se alcuni propendevano per 3 razze, altri per 6, ed altri per 135, voleva dire che o gli antropologi erano incompetenti, o il concetto era semplicemente erroneo. La conferenza andò bene, ma avevo un ovvio vantaggio: l’uditorio non era razzista, e se qualche razzista c’era, si guardava bene dal dircelo. Insomma, sfondavo un uscio aperto. Da allora Luca Cavalli-Sforza (particolarmente nella enciclopedica monografia The History and Geography of Human Genes, pubblicata nel 1995 con Paolo Menozzi ed Alberto Piazza) forse più di chiunque altro ha dimostrato ed ampiamente divulgato la nozione che non vi è fondamento per identificare, nell’ambito della specie umana, razza alcuna. Tutti gli argomenti per negare l’esistenza delle razze umane che già potevamo annoverare nel secolo scorso sono stati enormemente rafforzati da quando – ufficialmente nel 2001 – conosciamo l’intero genoma umano: come esposto con chiarezza di recente da Guido Barbujani in queste colonne.
Eppure, l’idea della razza è dura a morire. Un motivo è quasi banale, ma non per questo poco importante. Quando a New York si incontra qualcuno per la strada, non si sa se il suo gruppo sanguigno sia A o B, perché i geni che determinano il gruppo sanguigno non danno una differenza visibile: di conseguenza, a nessuno verrebbe in mente che tutte le persone di gruppo A costituiscano una razza. D’altro canto se si incontra, ad esempio, la figlia del sindaco Bill de Blasio, è facile classificarla come «black» (anche se il colore della sua pelle è simile a quello di una ragazza «white» molto abbronzata), perché la pigmentazione cutanea o le caratteristiche dei capelli, determinate dai rispettivi geni, sono visibili. Se fin da bambino hai sentito chiamare black chi ha certe caratteristiche visibili, e hai sentito dire che black è una razza, dovrai compiere un ragionamento conscio e non istintivo per smontare una siffatta classificazione dell’umanità.
Un secondo motivo è forse molto antico. Gli umani – originati probabilmente in Tanzania, dove lavoro da qualche anno – hanno vissuto per generazioni in piccoli gruppi familiari, e solo molto dopo in gruppi più numerosi che, cominciando ad avere una struttura sociale, sono chiamati tribali – siamo nella pre-preistoria, forse 10mila anni or sono. Possiamo facilmente immaginare che l’appartenenza a una tribù abbia alimentato un senso di identità, e di difesa rispetto ad altre tribù; e che, in parallelo alla funzione di difesa, si sia sviluppata anche una tendenza all’aggressione. Da allora le tribù sono divenute popoli, poi nazioni, poi Stati, poi federazioni – e speriamo questo valga alla fine anche per l’Europa. Dopo questa macro-evoluzione delle società umane, senso di identità, atteggiamento difensivo e aggressività persistono, e questa triade mi sembra assai caratteristica del razzismo di oggigiorno.
Per un genetista contemporaneo le razze umane non esistono, e perciò il razzismo è infondato e insensato. Ma nella società reale in generale il rapporto è forse invertito. Se in una cittadina si vedono dei giovani locali che si comportano male, sono ragazzacci che vanno corretti; ma se per caso quei giovani, anziché essere locali, sono immigrati dal Senegal, o dal Bangladesh, o anche soltanto dall’Italia meridionale, ecco che sono considerati di una razza diversa, e perciò incorreggibili. In questo contesto è il razzismo che viene prima, e genera poi l’idea della razza: non importa se l’idea è infondata.
Come si fa, allora, a combattere il razzismo? Nel 2018 «Scientific American» ha pubblicato una raccolta di saggi (intitolata Return to Reason), che affrontano il problema del negazionismo, ad esempio dei mutamenti climatici o dell’utilità dei vaccini; penso che vada aggiunta la questione razza/razzismo. Il tema centrale di quel volumetto è che le argomentazioni scientifiche da sole quasi mai vincono lo scetticismo anti-scientifico: occorre un approccio laterale piuttosto che frontale. Gleb Tsipursky propone una penta-modalità dall’acronimo EGRIP che, in drastica sintesi, penserei si possa applicare così al nostro caso. E = capire le Emozioni che generano il razzismo; G = identificare un obiettivo (Goal) accettabile, ad esempio l’immigrato lavoratore; R = creare un Rapporto non antagonistico con il razzista; I = stabilire una Informazione precisa: ad esempio, non c’è un solo gene in un popolo che non sia anche in tutti gli altri popoli; P = rinforzo Positivo: la maggior parte dei razzisti riconosce elementi positivi anche in quelli che disprezzano (vedi jazz; vedi 7 su 8 atlete black nelle ultime finali olimpiche dei 100 metri). Nello stesso volume un altro saggio afferma l’impatto del consenso scientifico: un conto è dire che Barbujani e Luzzatto non credono alle razze; ben diverso è il fatto che 95% degli scienziati sono d’accordo che il concetto di razza è sbagliato.
Dalla genetica, che ha smentito il concetto di razza, ho osato sconfinare nel terreno non mio della paleo-antropologia, della sociologia e dell’analisi motivazionale: ma non è colpa mia se il razzismo, diversamente dalla razza, non è un problema scientifico. Credo che solo una educazione civica che cominci dalle scuole elementari potrà dissociare il senso di identità e di appartenenza di ognuno, che va rafforzato, dall’aggressività verso gli altri. Nel frattempo, noto segni positivi. L’ondata di indignazione sollevata dall’omicidio di George Floyd non ha avuto connotati di colore, e lo slogan Black Lives Matter non è stato solo nelle strade. Le società scientifiche di cui sono membro, come la American Academy of Arts and Sciences, la American Society of Hematology, la Protein Society, hanno attivamente partecipato. È da sperare che non vi siano più eventi tali da causare altre ondate; e che lo slogan del futuro sia semplicemente human lives matter.