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 2020  agosto 23 Domenica calendario

Il mio Bach, una cura per l’anima

A cinque anni stavo già seduto al pianoforte, nella mia casa di Budapest, e nelle prime lezioni con Elisabeth Vadász, all’Accademia Liszt, leggevo i piccoli pezzi per Anna Magdalena, o i piccoli Preludi: così, “subitamente”, mi innamorai di Bach. Johann Sebastian Bach era stato un grande insegnante, fatto decisamente unico nella storia dei compositori. Aveva trascorso gran parte della vita in mezzo ai bambini, circondato dai venti figli e dagli innumerevoli allievi. Aveva perciò sempre composto pensando all’educazione, alla didattica, partendo da brani molto semplici da eseguire, come i Preludi o le Invenzioni a due voci. In questo modo lasciando ai posteri una eredità tutta speciale: ossia la possibilità che anche un bambino – musicale – potesse da subito, sin dall’inizio, suonarlo.
Io ero entrato nel suo mondo anche attraverso i dischi, ad esempio ricordo le registrazioni dei Brandeburghesi oppure della Suite in si minore, per flauto. Però a cambiarmi davvero prospettiva fu il soggiorno a Londra, dove ero andato per studiare con il grande George Malcolm, quando avevo undici o dodici anni. Lo avevo incontrato per la prima volta a Budapest, era venuto per tenere un concerto e gli avevo girato le pagine: non ero certo un bravo pianista, no, ma sicuramente un volta-pagine insuperabile! Malcolm impersonava la rinascita del clavicembalo. Ovunque veniva celebrato. Ma in realtà non era solo clavicembalista. Incarnava davvero la figura del musicista universale: suonava l’organo, era maestro di coro, dirigeva, componeva e improvvisava, tutto con estrema naturalezza. Con lui ho studiato tanto Bach, sia sul pianoforte sia sul clavicembalo, con grande libertà di pensiero. Imparando che nella musica non importa tanto lo strumento, quanto lo stile, cioè l’aderenza alla cultura del tempo. Come ci spiega bene il libro scritto da Carl Philipp Emanuel, il secondo figlio maschio di Johann Sebastian, sull’arte di suonare il Clavier. È un trattato. La mia Bibbia.
Con Malcolm ho imparato a suonare senza pedale, una tecnica radicalmente nuova allora. In Ungheria avevamo una eccellente scuola pianistica. Conservativa, come era dappertutto nel Novecento. Alla maniera di Busoni, con le trascrizioni, magniloquenti e tanto pedale. Ora il punto non è se usare o meno il pedale, ma il risultato che si offre agli ascoltatori, che devono ricevere un suono non secco ma di estrema chiarezza nella polifonia. In Bach non esiste il concetto di melodia accompagnata. Nel suo tessuto musicale le voci sono intrecciate e indipendenti, ciascuna alla pari con le altre, sempre. Così una Fuga può anche rappresentare lo specchio della società umana (quando funziona), dove ognuno nella diversità è importante. Certo ci sono momenti in cui un altro può emergere, ma poi subito rientra nell’intreccio. E la forza simbolica della sua musica consiste proprio in questa equilibrata e densa polifonia.
A quindici anni ho scoperto che Bach era il più importante. Un Dio. Poi certo, ci sono anche i profeti. Ma lui era Dio. Per la spiritualità, l’umanità. Perché scriveva per una comunità – lui molto religioso e osservante – e per ogni domenica creava una Cantata. Questo in controtendenza, rispetto ai compositori successivi, segnati da uno spiccato individualismo. Bach, e i predecessori, erano come gli artisti del Duecento e del Trecento, in Italia, che lavoravano al servizio della chiesa, quasi senza nome. In Bach avverto sempre la loro stessa modestia: scrive per noi.
In una combinazione intellettuale, non rigida, per regalarci emozioni enormi. Emozioni intelligenti.
Anche sul piano fisico, manuale, restituisce gioia: ricordo che da bambino mi imponevano esercizi pianistici terribili, noiosi, per tenere la tecnica ad alti livelli. Quando ho scoperto Bach mi sono accorto che non ne avevo più bisogno. Mi bastava (e mi basta tuttora) un’ora di Bach, a inizio giornata, per ottenere una pulizia dell’anima (e del corpo). Suono qualcosa dalle Invenzioni, dalle Suite, dai Preludi e Fughe, e mi sento profondamente bene. Anche in concerto, se possibile presento solo Bach. E vedo che anche i giovani, che magari sono lontani da Mozart, Beethoven, Chopin, con Bach ne sentono la spiritualità, non solo la forza ritmica.
Bach è un mondo: per Pasqua abbiamo le Passioni, e quella di Matteo incarna un miracolo della nostra cultura, insieme alla Messa in si minore. Le ho dirette, non perché sia un direttore, ma perché sono curioso. Mi hanno aperto altri orizzonti, nel lavoro col coro, coi cantanti. Mi colpisce che lui, protestante, scriva una messa cattolica, in gara con la grande tradizione di questa forma. Superando tutti. Come con l’Arte della fuga con le Variazioni Goldberg: dove arriva Bach, arriva ai vertici. Qualcuno si chiede come mai non abbia mai toccato l’opera. Ma non c’è altra risposta che la sua vita, distribuita tra Weimar e Lipsia, cioè tra due città dove non c’era un grande teatro, come invece a Dresda. Ed è un errore immaginare le sue Passioni, che pure raccontano un dramma, siano teatro. Bach non è un talento teatrale. Lo è Händel, suo esatto coetaneo, che venne infatti in Italia per studiare. Bach no. Eppure lui, che non andò mai fuori dalla Germania, ha scritto quel delizioso ritratto dell’Italia che è il Concerto italiano. Era un uomo molto colto, studiava sempre. Dalle musiche che trascriveva nelle biblioteche immaginò e ricreò quei maestri italiani e francesi della seconda parte del Clavier-Übung: il Concerto italiano (nel titolo originale «nach italienischen Gusto») e l’Ouverture francese («nach franzosischer Art»). È interessante sottolineare come il Concerto italiano sia un concerto senza orchestra, dove i due manuali rappresentano ora il solista, ora il tutti degli strumenti, in combinazione perfetta. Non riesco a immaginare un omaggio all’Italia più grande del movimento centrale, Andante, che guarda a Benedetto Marcello e a Vivaldi con una melodia bellissima e infinita, per la mano destra, mentre la sinistra tiene un ostinato che è un vero battito del cuore. Lo stesso modello Bach lo userà nella venticinquesima variazione delle Goldberg, l’Adagio in sol minore, anch’esso in stile italiano. Così perfettamente identificato, miracoloso, in un uomo che non aveva mai viaggiato, come facevano tutti, dai grandi pittori fiamminghi e olandesi, fino a Mozart (che è per metà italiano).
Oggi siamo in molti a suonare Bach col pianoforte, mentre non era così negli anni Settanta, quando i musicologi e i critici lo volevano obbligatoriamente al clavicembalo. Io credo che dobbiamo essere aperti a diverse interpretazioni, perché Bach, come scriveva Schumann, è il pane quotidiano. E se i violinisti hanno le Sonate e Partite, e i violoncellisti le Suite, noi pianisti-clavicembalisti-organisti abbiamo un tesoro. Bach al pianoforte non rappresenta una trascrizione: a casa ho due antichi clavicordi, dal suono delizioso, intimo; perfetti in una piccolissima stanza, per pochi amici. Ideali per non disturbare i vicini! Delicati, col piccolo vibrato verticale, molto diversi dal clavicembalo. No, non lo amo. Adoro invece il clavicordo. È il mio maestro. All’inizio sembra flebile, debole, ma se apri le orecchie senti una incredibile ricchezza di colori, tanto che quando passo al pianoforte rimango poi influenzato dalla sonorità del clavicordo. Non è una trascrizione Bach al pianoforte, perché la frase prende solo una diversa sonorità, non viene adattata. Come invece si fa in questa epidemia di trascrizioni, oggi di moda, dove si cambia tutto, dalla polifonia alle tonalità. Prendiamo le Goldberg, uno dei sommi capolavori: ognuno certo vorrebbe farle proprie, ma se le suona un trio d’archi non assomigliano più all’originale. E poi queste variazioni, così pianistiche, così virtuosistiche, perdono l’essenziale: sono un tour de force, se le suona una persona. In tre, cinque o dieci, allora non sono così interessanti.
Bach è enciclopedico: non si ripete mai. Cerca un problema – ad esempio la polifonia nel violino solo – e lo risolve. Fine. Non gli interessa più. Nei sei Brandeburghesi ciascuno affronta e chiude una diversa combinazione strumentale. Poi chiude, passa ad altro. Le Goldberg hanno poche variazioni, solo trenta: essenziali, individuali, mai ripetitive, uniche. Come la scienza. Perché per Bach la musica è arte e scienza. Mai divertimento. Anche se l’umorismo nella sua scrittura affiora sempre, basti al Quodlibet nell’ultima delle Goldberg, dove cita canzoni popolari con testi assai volgari, che un ascoltatore dell’epoca avrà riconosciuto, divertendosi. Così c’è tutto in Bach – dramma, religione, spiritualità, tenerezza e humor – tutto l’arco delle emozioni umane.