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 2020  agosto 23 Domenica calendario

Lopetegui, trionfo al penultimo giro di lancette

Una delle frasi più citate, tra quelle pronunciate da un allenatore, appartiene a Vince Lombardi, coach di football: «Non importa quante volte cadi, ma quante volte cadi e ti rialzi». Esiste la variante di Joe Biden: «Non importa quante volte cadi. Quel che conta è la velocità con cui ti rimetti in piedi». Da venerdì c’è anche la versione di Julen Lopetegui: «Cadi pure, ricadi e cadi ancora, alla fine però resta in piedi». A quel punto avrai vinto e un motivo ci sarà stato.
Lopetegui è un post-destinato, di quelli che lasciano il radioso avvenire a un passo e un attimo prima che il sole li illumini svaniscono. Lo fece da portiere, fallendo la doppia occasione della nazionale (per una lombalgia) e del Barcellona (per una serie di uscite a vuoto). Lo fece da commentatore televisivo, svenendo in diretta e di botto mentre, presentando i Mondiali del 2006, definiva “macchina rivoluzionaria” un monitor (emozione, calore, sfortuna: il video ancora spopola). Stava precipitando anche come allenatore. Invincibile sulla panchina della Spagna (fu lui a triturare Ventura al Bernabeu), si fece cacciare alla vigilia del debutto in Russia per andare a fallire nel Real Madrid senza più CR7 (che tentò di sostituire con una cooperativa o con Mariano Diaz). C’è chi va in depressione per molto meno. Resilienza è una parola che piace tanto, ma il concetto trova scarsa applicazione. Significa incassare il colpo e ricominciare da dove si può, con la forza che si ha, non credendo ai miracoli, ma lavorando perché i miracoli credano in te. E facendolo venti ore al giorno (come di lui dice il presidente del Siviglia).
Ora, guardando la squadra di Lopetegui scendere in campo per la finale di Europa League si aveva una strana sensazione di deja vu, ma non dovevamo vederci più? Banega, Suso, Ocampos, De Jong, Jesus Navas: giramondo incompresi, cavalli di ritorno, la selezione dell’ultima spiaggia. Messa insieme da un altro risospinto a riva, quel Monchi fuggito da Roma. E guidata da uno che, per rialzarsi, rialza gli altri. È una teoria dell’insieme che nessuna matematica dimostra: una squadra e un allenatore (ma anche un leader e un gruppo) danno il massimo quando sincronizzano i caratteri, trovandosi con le lancette allo stesso punto sul quadrante della propria storia. Lopetegui iniziò puntando sugli emergenti, venerdì ha scommesso su quelli, come lui, al penultimo giro. Dando loro un’occasione e un gioco.
A ogni inquadratura lo si vedeva più sgomento, in bilico sull’ennesima corda sul punto di spezzarsi. Davanti all’altra panchina: Antonio Conte, che poté impunemente annunciare di aver scelto il Chelsea alla vigilia di un europeo da ct e che non è mai contento dei suoi giocatori.
Quando, prima di una finale per club che coinvolge una squadra italiana, tutti annunciano il loro sostegno, si celebra un bel momento di teatro. Racconta Christian De Sica che il padre Vittorio e Roberto Rossellini seguivano davanti alla televisione la cerimonia degli Oscar cui era candidato per la miglior sceneggiatura Nanni Loy. De Sica si informava, sussiegoso e cortese, sul giovane collega emergente, Rossellini si profondeva in elogi. Poi venne annunciato che non aveva vinto ed entrambi si lanciarono in pernacchie e gesti dell’ombrello. Oggi traducibili in meme feroci. Va così. È una reazione che vale dieci lire e non c’è niente da capire. Meglio non farsi coinvolgere, non gufare, semplicemente scegliere la storia migliore. Quella che cade, ricade, cade ancora e resta in piedi.