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 2020  agosto 23 Domenica calendario

Reportage dal Mali che brucia

BAMAKO — Quattro ragazzini in mutande sguazzano felici in quella che fino a martedì scorso era la piscina del figlio del presidente del Mali. Assieme al rogo dell’ufficio del ministro della Giustizia e ai banani divelti nel giardino del capo della sicurezza, il bagno dei bambini di strada nella villa saccheggiata del rampollo presidenziale è una delle poche immagini che rimarranno del golpe incruento con cui i militari hanno deposto Ibrahim Boubacar Keita, detto Ibk.
Della sua destituzione non si rammaricano né gli ex coloni francesi grazie ai quali sette anni fa vinse le elezioni né il popolo maliano ridotto alla fame da una crisi economica senza precedenti e funestato dalla ferocia di gruppi jihadisti sempre più numerosi e agguerriti. Il putsch s’è risolto in poche ore, con una ventina di arresti tra le più alte cariche dello stato. Perfino la sua dinamica è apparsa inconsueta poiché ad annunciare il passaggio di poteri non sono stati uomini in divisa militare, com’è prassi in casi del genere, bensì la vittima stessa del complotto, ossia Ibk, che dalla caserma dov’è stato imprigionato, martedì notte ha prima annunciato le sue dimissioni, poi lo scioglimento del parlamento e del governo. Tanto che la mezza dozzina di colonnelli che adesso comanda il Paese si rifiuta di usare la parola “golpe” perché sostiene di non aver infranto nessun «ordine costituzionale».
E così la pensano anche le migliaia di maliani scese in piazza venerdì sera per celebrare la fine del vecchio regime. Le stesse persone che da mesi chiedevano le dimissioni di Ibk e del suo governo, con enormi manifestazioni organizzate nella piazza dell’Indipendenza di Bamako, alcune represse nel sangue, come quelle del 10, 11 e 13 luglio, quando la polizia lasciò a terra ventisei dimostranti.
«Ibk ha fallito ovunque e la sua rimozione è una vittoria per tutti noi», spiega l’attivista Ahmadou Boucoum che incontriamo in uno dei tanti grin della capitale, quei luoghi dove la sera gli uomini sorseggiano il té. «Spero soltanto che i militari mantengano la promessa di organizzare elezioni in tempi brevi». Un timore legittimo il suo, perché il golpe potrebbe vanificare gli sforzi del vasto movimento di contestazione popolare che nelle ultime settimane somigliava sempre di più a una rivoluzione. «Nonostante le dichiarazioni del Comité national pour le salut du peuple appena creato dai colonnelli, com’è già accaduto in altri Paesi africani c’è il rischio che i militari s’innamorino del potere e dimentichino di restituirlo ai civili», dice ancora l’attivista.
Al momento, i putschisti sembrano consapevoli dell’incontenibile energia della coalizione di protesta, che abbraccia l’insieme dei partiti politici e dei gruppi religiosi e che è concentrata soprattutto nel Mouvement du 5 juin-Rassemblement des forces patriotiques (M5-Rft). Non a caso Ismaël Wagué, portavoce del Comité, nel ringraziare i maliani per il sostegno ricevuto ha riconosciuto l’importanza della loro lotta e spiegato che i militari non hanno fatto altro che «portare a termine un lavoro iniziato dal popolo». Adesso è necessario «nominare un presidente ad interin, sia esso un civile o un militare», si è premunito di aggiungere Wagué, perché la rapida scelta di un nuovo capo della Stato è proprio ciò che chiedono i leader del M5-Rft.
A Bamako, città di 2,5 milioni di abitanti dove miseria e opulenza sono ovunque mischiate, e dove gli ampi viali sono stati progettati tra vicoletti in cui s’aprono buche profonde come tombe, martedì mattina la popolazione ha accolto con entusiasmo i soldati ammutinati provenienti dalla vicina caserma di Kati. È stata la folla a scortarli, o addirittura a guidarli, verso il palazzo presidenziale per arrestare Ibk e il suo primo ministro Boubou Cissé. Entrambi si trovano ancora imprigionati nella caserma degli insorti, dove per i colonnelli sono «trattenuti soltanto per motivi di sicurezza».
Ieri, nella capitale aleggiava la calma di un sabato qualsiasi, con poco traffico e con le bancarelle dei mercati ricoperte di cerata per proteggere la merce dalla tanta pioggia di questa stagione. Perciò il corteo degli ambasciatori dei Paesi dell’Africa Occidentale atterrati a Bamako nel primo pomeriggio non ha trovato nessun ingorgo mentre si recava a Kati dove ha incontrato la giunta al potere e anche il presidente deposto.
Sempre ieri, però, quattro soldati sono stati uccisi e uno è rimasto gravemente ferito per un ordigno esploso al passaggio del loro veicolo, nella regione di Koro, vicino al confine con il Burkina Faso. Sono già 200 i soldati morti dall’inizio dell’anno per mano jihadista e molti temono che i terroristi possano approfittare del colpo di Stato e della confusione politica generata nella capitale per guadagnare nuovo terreno al centro e a nord del Paese, come accadde dopo il golpe del 2012.
L’uomo forte della giunta, il colonnello Assimi Goita, 37 anni, che si è formato in Francia, Germania e Stati Uniti e che era a capo delle forze speciali durante l’attacco jihadista contro il Radisson Blu di Bamako nel 2015, ha giurato che rispetterà tutti gli impegni presi con Parigi nella lotta contro il terrorismo. In Mali, con l’operazione Barkane i francesi dispiegano oltre cinquemila uomini che compiono attacchi quasi quotidiani con i droni e con i corpi speciale in un’area vasta come l’Europa, perché operano anche nei Paesi limitrofi.
Adesso i generali francesi si dicono certi che la situazione peggiorerà. In gran parte del Paese non c’è né esercito né polizia, e per migliaia di chilometri nessuno controlla le frontiere con la Mauritania, l’Algeria, il Niger e il Burkina Faso. Liberi di muoversi indisturbati perché lo Stato è totalmente assente, per estendere il loro potere i gruppi jihadisti hanno cominciato a soffiare sul fuoco dei conflitti inter-etnici, esacerbando le antiche faide tra agricoltori e allevatori, tra Peul e Dogon. «Con il nostro intervento abbiamo messo il Mali al primo posto, perché c’è una grave crisi sociopolitica e di sicurezza e non c’è spazio per fare errori», ha detto l’altro ieri il colonnello Goita, che a Bamako dovrà fare i conti anche con l’opposizione religiosa al regime appena spodestato accusato dai gruppi musulmani d’incoraggiare l’omosessualità, di vietare le mutilazioni genitali e di voler accrescere il proprio potere modificando la Costituzione.
Tanti progetti di riforma così controversi che negli ultimi anni non hanno fatto che aumentare la popolarità degli imam più radicali e contrari alla presenza francese. Tra questi spicca Mahmoud Dicko, indicato da tutti come il principale artefice della caduta di Ibk.