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 2020  agosto 22 Sabato calendario

Al micromuseo come a casa

Castelbuono, provincia di Palermo, 1920. Il sindaco, Mariano Raimondi, promuove una colletta pubblica: i cittadini della piccola città decidono di devolvere parte delle proprie «ricchezze» (prodotti agrari e altro) per acquistare il Castello dei Ventimiglia, messo in vendita in un’asta giudiziaria. Si tratta del primo esempio di bene pubblico in Sicilia.
Nel 2019 è stato avviato un progetto, L’Asta del 1920, curato da Maria Rosa Sossai in collaborazione con Angelo Cucco. Sono stati organizzati incontri con i cittadini, con le associazioni, le confraternite e le scuole, durante i quali si è discusso delle iniziative per celebrare il centenario di quell’acquisizione «mitica». Da queste attività di engagement, di impegno, è nata la mostra La Stanza delle Meraviglie al Museo Civico di Castelbuono (diretto da Laura Barreca). Qui sono esposti più di 200 oggetti (per lo più risalenti alla prima metà del Novecento) prestati dai castelbuonesi. Un modo per mettere in scena un processo di riappropriazione della memoria collettiva, riaffermare il senso d’appartenenza, condivisione, solidarietà. Ecco l’inventario: strumenti di lavoro, indumenti, cappe, abiti delle confraternite, scarpe, documenti, monili, borse, gioielli, foto, insegne.
Questi utensili hanno assunto un inatteso spessore simbolico, acquistando la medesima qualità dei beni immateriali. Infine, i «feticci» dei castelbuonesi sono stati ordinati in un’installazione d’impronta poverista (curata da Pietro Airoldi). Un assemblage ispirato al Merzbau di Kurt Schwitters e, soprattutto, alle Wunderkammer create nel Cinque e Seicento: universi in miniatura capaci di destare stupore, prefigurazioni delle installazioni contemporanee, le camere delle meraviglie riunivano naturalia et mirabilia, scarabattole e manufatti, rivelando la volontà di alcuni nobili di catalogare ed esibire raccolte di souvenir, quadri e oggetti eccentrici e preziosi. Dunque, una mostra di taglio innanzitutto antropologico (più che artistico), nata nella periferia italiana. Che appare in linea con alcune istanze critiche emerse con forza nel dibattito museografico contemporaneo. Da un lato, il bisogno di ripensare la concezione del museo; dall’altro, l’intenzione di rimodulare l’idea stessa di opera.
Di queste istanze si è fatto interprete un grande scrittore profondamente interessato all’arte come il turco Orhan Pamuk, autore del Museo dell’innocenza collocato nel cuore di una Istanbul che prova a resistere al mito dell’Occidente. Forse sulle orme di certe invenzioni assurde di Jorge Luis Borges, Pamuk ha allestito, suddivisi in teche tematiche, oggetti reali appartenuti ai personaggi immaginari del suo omonimo romanzo (Il Museo dell’innocenza, Einaudi, 2009 ). Con un gesto addirittura scandaloso, il Premio Nobel per la Letteratura estrae dall’apocalisse della dimenticanza una vertiginosa pluralità di cose di uso quotidiano, rendendole memorabili. Le priva di ogni vocazione pratica, le sottrae al divenire del tempo per folgorarle in un’innocenza intemporale. Ponendo le basi per una poetica dell’immanenza.

Il senso di quest’avventura visionaria è in alcuni testi nei quali Pamuk ha detto di ammirare maestosi templi dell’arte come i Musei Vaticani, il Louvre, l’Hermitage o il Metropolitan: «Istituzioni che trasmettono il potere dello Stato e la storia del suo popolo (…), sempre più simili a parchi giochi o a centri commerciali». Ma egli ha confessato di prediligere soprattutto quelle realtà espositive marginali, che riescono a fare accedere «a un universo privato e alla visione del mondo di un individuo animato da una passione» e «mettono in vetrina l’inventiva e le biografie» di singole personalità.
Case e studi trasformati in minime gallerie aperte al pubblico, che lasciano affiorare affetti e passioni. Esempio per i musei di domani, i micromusei sembrano suggerire una strada alternativa rispetto ai modelli oggi imperanti. Si offrono come spazi di pensiero. Che non vogliono documentare la storia ma sono a misura d’uomo. Il futuro dei musei? «È all’interno della nostra casa», ama ripetere Pamuk. Un’affermazione, questa, che potrebbe essere collegata a quanto si legge nel Manifesto dei musei dei piccoli borghi e dei territori redatto da Laura Barreca insieme con l’economista Vincenzo Vignieri, l’antropologo Franco La Cecla e la curatrice Maria Rosa Sossai.
È qui il senso della filosofia sottesa al progetto L’Asta del 1920. Un invito a portarsi al di là di certe consuetudini consolidate: grandi mostre, eventi spettacolari, culto di un intrattenimento fine a sé stesso. Addio non-luoghi all’interno dei quali si organizzano défilé di gesti effimeri, di installazioni e performance. È venuto il momento di pensare a un museo «umano, troppo umano». Un archivio in divenire, dove radunare oggetti legati alla vita di ogni giorno, nei quali un determinato gruppo possa riconoscere sé stesso e la propria identità. Non cose anonime e mute, ma presenze che non contano in sé né si lasciano ridurre al proprio valore d’uso e di scambio, ma sono attraversate da storie e da memorie, investite dalle emozioni e dai simboli che uomini e società vi proiettano. Superfici su cui si depositano umori, nostalgie, istanti perduti. Del resto, ricordava Italo Calvino, «ogni uomo è uomo-più-cose, è uomo in quanto si riconosce in un numero di cose, riconosce l’umano investito in cose».
Il museo dei piccoli borghi, però, non deve solo accogliere un discontinuo archivio di orme di mondo su cui sono stati proiettati echi dei nostri affetti. Deve essere anche vicino a noi; aggregante, non elitario; radicato nel nostro contesto antropologico e culturale; attento alle comunità; con una programmazione rispettosa delle tradizioni locali. Inoltre deve configurarsi come luogo di «apprendimento consapevole», capace di assegnare alle «relazioni pedagogiche» e all’atto educativo una nuova centralità. In sintonia con quanto auspicato, nei primi anni Settanta, da Georges–Henri Rivière, l’erudito fondatore del Musée des Arts et des traditions populaires di Parigi: «Il successo di un museo non si valuta in base al numero dei visitatori ma al numero dei visitatori ai quali ha insegnato qualcosa». Territorio di formazione sociale, impegnato a promuovere partecipazione, tutela e valorizzazione, il museo dei piccoli borghi deve costruire «modelli condivisi e democratici», espressione del patrimonio sia materiale sia immateriale, del talento sia artistico sia artigianale.
Occorre, tuttavia, evitare la feticizzazione del già-fatto e del senza-nome: un rischio di cui, talvolta, sembra vittima La Stanza delle meraviglie. La sfida più ambiziosa, perciò, sta nel saldare senso delle radici e adesione al presente. Senza trascurare il gusto per la ricerca e la sperimentazione. Sfruttando anche le opportunità offerte dal web e dalle piattaforme digitali. Utopia? No. Nel tempo del Covid, segnato dalla crisi del turismo di massa nelle città d’arte, il museo dei piccoli borghi rappresenta una possibile, necessaria alternativa civile, altamente politica.