La Lettura, 22 agosto 2020
È la solastalgia, l’ansia per l’ambiente
All’alba del 14 aprile 2018 un avvocato in pensione di nome David Buckel uscì dalla sua casa di Brooklyn spingendo un carrello della spesa con dentro un sacchetto di terra e una tanica di gasolio. Arrivato a Prospect Park, scelse un lembo di prato, delimitò un perimetro circolare usando la terra e ci si sedette dentro. Si prese qualche minuto per inviare via email una dichiarazione scritta ad alcuni giornali, dopodiché si cosparse di combustibile e si diede fuoco. Il gesto era stato pianificato e aveva un obiettivo preciso: «La mia morte prematura mediante carburante fossile – aveva scritto Buckel – riflette quello che stiamo facendo a noi stessi».
Il giorno seguente, i giornali riportarono la notizia ma si concentrarono più sul fatto che Buckel avesse lavorato al caso che aveva ispirato il film Boys Don’t Cry, piuttosto che sulle ragioni del suo gesto. Nel giro di ventiquattr’ore, la notizia era scivolata nelle retrovie, sepolta da nuovi articoli sui bombardamenti in Siria e sul direttore dell’Fbi James Comey licenziato da Trump. Non era quello che Buckel aveva immaginato: quel gesto così iconico, che già altrove aveva dimostrato di poter innescare proteste e sommovimenti, avrebbe dovuto forzare il dibattito.
Se non abbiamo prestato tanta attenzione al gesto di Buckel, è anche perché ci risulta difficile inquadrarlo: riusciamo a credere che una persona possa darsi fuoco per protestare contro un regime, più difficile risulta credere che qualcuno possa togliersi la vita per protestare contro il cambiamento climatico. Eppure sempre più studi dimostrano come il riscaldamento globale stia già esigendo un dazio psicologico, non solo tra chi si è trovato ad affrontare disastri naturali, ma anche tra coloro che ancora hanno il privilegio di percepire la crisi climatica unicamente come una minaccia incombente. Una condizione che è stata battezzata ansia climatica.
Qui sorge un’apparente contraddizione, perché da tempo ormai sappiamo che i nostri cervelli non sono evolutivamente equipaggiati per preoccuparsi della questione climatica. Lo psicologo Daniel Gilbert ha sviluppato una teoria secondo cui l’evoluzione ci avrebbe preparato a entrare in allarme solo quando la minaccia che ci troviamo ad affrontare ci colpisce a livello personale, viene percepita come improvvisa, ha caratteristiche che vanno a cozzare con la nostra idea di moralità, ed è temporalmente circoscrivibile al momento presente. La crisi climatica, nonostante le sue ricadute ormai tangibili, sfugge a questo radar. E allora perché soffriamo di ansia climatica?
Una possibile spiegazione è che il cambiamento climatico incida sulla nostra salute mentale principalmente a un livello subconscio. Negli ultimi anni, le ricerche condotte da Nick Obradovich al Mit hanno dimostrato che l’aumento delle temperature globali incide negativamente sulla gestione di ansia, depressione e pensieri suicidi. Ma esiste anche una componente cognitiva, che ha a che fare con lo scarto tra la percezione che abbiamo della realtà e la sua natura sempre più precaria. Il mondo attorno a noi è già cambiato, e anche se ai nostri occhi sembra sostanzialmente inalterato, a un livello meno consapevole questo scarto lo percepiamo, soprattutto quando ci rapportiamo al concetto di «casa».
Per illustrare meglio questo spaesamento, il filosofo australiano Glenn Albrecht ha sviluppato il concetto di solastalgia. Nel suo saggio del 2019, Earth Emotions (Cornell University Press), racconta degli abitanti della Hunter Valley australiana, che si ritrovano a vivere in un luogo deturpato dall’industria mineraria: dove prima si estendeva una bucolica vallata, ora il territorio è butterato dagli scavi delle miniere, la terra trema per le esplosioni e l’aria è pregna di polvere di carbone. «Il paesaggio che un tempo era fonte di conforto – scrive Albrecht – si era trasformato in qualcosa di minaccioso».
Solastalgia è una crasi di solace (in inglese «conforto») e nostalgia che indica la sensazione di angoscia o disagio indotta dalla progressiva incapacità di un luogo di fornire conforto a chi lo abita. Per usare le parole di Albrecht «è la nostalgia di casa quando sei ancora a casa».
Nel suo saggio Perdersi (Meltemi, nuova edizione in uscita il 10 settembre), Franco La Cecla spiega bene come il senso di appartenenza che lega un individuo a un luogo contribuisca a costruire la sua identità, oltre che quella della comunità con cui condivide quello spazio. Non stupisce allora che oggi a sperimentare questa condizione siano innanzitutto le popolazioni indigene, che da sempre basano la propria cultura e la propria struttura sociale su un rapporto diretto con la natura del luogo in cui vivono. Alcuni mesi fa sono stato nella Lapponia svedese, dove ho avuto modo di parlare con i pastori di renne Sami, membri dell’ultima popolazione indigena europea. Durante la stagione dei pascoli i Sami si affidano all’arbitrio delle renne, che li guidano lungo percorsi che con il tempo hanno imparato a conoscere. Negli ultimi anni, però, con l’aumento delle temperature e il cambio del pattern delle precipitazioni, le renne sono sempre più spesso costrette a seguire sentieri nuovi e rischiosi, mettendo spesso a repentaglio l’incolumità dei pastori. Non solo, la frammentazione dei pascoli costringe i Sami a trasportare le renne con i camion, o addirittura a foraggiarle, pratiche totalmente in contraddizione con la loro cultura. «Questa è ancora casa nostra, in un certo senso – mi ha detto un pastore di Övre Soppero – ma allo stesso tempo non lo è più».
Sarebbe un errore però circoscrivere il campo di applicazione di questo concetto alla sola questione climatica. Una forma di solastalgia, ad esempio, l’abbiamo sperimentata dopo il lockdown: il mondo in cui siamo tornati a camminare era sostanzialmente identico a quello pre-Covid, ma molte cose che lo rendevano familiare erano vietate o contingentate. Se il termine solastalgia è nuovo, infatti, lo stesso non si può dire per il sentimento che va a evocare. Basti pensare all’aneddoto riportato da Ernesto De Martino ne La fine del mondo (Einaudi, 2019): mentre si trovava in Calabria chiese a un vecchio pastore di salire in macchina con lui per dargli delle indicazioni stradali: questi accettò ma passò tutto il tempo a guardare fuori dal finestrino e, appena il campanile di Marcellinara scomparve dalla sua visuale, entrò in uno stato di autentica angoscia che non si placò finché non fu riportato indietro.
Il paesaggio umano è in mutamento da tempo, ma questo mutamento oggi è talmente rapido che capita sempre più spesso che un luogo cambi completamente connotati nell’arco della vita di una persona. Oggi il concetto di solastalgia è doppiamente utile: da un lato rende conto della dissonanza percettiva creata da un mondo che continua ad apparire identico pur avendo perso il suo equilibrio, dall’altro sposta il punto focale sul concetto di casa e sulla nostra pretesa di stanzialità. Del resto, un mondo sempre meno abitabile, è destinato a diventare un mondo di solastalgici.