La Lettura, 22 agosto 2020
Cerignola, la mafia anarchica
A Cerignola si torna a sparare, a Cerignola non si è mai smesso di sparare. Di fine luglio l’ultimo agguato: dodici colpi contro il 49enne Cataldo Cirulli. Un uomo, come si dice in sbirresco, attenzionato dalle forze dell’ordine. Del resto lo sono quasi tutti. Su 60 mila abitanti, i pregiudicati rappresentano la metà. Non è una stima, ma un dato oggettivo.
Se la Calabria era indietro di vent’anni rispetto alla Sicilia nel ripristino – per alcuni addirittura nell’insediamento – dello Stato, realizzato grazie all’invio a Reggio dei migliori magistrati e investigatori nazionali, in parte reduci dall’esperienza a Palermo, qui siamo indietro sulla Calabria di almeno altrettanti anni. Il che non toglie, comunque, la presenza di uguali magistrati e investigatori di valore. Ma vanno sostenuti, anziché mortificati.
Non c’è nulla a Cerignola nel senso che esiste tutto: estorsioni, droga, rapine, infiltrazioni, armi, corruzione, occupazioni abusive, furti, truffe, incendi dolosi, una spaventosa violenza minorile, una politica marcia (Comune sciolto per mafia), l’illegalità che scandisce pensieri e azioni, una città deturpata, offesa dai suoi stessi cittadini che nell’assai utilizzato dialetto la definiscono u tmor, il tumore, la malatèi, la malattia. Oppure l a best, la bestia.
Un disastro così esteso, conclamato, al momento definitivo – e così poco mediatico, esplorato dagli intellettuali, battuto dai veri o presunti esperti di mafia e antimafia – che non poteva non aggiungersi il dramma dei migranti. Con i loro slum. Le baraccopoli popolate durante la stagione della raccolta dei pomodori anche da mille africani ed europei dell’Est, in località Tre Titoli, a 13 chilometri da via di Levante, sede della caserma dei carabinieri che ospita la Stazione e la Compagnia. Una caserma afflitta da croniche carenze strutturali (gli impianti dell’aria condizionata guasti, la porta d’ingresso che cede) e al centro di una delle puntate della serie-documentario in onda da settembre sul canale Nove. Titolo: Avamposti. Dispacci dal confine.
«La Lettura» è stata sul set di Cerignola. Al confine, e per davvero. Nel caldo atroce – folate di caldo bollente – della città; negli spazi siderali delle campagne, in una geografia impenetrabile (per estensione è il terzo Comune dopo Roma e Ravenna). Era il 4 agosto. Pochi giorni più tardi, l’ennesimo assalto sulla vicina autostrada A14 di un furgone portavalori. In piena estate, alla luce del sole, nel movimento dei vacanzieri, nel gran fermento delle indagini perché il 24 luglio i banditi avevano tentato un altro colpo.
Non importa. Nessun calcolo, nessuna strategia, nessuna attesa.
Cerignola, provincia di Foggia: la mafia anarchica. Dove uno si sveglia e fa quel che vuole.
Non si dica che è un angolo nero sconosciuto, fermentato di botto, imprevedibile. Per conoscere la storia dei predoni dei portavalori, massimi specialisti in Europa, e delle ramificazioni dei clan, dobbiamo affidarci all’inchiesta-madre «Cartagine». Condotta negli anni Novanta. Ovvero una vita fa.
Da allora, l’unica conseguenza è stata la progressiva estensione della metastasi. S’annuncia dalle piccole cose, che piccole non sono. In strada. La cintura di sicurezza: indossarla significa temere gli sbirri e temere la morte. Dopodiché, mai protestare se l’automobilista davanti frena, mette in folle, scende, entra nella tabaccheria, si ferma a parlare. Bisogna accettare (e subire), altrimenti lo scenario è quello di rimediare pestaggi o peggio.
Altro paragone non viene in mente se non quello degli assalti alla diligenza nel vecchio West, sulle assolate piste solitarie. Nel tempo hanno per appunto assaltato un bus privato delle linee che garantiscono i collegamenti con il Nord; hanno assaltato e assaltano gli ambulanti sui furgoni che vengono per il mercato e ripartono con gli incassi; hanno assaltato camionisti carichi di pesce; hanno assaltato un treno facendo crollare un albero sui binari per chiudere la corsa; hanno assaltato e assaltano chi guida la sua utilitaria per lavoro e transita: due macchine agganciano e inseguono, una supera e taglia la strada, la seconda conclude la manovra a tenaglia. Di solito sono banditi privi di camuffamento. Tanto nessuno s’azzarda a denunciare, nel rischio di una successiva vendetta. Infatti sono rare le segnalazioni a carabinieri e polizia, anche anonime. Se escludiamo le vittime di passaggio e ragioniamo sui cerignolani, il concetto dell’omertà è un dogma. Generato non dagli effetti collaterali della paura, quanto da una deliberata scelta: mi faccio i fatti miei.
Non aiuta certo la filosofia sui sistemi di videosorveglianza. I privati non ricorrono alle telecamere, forse perché a monte non c’è mai stato un esempio delle amministrazioni. A cosa servono gli impianti? Chi vuol rapinare lo fa lo stesso, chi vuole incendiarti il negozio pretendendo il pizzo lo fa lo stesso; inoltre disporre di filmati sarebbe un grosso aiuto agli sbirri. Quindi un fastidio. Si arrangino.
Sbirri odiati, sfidati, sbeffeggiati. Via di Levante, la notte, è un circuito abusivo di corse automobilistiche. Quando in caserma guarderanno la puntata, è probabile che da fuori se ne inventeranno di ogni pur di coprire i rumori della televisione: sgommate, accelerate, urla, insulti. Come aveva detto un balordo, poi devastato dai proiettili di un fucile a canne mozze, «a noi le pallottole ci rimbalzano addosso». La convinzione di invincibilità è pari a quella di impunità. Un altro balordo venne svegliato dai carabinieri all’alba. Erano lì per eseguire una cattura. Quello fissava i polsi ammanettati. Anzi, fissava l’orologio. Impaziente. Iniziò a protestare. Alle 6 sarebbe dovuto andare ad aprire i cancelli della villa comunale. Aveva le chiavi. Sul serio. Un pregiudicato al quale l’amministrazione aveva affidato l’incarico. Capita, se consideriamo la frequenza con cui ai pregiudicati non vengono recapitate le bollette e le tasse. Non le pagherebbero mai, s’intende, ma nel dubbio possano soltanto infastidirli, i politici lasciano stare. Per carità.
Numerosi i manifesti pubblicitari in vista delle elezioni, quando ci saranno. Eterna occasione per capire se correranno di nuovo dei burattini o qualcuno con coscienza. Il volontariato fatica a sorgere, i cittadini virtuosi (vi sono straordinari percorsi di imprenditori di qualità) sono additati a schifosi complici dello Stato, a traditori, a infami. In troppi ricordano che qui nacque il battagliero Giuseppe Di Vittorio e si vantano, offendendone la memoria. Le violenze domestiche riguardano mamme picchiate dai figli. Ragazzini. Bambini. Per rimediare i soldi necessari a comprare la droga e garantirsi i pellegrinaggi nelle campagne dalle prostitute africane. La conoscenza del sesso avviene così. E può concludersi con altre violenze. Per sfogo, scommessa, scherzo. Protesteranno mai, queste ragazze? Ricorrere alle istituzioni che poi, essendo loro irregolari, magari le espelleranno? Sfuggire al racket innescando le vendette sui figli in Nigeria alimentate giorno dopo giorno dai riti magici? Impossibile.
La località Tre Titoli è avvolta dai mulinelli di terra spinti dal vento, da rettilinei di saliscendi, dai colori accesi della terra, da branchi di randagi (le indicibili torture e l’abbandono dei cani sono abituali), da diroccate case di pietra dei contadini abitate dagli schiavi del caporalato. Manca una connessione, tra mafia e migranti: la prima non vuole il controllo del territorio. Non le interessa. Gli agricoltori, impegnati in faide contro i vicini (trattori bruciati e prepotenza delle guardie campestri) possono imbrogliare (emblematica una maxi-truffa di olio d’oliva annacquato e destinato all’estero) e devastare (i campi custodiscono rifiuti sotterrati). Mai dovranno chiedere il permesso. Eventualmente, verseranno una parte dei guadagni ai clan. Due quelli egemoni, i Ditommaso e i Piarulli-Ferraro, attorniati da una costellazione di bande. La famiglia è il collante. Vincoli di sangue, generazioni di reati e detenzioni. La galera è un onore al merito, un nuovo tatuaggio.
Mai come a Cerignola abbiamo assistito alla solitudine degli uomini dello Stato. Salvatore Giaccoli, un entusiasta, un trascinatore, comanda la Stazione dei carabinieri. Nella truppa si ripete che in città si piange due volte, quando arrivi e quando te ne vai: crea uno strazio, questo pezzo d’Italia aggrappato a comportamenti primitivi, con una società civile inerme, rintanata. Come chi crede nel lavoro, anche Giaccoli ha i suoi fantasmi.
Una giovane polacca era stata rapita da tre aguzzini, chiusa in un rudere, incatenata e violentata; violenze singole e di gruppo, violenze regalate agli amici. Rimase incinta. Cercarono di interrompere la gravidanza. Bastonate sul ventre. Nessuno sa come, forse soltanto ipotizzando che quel bimbo fosse un predestinato, ma la ragazza, d’una bellezza folgorante cancellata dagli sfregi e dalle ossa rotte, riuscì a scappare. Le mani sulla pancia, nuda, si trascinava lungo la statale. Un automobilista la soccorse (tanti altri in precedenza avevano girato lo sguardo).
Il piccolo nacque. Sano. Giaccoli accompagnò quella madre nelle campagne, alla ricerca del punto della prigionia, per risalire agli aguzzini. Lei aveva perso l’orientamento, un posto era identico all’altro. Lasciò il figlio, che andò in adozione, e scomparve. Lontana da Cerignola. Lontana da un universo di balordi dai venerati soprannomi: Mano mozza, Occhi di ghiaccio, Cobra. Lontana da una mafia che vuole rimanere distinta da quella del Gargano e dalla «società foggiana», che parimenti flagellano la Puglia. Lontana dal gigantesco traffico di macchine rubate (i pezzi sono rivenduti sui siti online ufficiali). Lontana dalle aggressioni al pronto soccorso (un balordo in codice verde deve essere visitato prima degli altri). Lontana dalla concezione tribale della scena del crimine quale fatto privato: il lavaggio delle macchie di sangue e l’acquisizione di indizi; inquinare il sopralluogo degli sbirri, costruirsi la vendetta.
Cerignola: caso unico di una mafia che si fonda su una rigorosa geografia. Quella della città.
Altri soprannomi dei delinquenti: u Scilleratu, Tritolo, u Ribellione.
Negli elenchi dei pregiudicati morti, la voce «omicidio» supera quella del «decesso per cause naturali». Ampiamente.