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 2020  agosto 22 Sabato calendario

Stato nelle banche, non sempre è lieto fine

Finita l’estate, le vicende Monte dei Paschi di Siena e Popolare di Bari riporteranno nell’agenda del governo il tema dello Stato Banchiere. È allora utile ricordare che, da sempre, l’intervento dello Stato nel settore è simile ad una commedia in tre atti in cui il politico è un deus ex machina affatto particolare, il cui volto cambia con il procedere del racconto.
Il primo atto è quello in cui il politico decide di intervenire direttamente nel settore bancario. L’ultima volta che ciò è accaduto in modo sistematico nei Paesi avanzati è stato dall’inizio conclamato della Grande Crisi Finanziaria del 2008. Da un momento all’altro, si creò una crisi di fiducia nella stabilità del sistema bancario, nata dalla constatazione che il debito privato fosse eccessivo. Non solo: la produzione e distribuzione di debito era diventata sempre più complessa, e si era unita alla profonda interconnessione tra famiglie, imprese, mercati ed intermediari, anche apparentemente molto lontani tra loro, con un risultato disastroso: non si sapeva più dove era il rischio.
La crisi di fiducia nel settore privato impone allo Stato, cioè ai politici, di intervenire: il loro dovere – ed anche la loro convenienza – è quella di produrre un bene pubblico – la stabilità – che i mercati privati non sono in grado di garantire. Oggi abbiamo tutti i dati per capire con quali modalità e con quali effetti si è realizzato il ritorno dello Stato Banchiere partire dal 2008. Il volto dello Stato Banchiere è quello del politico che produce un bene pubblico: evita la crisi di fiducia, consente di evitare che i rapporti di debito e credito si inceneriscano, paralizzando l’attività economica. L’intervento del politico può essere indiretto – lo Stato fornisce garanzie – o diretto – lo Stato diventa azionista, magari di maggioranza. È successo anche in Italia. E non è affatto una novità.
Il primo atto – il politico interviene per perseguire il bene pubblico – è infatti sempre uguale, da quando esistono le banche. Su queste pagine – con inaspettato interesse e curiosità da parte dei lettori – sono state ricordate le vicende bancarie della Repubblica di Venezia. Ebbene, è in quella Repubblica che muove i primi passi di una delle prime banche pubbliche dell’era moderna: il Banco di Rialto, istituito nel 1587. Dalle cronache dell’epoca gli allora senatori della Serenissima appaiono davvero riottosi ad occuparsi di qualcosa – custodir depositi e fare prestiti – che devono fare i privati. Ma alla fine, dopo tre anni di discussione, di fronte ai ripetuti fallimenti dell’iniziativa privata, diremmo “obtorto collo”, i senatori istituiscono una banca pubblica, perché i Veneziani devono aver la certezza che la carta che chiamano depositi abbia un valore certo.
Ma poi c’è il secondo atto. Nel secondo atto emerge come il politico che si occupa direttamente di produrre qualcosa – in questo caso depositi e prestiti – può avere un altro obiettivo: drenare risorse dal settore in cui opera, o redistriburle secondo criteri non economici: chiamiamolo il Fattore P. Se il Fattore P è attivo, allora le scelte dei politici nei confronti delle banche rischiano di essere inefficienti – se va bene – o predatorie e corruttive– se va male. Un recente studio econometrico degli interventi bancari degli Stati membri dell’Unione Europea – National Bureau of Economic Research, numero 27537 – mostra che in generale gli interventi diretti non hanno risposto all’esigenza economiche delle banche in difficoltà di essere ricapitalizzate, ma sono state appunto condizionati dal fattore P: la ricapitalizzazione non c’è stata, oppure è stata insufficiente. Anche il fattore P non è una novità: sempre nella Serenissima Repubblica, quando l’esigenza dei senatori di drenare risorse private divenne pressante, le banche pubbliche da loro stessi create entrarono, in un modo o nell’altro, in crisi. La banca del Rialto chiuse definitamente i battenti nel 1637.
Il terzo atto è quello finale. Lo Stato Banchiere è entrato in scena per produrre un bene pubblico, ma più il tempo è passato, più il Fattore P è diventato una zavorra, esplicita o implicita, anche per chi quella banca deve amministrare. Emergono così gli effetti distorsivi del Fattore P sull’allocazione delle risorse. Per quel che riguarda il presente, lo studio econometrico sopra ricordato mostra che le distorsioni provocate dallo Stato Banchiere hanno riguardato una riduzione del credito alle imprese a favore dei titoli di Stato, un eccesso di credito per le imprese zombie – quelle cioè che dovrebbero fallire – inevitabilmente accompagnata da una aumento della rischiosità dei prestiti, nonché da una dipendenza eccessiva dai prestiti della Bce. In generale, i rischi che il Fattore P si inoculino appaiono correlati alla durata. Se l’intervento pubblico è rapido, efficace e temporaneo, lo Stato banchiere funziona, come in Svezia negli anni Novanta. Altrimenti, si rischia il caso Giappone, del decennio successivo. Il terzo atto è quello decisivo: ci può essere il lieto fine, oppure il dramma. Dipende dal politico di turno.