Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  agosto 22 Sabato calendario

Intervista a Bebe Vio

A un certo punto Beatrice «Bebe» Vio – schermitrice italiana, atleta paralimpica, medaglia d’oro ai giochi di Rio del 2016, classe ‘97 – parla di fortuna; si prende un istante e poi dice: «La vera fortuna è avere delle persone dietro di noi, con noi e davanti a noi». È svelta e decisa, ogni frase è come una stoccata di fioretto: vuole fare centro, e ci riesce. «In questo sport, non c’è un super cattivo da combattere o da sconfiggere. C’è l’ignoranza, più che altro. Perché questo è un mondo che non si conosce. Prima di diventare disabile, io non conoscevo disabili».
Rising Phoenix, il film di cui è protagonista, disponibile su Netflix dal 26 agosto, racconta le Paralimpiadi, il senso dello sport e le persone che ne fanno parte. «Io sono una super fan di Alex Zanardi – ammette Vio – ed è una figura talmente grande da essere irraggiungibile. Per me, i veri supereroi sono le persone come lui».
Facciamo un passo indietro e partiamo dal principio.
«Se ho iniziato a fare sport, è stato grazie a loro: a Pistorius e a Zanardi. Pistorius è stato il primo che mi ha detto di provarci, di divertirmi, di lasciarmi andare. Zanardi, invece, è stato un po’ come un padre per me. E mi ha ripetuto la stessa cosa: l’importanza della testa, della giusta mentalità».
Si impara in continuazione?
«Alle Paralimpiadi ho visto cose pazzesche. Ho visto la persona più alta del mondo accanto alla persona più bassa del mondo. Ho visto squadre di calcio di non vedenti in fila a mensa, uno dietro l’altro, in contatto, mentre si parlavano e si aiutavano a vicenda».
Cos’altro ha visto?
«Cose che non avevo mai visto prima, ecco. Persone con le più diverse disabilità che si impegnano ogni giorno, ogni momento, per fare qualunque cosa. Anche la più piccola. Soprattutto la più piccola. E dalla fatica di afferrare una forchetta si passa all’energia dello sport».
Che cosa si pensa in quei momenti?
«Che davanti a tutto questo impegno ti senti uno schifo se ti lamenti».
Ci sono molti giovani, oggi, negli sport paralimpici.
«Questo, però, è un mondo nato vecchio. Adesso sta aprendo le porte ai giovani, grazie ai volontari e alle associazioni. Dopo Londra 2012, c’è stato un grandissimo cambio generazionale. Quando sono arrivata io, erano già tutti grandi, tra i venti e i venticinque anni».
Le cose, insomma, stanno cambiando.
«È il mondo che sta cambiando. La cosa bella dei giovani è che sono persone che si allenano nelle palestre insieme con tutti gli altri. Un atleta, così, riesce a cambiare la mentalità di coloro che gli stanno attorno».
In che modo?
«Adesso sono le nuove generazioni che stanno insegnando a quelle vecchie: sia come si usa un telefono sia come si parla».
Dopo «Rising Phoenix», qual è il prossimo passo?
«L’obiettivo, ora, è girare una serie tv sulla preparazione durante il lockdown. E la mia storia sarà allargata agli altri ragazzi della nostra associazione, la art4sport. Quella che verrà raccontata sarà la vera me: quella che lavora in squadra».
Come ha vissuto la quarantena?
«In un certo senso, mi è servita. Mi ha dato la possibilità di rallentare. Io non riesco quasi mai a dire di no. I miei genitori me lo ripetono sempre: stacca un po’, riposati. Durante la quarantena, dormivo tredici ore al giorno. Avevo bisogno di fermarmi. Anzi, tutti avevamo bisogno di fermarci».
Perché?
«Ritrovarsi in famiglia, con i miei genitori e i miei fratelli, mi ha permesso di riscoprire il valore degli affetti. Si può stare bene anche nella semplicità. Senza viaggiare. Rimanendo, anche se per poco, anche se per un attimo, fermi».
Cos’è che conta di più?
«Quando incontro un atleta paralimpico, non vedo l’ora di sapere cosa gli è successo. Perché la verità è questa: ci si innamora delle storie e soprattutto ci si innamora delle persone».
Ma cosa vuol dire, poi, «giusta mentalità»?
«Non c’è una definizione. Perché ognuno di noi ha la sua mentalità. Quello che mi ha aiutato, personalmente, è non essere mai stata sola. Io non ho un mio obiettivo, una cosa personale; ho un obiettivo di gruppo, un obiettivo che appartiene a tante persone. Ed è questa la più grande fortuna. Abbiamo lavorato e continuiamo a lavorare insieme. E quando vedo i bambini della nostra associazione, ritrovo la carica».
E allora che cosa resta?
«Nessuno conosce la ricetta per vincere, ma tutti sanno come si perde. Sai cosa non devi essere, cosa devi evitare. Ma nessuno ti può spiegare come si arriva alla vittoria».
Ora bisogna ripartire.
«Secondo me bisogna solo andare avanti. Le persone si innamorano dello sport perché si innamorano delle storie di chi fa sport. E ora abbiamo bisogno proprio di questo: di persone capaci di evocare lo spirito dello sport, lo spirito delle Paralimpiadi. Come ha fatto e fa Zanardi».