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 2020  agosto 22 Sabato calendario

Biografia di Marcello Baraghini raccontata da lui stesso

Uno degli ultimi editori puri prova a rinascere dalle ceneri della sua casa editrice, Stampa Alternativa, che compie cinquant’anni. Ed è un po’ una festa e un po’ un funerale, celebrarla. Bisognerebbe prima o poi raccontare la vita del suo fondatore, un affabile e stravagante visionario che risponde al nome di Marcello Baraghini. A dire il vero qualcuno ci provò, girando spezzoni di un documentario su di lui.

Un regista che aveva già raccontato storie di personaggi famosi e che per puro caso si era imbattuto in Baraghini: «Si chiamava Steve Gebhardt, americano di origine tedesca. Girava un documentario ogni cinque anni. Ne realizzò su John Lennon e Yoko Ono, sui Rolling Stones, su Zaha Hadid. Per puro caso ci conoscemmo a Pitigliano dove io vivo. Per tre anni, almeno un mese all’anno, veniva dall’America con una piccola troupe e filmava tutto quello che facevo. A me la cosa divertiva. Anche se non riusciva a finire il lavoro. Gli dedicai un’intera giornata, proiettando ininterrottamente per due giorni i suoi documentari. Il gran finale dovevo essere io. Ma il film continuava ad essere incompleto. E ne vedemmo solo una parte. Poi tornò in America. Tra una bevuta e l’altra promise di tornare presto. Morì d’infarto l’anno dopo. Era il 2015.
Fui contento di averlo omaggiato dedicandogli una parte del mio festival. Che proprio in questi giorni è giunto alla XIX edizione».
L’hai chiamato Festival internazionale della letteratura resistente. Resistere a cosa?
«Al regime editoriale da cui mi sono autoescluso e sono stato escluso; ai libri farlocchi e modaioli; alle classifiche per cui tutti aspirano al bestseller come al biglietto della lotteria; agli autori fighetti e impegnati; a quelli che del marketing librario hanno fatto una fede cieca. Ma quando impareremo che leggere è innanzitutto una passione civile che si apprende da piccoli! Questo Festival dedicherà molto spazio ai bambini, a loro che forse un giorno saranno i lettori del futuro. Ma per esserlo devono cominciare da subito».
Per dirla con il linguaggio dei "game" a quale delle tue numerose vite sei giunto?
«Boh, forse la terza. Ho 77 anni, a volte mi sento un ciarlatano che spruzza cortine fumogene, altre un mago che prova ad azzeccare la carta vincente. E aggiungo che sono tutt’altro che un santo, anche se un certo odore di santità mi pare si stia diffondendo intorno a me».
E non sei contento?
«Per niente, Baraghini è un radicale da marciapiede e un editore all’incontrario».
Sei stato un adepto di Marco Pannella.
«Devo tantissimo a quell’uomo, a cominciare dal modo in cui mi accolse dopo la mia fuga dalla casa dei miei».
Perché te ne andasti?
«Vent’anni, avevo vent’anni. Oggi sei già vecchio, allora ero ancora minorenne. Non avevo sogni tranne quello che da grande avrei fatto il capellone. Capisci? Pensavo che bastasse farsi crescere i capelli per dimostrare al mondo che io ero altro, forse migliore. Certamente diverso».
I tuoi come reagirono?
«Mio padre non fiatò. Mia madre, tra le lacrime, mi disse che l’avrei fatta morire. Ma come immaginavo campò ancora a lungo».
Dove sei nato?
«Sull’Appennino Tosco-Emiliano, più estremo e povero, nella casa contadina della famiglia di mia madre. Venni al mondo il 19 novembre 1943. Mi raccontarono che dopo pochi giorni, nel bel mezzo di una bufera di neve, fui trasportato in una grotta scavata sotto una quercia secolare, dove passai i primi mesi di vita; mentre nella casa situata in un punto strategico della linea gotica si alternavano il comando tedesco e quello partigiano».
Hai mai pensato al significato di quella sistemazione?
«Un posto vale l’altro, ma aver vissuto i primi mesi della mia vita sotto un albero forse mi ha trasmesso un amore speciale per la terra. Lo vedi no? Tra le altre cose mi piace fare orti, vivere la campagna nel modo più semplice possibile. Da bambino ci trasferimmo con i miei a Roma, in una stanza in affitto. Mia madre ormai casalinga a vita, mio padre usciere premiato per la sua fede fascista, recidivo, ma con me muto e discreto in tutto e per tutto. Non l’ho mai capito. Non mi ha mai capito. Andarmene non fu dunque un dramma. Quello che cercavo era una nuova famiglia».
L’hai trovata?
«Nei miei vagabondaggi mi imbattei nel Psiup, proprio nel momento della sua fondazione. Pensavo di incontrare degli anarchici e invece era solo una sinistra un po’ meno ortodossa del Pci. Rimasi deluso. Mi colpiva che uno degli argomenti preferiti era parlare male di Pannella. Era un’ossessione. Tanto che mi venne voglia di conoscere il "diavolo". Andai a trovarlo nella prima sede dei radicali – in via XXIV Maggio – suonai al citofono e poi il campanello al terzo piano. Fu lui che mi venne ad aprire. In quel momento ebbero inizio i miei sessant’anni da radicale da marciapiede».
A Roma come ti mantenevi?
«Le prime entrate vennero dal mio rapporto con la rivista L’Astrolabio fondata da Ferruccio Parri. Il senatore mi aveva quasi adottato. Prima mi volle come redattore di tipografia e poi, per un breve periodo, direttore responsabile».
La Roma culturale in quel periodo voleva dire soprattutto il gruppo Moravia-Pasolini-Morante. Ti è accaduto di frequentarlo?
«A parte che Moravia e Elsa Morante non è che si frequentassero così assiduamente dopo il divorzio, c’è da dire che non era facile entrare in sintonia. Non avevo i codici di accesso. Non avevo letto i libri che piacevano a loro. Piuttosto frequentavo il Beat 72 di Simone Carella. Forse se avessi conosciuto la Morante avrei potuto incuriosirla con la mia vita randagia e controcorrente. Ma non è accaduto».
Cosa leggevi, cosa ascoltavi?
«Tutto quello che mi capitava di controcultura.
Naturalmente Jack Kerouac era al primo posto. Quanto alla musica ascoltavo Grateful Dead, Bob Dylan e tanti altri, il rock insomma. Mentre ai piani alti della sinistra, nel movimento studentesco, si affermavano Paolo Pietrangeli, Ivan della Mea, Giovanna Marini, il canzoniere del Lazio».
Vuoi dire che il tuo era uno sguardo internazionale?
«La controcultura si stava facendo negli Usa. E non è un caso che quando fondai Stampa Alternativa nel 1970 guardavo all’esperienza della stampa americana e inglese. Pubblicai un manuale della coltivazione della marjuana, per il quale prima fui condannato a 13 mesi e poi assolto con formula piena; un testo sull’obiezione di coscienza, libretti alternativi sull’India, un manuale contro la famiglia e di autodifesa dei minorenni. Quel libretto mi costò un’altra condanna a 18 mesi. E il sequestro delle copie. Fu spiccato un mandato di carcerazione per apologia dell’aborto».
E tu che cosa facesti?
«Scelsi la latitanza, venni a vivere proprio da queste parti, nella Maremma grossetana. Poi ci fu l’amnistia e io decisi di restare dove ero. Mi trovavo bene, protetto come nei miei primi mesi di vita sotto il cavo della quercia».
Immagino che non pensassi che saresti diventato l’uomo più invidiato dell’editoria italiana.
«E più odiato. Quando inventai la collana dei "Millelire" non credevo che sarei arrivato a vendere complessivamente 20 milioni di copie. Era la fine degli anni Ottanta, un decennio che si era lasciato alle spalle la politica militante e i sogni di una società diversa. Il comunismo arrancava con le sue pesantezze ortodosse, cadeva il muro di Berlino, l’Occidente sembrava aver sbaragliato il campo e vinto su tutta la linea. Pensai a dei libri piccoli, agili, provocatori che raccontassero questa parte di mondo nelle pieghe meno conosciute. La casa editrice arrancava. In previsione di una crisi che poteva essere fatale mi presi la libertà, per puro divertimento, di lanciare una provocazione: scarnificare la forma, abolire la copertina e riempire 32 piccole pagine di contenuti forti, divertenti e eccitanti al solo costo di un caffè di allora».
Una scommessa folle.
«Ma sì, tanto è vero che per tre anni dal 1989 al 92, quei piccoli libri, me li cantai, suonai e ballai in solitudine: decidendo i titoli, stampandoli e vendendoli sui marciapiedi e porta a porta. Fin quando Corrado Augias, nella trasmissione "Babele", mise la Lettera sulla felicità di Epicuro davanti alla telecamera esclamando: "Vedete, questo libro vale milioni e costa solo mille lire!" Improvvisamente il vento cambiò. Ci fu un boom di vendite e invademmo il mercato».
Tanto successo ti fece diventare ricco.
«Macché, non divenni né diventerò mai ricco! Il flusso cospicuo di miliardi richiese investimenti in infrastrutture e gestione finanziaria che ci trovò impreparati. Le banche, che ci anticipavano i soldi per stampare milioni di copie, prima dell’arrivo del denaro dei proventi dalle librerie, ci risucchiarono tutta la redditività. Loro ci guadagnarono. Noi ci indebitammo, carenti come eravamo di gestione finanziaria e di impresa».
Tra le perle della collana ci furono i libri di Albert Hofmann, lo scopritore dell’Lsd.
«Negli anni, diciamo, psichedelici avevo provato l’Lsd, perciò decisi che volevo incontrare e conoscere il personaggio che aveva contribuito a cambiare la cultura giovanile di quegli anni. Sapevo che era un uomo molto serio, composto nel vestire e nei modi.
Così me lo descrissero. E dopo esserci scambiati varie letterine, lo invitai in Italia, organizzandogli un incontro pubblico a Milano».
C’è una foto che vi ritrae insieme, lui vestito come un commendatore e tu completo con sciarpa di lana a quadrettini.
«Ero ipnotizzato e un po’ intimorito da quest’uomo che aveva contribuito a cambiare il canone della cultura alternativa. Volevo presentarmi a modo, in fondo era pur sempre uno svizzero. Andai ad accoglierlo alla stazione per accompagnarlo alla sala della Biblioteca Sormani, dove tenne una lezione memorabile sui diversi gradi della percezione della realtà. C’era una grande folla giovanile ad ascoltarlo e lui fu sorpreso dall’interesse che la sua scoperta, "il bambino pericoloso" così la chiamava, continuava a suscitare».
Il fenomeno dei "Millelire" durò qualche anno, perché si esaurì?
«Fummo letteralmente espulsi dal mercato da una concorrenza che imitò smaccatamente il prodotto, ma stravolgendolo e banalizzandolo. Provai a inventarmi nuove collane, ma non ce la feci a risalire la china».
Però ancora oggi continui a fare l’editore.
«È come una seconda pelle. Si consuma, si stacca e ricresce. C’è una libreria a Pitigliano che è un punto di incontro, c’è Stampa Alternativa che è rinata nella versione di Strade Bianche. Ci siamo inventati, nell’intenzione di proseguire idealmente l’avventura dei "Millelire", i "Bianciardini"».
C’entra lo scrittore?
«C’entra, c’entra. Sono libretti smilzi, perfino di otto pagine, redatti nel puro spirito di Luciano Bianciardi e poi del figlio Ettore. Lui pensava a qualcosa che chiamò "libri infiniti", quasi sulla soglia della smaterializzazione. Un’intuizione che ho cercato di seguire, realizzando testi forti e provocanti, al prezzo di copertina di un centesimo. Ho abolito il codice a barre, è il lettore che fa il prezzo».
Non sei cambiato.
«Perché dovrei, lì dentro c’è tutta la mia vita».
Qual è il difetto più grande che ti riconosci e l’errore che non rifaresti?
«Mi indigno spesso e sono un visionario. L’errore è stato di sfidare il mercato editoriale dall’interno».
C’è un editore cui avresti voluto somigliare?
«Angelo Fortunato Formiggini. Mi ispiro ai suoi libri preziosi e provocatori che sfidarono il conformismo culturale durante il fascismo, fino a costringerlo, lui ebreo, al suicidio per evitare la deportazione nel lager insieme alla sia famiglia».
Ho visto un cartello in casa tua: "Vivi ignorato" è di Epicuro?
«No, è di Gadda, ed è la rielaborazione di una sua frase: "Per favore mi lasci nell’ombra". Mi rappresenta adeguatamente, come io non saprei dire meglio».